ELZHI - THE PREFACE (Fat Beats, 2008)

giovedì 25 settembre 2008

"Show these motherfuckers what a classic is" - una frase tratta dall'intro che ben riassume le aspettative createsi attorno al solista di Elzhi nel corso degli anni e che fa ben sperare: il Nostro è cosciente che centinaia di migliaia di backpacker lo attendono al varco e dunque sa anche che non può deludere. Tuttavia, ci sono alcune caratteristiche tipiche del classico che sono impossibili da definire all'istante dell'uscita, principalmente per una mera questione di tempo: la longevità, ad esempio. Oppure (più importante ma senza essere una conditio sine qua non) la capacità di esercitare influenza su altri artisti e sulle loro future uscite, come ad esempio fecero a loro tempo album come The Chronic o Nation Of Millions.
Nonostante queste impossibilitazioni, però, si potrebbe comunque intuire se in Preface la stoffa del classico sia presente o meno, e qui la risposta non riesce comunque ad essere definitiva. Certamente viene facile notare una cosa: dal punto di vista lirico questo disco è senz'altro il meglio che sia mai stato offerto da Elzhi, e con altrettanta certezza posso dire che è superiore a qualsiasi uscita degli ultimi tempi; mi spingo a dire che l'unico che riesca a tenergli testa è Joell Ortiz, per il resto non c'è proprio paragone.
Le quindici tracce che compongono The Preface sono un'ode all'emceeing nella quale Elzhi trova il tempo per affrontare pure esibizioni di stile così come canzoni concettuali, passando per note autobiografiche o introspettive e spesso intrecciando tutte queste cose con estrema attenzione. El non è dunque schiavo del suo stile -un piacevole ibrido tra metrica serrata a rime intrecciate ed uno stile (swagger, direbbero alcuni) molto più pacato che fila liscio come l'olio- ed anzi comprende meglio di molti altri che lo hanno preceduto che questo è "solo" un mezzo, non un fine. Facendo una metafora automobilistica che spero mi perdoniate, mentre altri viaggiano a 150 sia sullo sterrato che sull'asfaltato, prendendo cantonate a destra e a manca, il Nostro si sa gestire e preme sull'acceleratore solo quando ce n'è bisogno favorendo l'uso di freno e frizione se c'è da prendere qualche curva. Queste ultime sono perlopiù rappresentate dalle varie concept tracks dell'album (in D.E.M.O.N.S., ad esempio, rinuncia volontariamente a qualche rima giocandosela con assonanze e dizione), mentre i rettilinei sono le canzoni più spinte, dove o si trova a competere con altri (Fire), o semplicemente è libero di rivoltare il vocabolario a suo piacimento ed in totale libertà (Brag Swag).
Nel dettaglio, cosa ci offre Preface? Guessing Game, ad esempio, vede impegnato il nostro nel chiudere i versi con parole la cui ultima sillaba -che sta a noi indovinare- va ad aprire la successiva. Colors, invece, è una sorta di giochino vagamente reminescente della storica Labels (ma più che altro Fame) in cui, abbinando termini o modi di dire contenenti definizioni cromatiche (che so, "white collar crime" o "brownstone"), viene abbozzato un piccolo storytelling incentrato su miserie di vario tipo (abuso di potere da parte dei pulotti, black-on-black crime ecc.). Ma senz'altro la più soddisfacente tra tutte è l'eccellente D.E.M.O.N.S., dato che non solo contenutisticamente è più solida delle altre -si parla di demoni come metafora di negatività e situazioni avverse- ma soprattutto perchè è quella eseguita meglio in cui forma e contenuto vanno a pari passo. Sfruttando i vantaggi degli acronimi, infatti, Elzhi denuncia esempi di degrado di vario tipo (ad esempio "Deceitful Elections Monitor Our Nation") legando un passaggio al successivo e così via; so che detta così nun se capisce 'na fava, ma ascoltatela e tutto vi sarà più chiaro.
Ma oltre a queste chicche vi sono tutta una serie di manifestazioni di figaggine generalmente ben più che convincenti: la didascalicamente intitolata Brag Swag ne è l'esempio più fulgido (due strofe da applausi), ma anche quanto fatto sul remix di Fire, Yeah o Motown 25 fa allentare la mascella; specialmente se si paragonano le prestazioni di El a quelle offerte degli eventuali ospiti che, pur essendo generalmente bravini o più, vengono puntualmente eclissati ogni qualvolta il Nostro apre bocca. Infine, per chiudere il versante emceeing, solo una cosa: l'unico vero fastidio che ho provato in tutto Preface è quando in ciascuna concept track El perde tempo a SPIEGARE cosa starà per fare, come Kenshiro prima di mazzuolare qualcuno... boh, io non mi reputo un pozzo di scienza, ma francamente non sento il bisogno di farmi fare i disegnini per comprendere ciò che una persona sta facendo. Voglio dire: ok, ci sono gli svantaggiati che ancora oggi non capiscono I Gave You Power o I Used To love H.E.R., ma se calibrassimo le nostre esistenze su questi allora, prima di dirgli che andiamo in giro hittin' switches on our six-foe's, dovremmo illustrargli le invenzioni dell'uomo dalla ruota in poi.
"Ma purtroppo, dove in quanto ad emceeing siamo alla perfezione, sul versante dei beat la situazione s'ingrigisce": vi ricorda qualcosa? E' una volgare autocitazione dalla recensione di Joell Ortiz che in parte si può ripetere anche per questo caso. Dico in parte perchè The Preface è, in realtà, prodotto molto meglio di Bodega Chronicles; solo che da Black Milk mi sarei aspettato di più. Intendiamoci: la spettrale D.E.M.O.N.S., l'omaggio dilliano di Brag Swag o la magnifica pesantezza delle batterie di Detroit 25 sono solo alcuni esempi della bravura qui mostrata dal giustamente osannato produttore. Epperò vi sono casi dove ci si chiede se non avrebbe potuto e dovuto osare un po' di più, come a suo tempo era avvenuto per Popular Demand; magari sarà che oramai mi sono abituato ad un certo tipo di suono, ma The Leak o Colors, e ancor di più la banalotta Transitional Joint (basta porcoddio co' ste vocine), sono tanto piacevoli quanto prive di mordente. Forse le mie sono richieste ingiuste dovute più ad aspettative che a critiche effettive, ma è anche vero che trovo "ingiusto" che l'MC dia il meglio di sè in quanto ad abilità e creatività -rischiando- mentre tu te ne stai più o meno abbarbicato al tuo talento "standard" senza osare un granchè, limitandoti al massimo a perfezionare e rifinire quanto fatto finora. Diciamo che in rari casi, e questop è uno di essi, preferisco che vi sia qualche guizzo d'inventiva che magari può non piacermi del tutto ma che di certo va ad aumentare le mie motivazioni per l'ascolto in profondità del disco.
Tolto quest'unico neo, che dire? Beh, innanzitutto che secondo me non è un classico. Certo, non ci sono tracce brutte -questo assolutamente no- ma purtroppo le punte di eccellenza sono secondo me un po' troppo sporadiche (glissiamo sul fatto che alcune erano già state sentite su Europass). Inoltre resta il fatto che qui Black Milk non è stato capace di dare quel colpo di reni che gli avrebbe consentito di stare alla pari con Elzhi, col risultato che alle volte s'insinua un senso di déjà vu indegno di un classico e indegno soprattutto del magnifico lavoro fatto da quest'ultimo. Ciò nondimeno The Preface è un gran, GRAN disco che merita tutta l'attenzione degli ascoltatori di rap e che va ad inserirsi al primo posto della classifica di miglior disco dell'anno.



VA - HOME: BOSTON UNDERGROUND HIP HOP (Landspeed, 2001)

mercoledì 17 settembre 2008

Come ho già avuto modo di scrivere in precedenza, fino alla fine degli anni '90 Boston era stata fondamentalmente periferica rispetto al movimento dell'hip hop. Certo, c'erano alcuni artisti come EdO.G. & the Bulldogs o gli Almighty RSO che in passato avevano provato a "metterla sulla mappa" (perdonate l'italianizzazione, ma visti i tempi conviene abituarvisi), ma questi tentativi erano sempre rimasti commercialmente irrilevanti e dunque culturalmente snobbati dalla comunità reppusa internazionale. Ma intorno al 2000 vi furono due case discografiche -la Brick ma soprattutto la Landspeed- che raccolsero attorno a sè la crème de la crème di ciò che la città aveva da offrire e, complice un ottimo sistema di distribuzione, inondarono con singoli e EP un mercato che stava pian pianino scivolando nella stagnazione.
Home rientra dunque all'interno del sopracitato contesto, essendone una sorta di summa: Insight, Krumb Snatcha, 7L & Esoteric, Edan, Reks... chiedete e vi sarà dato. Mancano solamente Virtuoso ed il veterano L Da Headtoucha, ma per il resto la fotografia composta da questi 15 pezzi è straordinariamente nitida e rispecchia perfettamente quel florido periodo; non dovrebbe stupire perciò l'elevata qualità del prodotto, tant'è vero che in diversi casi le canzoni presentate dagli artisti diverranno i singoli dei relativi futuri album.
E' questo il caso di Rekless, singolo di quel Along Came The Chosen da me già recensito qualche tempo fa e che pertanto non vale la pena di descrivere una seconda volta; oppure, ancora, di Rap Religion di Insight. Ecco, qui vale la pena di spendere un paio di parole per descrivere la canzone e l'artista: innanzitutto, va detto che 'Sight è uno dei pochi che si rifanno ad un suono antecedente il '95 riuscendo a mantenerne le atmosfere ma al contempo riaggiornandolo e rendendolo digeribile ai più giovani. Chi ha mai ascoltato uno dei suoi dischi già sa di cosa sto parlando (includo anche l'eccellente duetto del 2007 col produttore Damu), mentre chi lo dovesse aver finora ignorato potrà notare quanto da me espresso nella suddetta traccia: le batterie ed il basso sono martellanti e "sporche" come se ci trovassimo nel '93, ed il modo di tagliare in brevi spezzoni il campione di organo elettrico (inserendovi il saltuario effetto) si spinge addirittura verso un'estetica bombsquadiana. Naturale, dunque, che anche il flow e le metriche risultino serrati ed energetici, cosicché l'insieme (più degli azzeccatissimi cut di Guru nel ritornello) riesce a farci scordare che dopotutto si tratta della tipica ode al rap -che piace sempre come i tegolini pur non rappresentando nulla di concettualmente nuovo. E, volendo restare ancora nel filone delle "odi a qualcosa", che dire dell'ottima posse cut Home? Su un beat dai suoni essenziali (una scala di basso ed un'unica nota a chiuderne il loop) prodotto da G², che pare però uscito dallo studio di Diamond D, si avvicendano al microfono EdO.G., i Kreators, Krumb Snatcha, Akrobatik, Big Shug e, ciliegina sulla torta, Guru nel ritornello. Una roba che solo ad immaginarsela vien da leccarsi i baffi, e per una volta tanto il risultato riesce a soddisfare ampiamente le aspettative. Persino il cronicamente scarso Big Shug dà un colpo di reni portando a tavola una strofa onesta, mentre i restanti fanno a pezzi la base, in special modo EdO.G., Akrobatik e Krumb Snatcha.
Krumb Snatcha che ritroveremo due tracce più avanti con una prestazione in linea coi suoi standard di allora (tant'è che pare quasi una Killer In Me 2.0), così come allo stesso modo si comportano 7L & Esoteric, Edan, Chan (autore poi del bruttoccio Part Of A Nation), Kreators e Skitzofreniks (Slow It Down è più bella remixata). Chapeau va invece sia al sempre affidabile EdO.G. ed alla sua Questions, come al solito preciso e pulito sia nel suono che nell'esposizione dei concetti, che ai Raw Produce e Mr. Lif. La loro I Am Myself è sì oggettivamente un po' da boyscout (sapete, meglio essere che apparire, onesto è bello... robe che nemmeno Jovanotti), lo concedo, però bisogna dire che non solo Lif migliora nettamente la situazione sia concettualmente che tecnicamente, ma anche che la melodia costruita con l'ausilio di un loop di piano è infettiva e capace di restare in testa per molto, molto tempo.
Insomma, la sostanza è che se si cerca del buon hip hop Home è capace di darvelo. Alcune cose sono, ovviamente, ben più interessanti di altre che invece mancano di mordente; tuttavia, nel complesso l'opera è solida e fornisce una soddisfacente panoramica di quelli che erano i rappresentanti di Boston all'epoca, molti dei quali ancora presenti ed evolutisi a tal maniera da rendere i loro pezzi qui presenti "storicamente" interessanti.




VIDEO: RAP RELIGION

CAMP LO - UPTOWN SATURDAY NIGHT (Profile, 1997)

lunedì 15 settembre 2008

Allora, lasciate dunque che vi aggiorni su una cosa di cui TROPPO vi fregherà: ho trovato casa e mi trasferirò lì dal prossimo fine settimana. Date le mille tarantelle che questo comporta (tra le quali il trasporto dei miei dischi) è possibile che nel prossimo periodo gli aggiornamenti saranno più saltuari. In ogni caso non perdete la fiducia.
Detto questo, vorrei indicare un fatto più che positivo: nel periodo recente mi pare proprio che stiano venendo ristampati un sacco di dischi finora irreperibili nei negozi. Solo sabato, per esempio, ho pouto upgradare la mia collezione di svariati titoli finora posseduti solo su cassetta o mp3, tra i quali The Main Ingredient, Hold It Down dei Das EFX, Return Of The Boombap e Uptown Saturday Night. In particolare è quest'ultimo che più mi ha fatto sudare sangue: al tempo dell'uscita decisi di non comprarlo subito, salvo poi pentirmene negli anni successivi arrivando ad elemosinarne l'acquisto di seconda mano da un mio amico che però, pur essendo già allora era passato ad altri generi musicali, per principio si rifiutò sempre di cedermi la sua copia. Va da sè che se per così tanto tempo ho potuto rinunciare alla mia dignità è per un solo, semplice, motivo: l'esordio dei Camp Lo è una ficata.
I più ricorderanno il duo del Bronx per via della hit Luchini e poco più, ma posso garantirvi che Uptown Saturday Night riserva delle sorprese che si spingono ben oltre questa canzone, a partire dal carico d'innovazione che (inconsapevolmente?) si porta dietro: come si può notare infatti già dalla sola copertina -una rielaborazione della cover di I Want You di Marvin Gaye- l'intera opera affonda le proprie radici nel soul degli anni '60 e '70. E se ciò di per sè non fa notizia, è però vero che in molti casi il produttore principale di USN (il delinquentemente dimenticato Ski) ha fatto un lavoro di campionamento che per molti versi precede quel che si sentirà in dosi sempre più massicce a partire circa dal 2003. Egli difatti sovente usa interi loop preservandone la matrice originaria e dunque il sapore settantone, come per esempio nel caso della magnifica Black Connection o di Black Nostaljack. Certo, non siamo ancora nel reame delle vocine pitchate alla Alvin e dunque le differenze d'epoca si sentono, però è inevitabile ascoltare l'LP e sentirsi trasportati indietro nel tempo di 30 anni. Sensazione, questa, in netta contrapposizione però con le metriche e gli stili di Geechi Suede e Sonny Cheeba: assolutamente originali ed ancora capaci di lasciare l'ascoltatore a bocca aperta.
Questo avviene già alla prima traccia, Krystal Karrington, dove i due cavalcano magistralmente un beat inusualmente ruvido per i loro standard e che ben si pone come contraltare ai loro flow rilassati. La batteria e la singola nota di piano sono incessanti e vengono sottolineati da un costante fruscio di maracas, e solo l'occasionale entrata in gioco di un campione di fiati dal taglio epicheggiante ne spezza la continuità; dal canto loro, i due presentano immediatamente il loro personalissimo stile, che si contraddistingue innanzitutto per l'uso massiccio di slang e la scrittura a mo' di flusso di coscienza. In tutta onestà devo dire che questo fa sì che la maggior parte dei testi sia pressochè incomprensibile: solo in alcuni casi si riesce ad intuire vagamente i contenuti propostici, ma considerando quanto suoni bene l'insieme si tratta di un difetto facilmente relegabile in secondo piano. E dopotutto, non è che si discostino un granché dai soliti cliché dell'essere fichissimi, pieni di dané e brögna: solo che lo fanno in un modo tale per cui la forma diventa contenuto, per la maggior gioia di McLuhan e dell'ascoltatore. Difatti, ascoltare Luchini è un piacere non solo per -scontato- lo storico beat, ma anche perchè i due si scambiano il microfono con una naturalezza tale da fargli meritare il titolo di una delle coppie meglio combinate della storia del rap. Poi hai voglia a dire che Geechi Suede è più bravo di Cheeba... non è importante.
Non lo è perchè nel momento in cui viene spontaneo prestare maggiore attenzione alla musicalità di un tale flow che non alle effettive rime (spesso accantonate in favore di assonanze) significa che si antepone lo stile (in senso lato) alla pura tecnica, e va benissimo così. D'altronde, se così non fosse sarebbe altamente probabile che l'altrimenti immensa Black Connection (pezzo preferito del disco) ne risulterebbe danneggiata; considerando infatti la forte melodicità del tutto (una rielaborazione della strumentale di Love Is The Answer degli Stylistics) la cosa che meglio vi si può abbinare è un equivalente vocale, e difatti i Camp Lo vi scivolano sopra impeccabilmente. Lo stesso dicasi per l'ottima Sparkle, Black Nostaljack (chapeau per il lavoro svolto con il tecnicamente abusato Nautilus di Bob James), Say Word, Coolie High e Killin 'Em Softly. Escludo dalla lista Negro League non tanto per colpa loro -anzi, Sonny Cheeba qui regala una prima strofa da pelle d'oca- quanto per la presenza di due weed carriers di cui uno è dotato di una voce spiacevole quanto lo stridio del coltello sul piatto (no, davvero, agghiacciante) o l'estrazione di un'unghia senza anestesia.
Insomma, giunti a questo punto parrebbe tutto rose e fiori... e invece no. Vedete, sono due i problemi che affliggono Uptown Saturday Night. il primo, volendo anche banale, è che la maggior parte dei pezzi migliori sono concentrati nella prima parte del disco. Il secondo è che quei pezzi che meritano sono davvero da dieci e lode; e dunque è inevitabile che quelli invece meno riusciti (Swing, Park Joint, Nicky Barnes e l'unica oggettivamente fiacca Rockin' It) appaiano come loffi. E' solo un'impressione, certo, eppure a questa non si sfugge. Voglio dire, B-Side To Hollywood farebbe la gioia di molti artisti oggi presenti sul mercato, eppure dopo aver sentito una Krystal Karrington o una Sparkle ti fa pensare "niente de che". Ingiusto quanto vuoi, ma capita.
Tolte queste imperfezioni, le uniche cose che mi vengono in mente sono domande. Per esempio, come mai Ski non se lo fili più nessuno. Voglio dire, dopo le belle cose prodotte per Jay-Z e quest'ottimo Uptown Saturday Night (suo vero biglietto da visita) cosa doveva fare? Sconfiggere la fame nel mondo? Oppure, ancora, com'è che chi è stato capace di mettere insieme un simile disco abbia poi ampiamente deluso con quelli successivi? E perchè USN non viene mai tirato fuori nelle discussioni da Amarcord del tipo "si stava meglio quando si stava peggio"? Misteri. Comunque sia, dategli un ascolto e, soprattutto, compratevelo originale ché il lavoro di mixaggio è ottimo e, garantisco, la differenza tra mp3 e originale si sente.




VIDEO: LUCHINI

DE LA SOUL - BUHLOONE MIND STATE (Tommy Boy, 1993)

venerdì 12 settembre 2008

Spero che perdonerete la mia recente schizofrenia nello scegliere gli album da recensire, ma avendo forse (e qui mi do una scaramantica frugata di pacco) trovato casa tendo ad essere un po' in sbattimento e dunque con l'umore variabile. Ciò si ripercuote ovviamente sulla selezione musicale e oggi, dovendo staccare un assegno da 500€ tanto per, ho bisogno di rilassarmi.
Cosa c'è di meglio, dunque, di un album dei De La Soul, specialmente se il loro più jazzato oltreché il mio preferito e quello a cui sono più affezionato? The Low End Theory, senz'altro, ma avendolo già recensito immagino che mi dovrò accontentare di quel che passa il convento. Insomma, fatto sta che Buhloone Mind State è secondo me rilevante per tre buoni motivi: il primo è che è stato l'ultimo album ad essere interamente prodotto da Prince Paul; il secondo che è il loro disco più sottovalutato persino volendo includere The Grind Date (gran bel lavoro anche quello, tra parentesi); il terzo, infine, è che in questi 50 minuti scarsi di musica i tre sanciscono la definitiva rottura con qualsiasi volontà di compiacere il pubblico più vasto (nel '93!). Ciò però non significa necessariamente prendere una posizione netta ed urlata come invece fecero -per dire- gli EPMD con Crossover o Underground, scristonando magari anche a ragione contro i "poteri forti del caso, quanto piuttosto addensare in poche tracce una complessità musicale indigeribile al primo ascolto e dunque de facto inadatta ad una fruizione usa-e-getta. E tra le loro liriche, i loro giochi di parole, la strutturazione dell'intera opera nonchè il fondamentale contributo di Prince Paul, credo che il gioco gli sia riuscito bene; ad ascoltarlo così, en passant e magari cercando il pezzo d'immediato impatto, Buhloone Mind State pare fallire... salvo riprenderlo in mano una, due, tre o più volte e scoprire che di carne al fuoco ce n'è parecchia.
Smembrarlo dunque com'è mia abitudine sarebbe scorretto, tuttavia non posso fare a meno di sottolineare la bontà di tracce come I Am I Be: in uno dei pezzi più seri dell'intera discografia dei De La, Pos & soci si lanciano in una serie di osservazioni che dal personale partono per toccare temi più ampi come lo sfruttamento della cultura afroamericana, trovando peraltro il tempo di lanciare una frecciata nemmeno troppo dissimulata agli ex compagni dei Native Tongues ("Or some tongues who lied/ and said "We'll be natives to the end" nowadays we don't even speak"). Il tutto mentre Maceo Parker si concede un paio di assoli che, per la maggior gioia dei musicofili, trovano uno sfogo completo in I Be Blowin' (che non a caso usa il medesimo campione di I Am I Be). Altri pezzi eventualmente "sottraibili" dall'insieme sono poi la stupenda Ego Trippin' Pt. Two, che gode di uno dei beat al contempo più tradizionali e belli di Prince Paul, e, naturalmente, il singolo Breakadawn col suo campione di Can't Help It di Michael Jackson (per capire la differenza tra melodia e kitsch paragonatelo al pezzo di Royal Flush). Per il resto viaggiamo sempre su una qualità alta, ma personalmente trovo difficile separare, che so, Eye Patch da En Focus oppure 3 Days Later dalla pur differente Area; reputo infatti che queste colgano nel segno solo se contestualizzate, e dunque non andrò contro la loro natura.
Insomma, come s'è potuto capire ho ben poco da ridire su Buhloone Mind State -anzi, in quanto a basi non riesco a trovare difetti evidenti salvo, forse, qualche microscopico calo d'ispirazione quà e là (Eye Patch, In the Woods) e l'inevitabile caduta nel reame del weirdo (i tizi giapponesi che rappano a metà disco faranno molto eclettico ma fanno anche molto cagare); e del resto anche l'emceeing è difficilmente opinabile. certo, i De la sono sempre stati un po' bizzarri/originali nel gestire i loro stili, ma del resto è il loro marchio di fabbrica e se non lo si riesce ad accettare l'unica è non ascoltarli. Ma, garantisco, si correrebbe il rischio di perdere qualcosa.




VIDEO: EGO TRIPPIN' PT. TWO

SLUM VILLAGE - SLUM VILLAGE (Barak, 2005)

giovedì 11 settembre 2008

Per quanto io sia uno che spesso ha ragione, talvolta mi capita di liquidare con eccessiva frettolosità determinati temi o argomenti, correndo dunque il rischio di perdermi eventuali evoluzioni/miglioramenti degli stessi. Chissà, magari in questo preciso istante potrei avere tra le mani un bellissimo secondo album degli Snowgoons; purtroppo, avendo bollato il primo come noioso, banale, scontato e privo d'originalità credo che correrò il rischio -benchè abbia dei motivi per mettere in dubbio le mie certezze (almeno in linea di principio).
Uno dei motivi è quest'album degli Slum Village. Sapete, fino al novembre del 2005 avevo ritenuto il gruppo di Detroit poco più di un'ottima alternativa al Halcion o simili perchè a me Fantastic faceva e fa schiantare i maroni a cemento, roba che gli album successivi nemmeno m'ero premurato di scaricarli. Senza contare, naturalmente, che come MC non è che fossero un granchè dotati. E invece -nemmeno mi ricordo perchè- in quel mese di tre anni fa decisi di dar loro una chance, trovandomi con mia grande sorpresa di fronte ad un album certamente non perfetto ma che mi piaceva parecchio. Di fronte allo scorrere della musica, dovuto principalmente all'eccellente lavoro svolto dai BR Gunna, qualsiasi sbavatura passava in secondo piano e, per di più, perlomeno a 'sto giro c'era anche qualcuno capace di far danni con un microfono in mano: Elzhi. Certo, successivamente avrei poi scoperto che questo non era il suo esordio come membro degli SV, così come sarei venuto a conoscenza dei precedenti lavori dei BR Gunna, ma questa è un'altra storia... il punto qui è che con sole tredici tracce un gruppo finora da me ritenuto ai limiti della mediocrità mi aveva fatto cambiare posizione di 180°.
Ora, non pretendo che in questo caso tutti siano d'accordo con me: molti di coloro a cui ho caldamente consigliato l'ascolto di Slum Village lo hanno bollato come "bellino" ma poco più, segno evidente di quanto qui siano in gioco determinate atmosfere più che oggettivi meriti tecnici. D'altro canto è anche vero che nessuno ha mai teorizzato una sua bruttezza, e se ciò è avvenuto credo lo si deva in primo luogo a Young RJ e a Black Milk, che si spartiscono gli oneri delle produzioni dell'LP. Contrariamente però a quanto avrebbero dimostrato le differenze tra gli sviluppi delle rispettive carriere, tra i due è indubbiamente RJ a svettare: pur rispettando l'estetica di Detroit in termini di combinazioni tra basso e batteria (che riassumerei in relativa irregolarità, nitidezza di suono, potenza) egli riesce a combinare eccellentemente campioni vocali e melodie estratti principalmente dal soul, oltreché jazz e strumentazione live. L'esempio migliore di ciò è la superba 05, indubbiamente il pezzo migliore tra tutti, che unisce strumenti suonati dal vivo a note sparse di pianoforte e, soprattutto, ad un'impronta jazz che vede il suo culmine nei minuti conclusivi del pezzo, caratterizzati da assoli di sax e batteria assolutamente da urlo che giustificano pienamente la lunga durata della canzone (sei minuti di cui appena due passati a rappare). Ma anche l'iniziale Giant, col bel coro filtrato che va a contrapporsi ad un solido lavoro di programmazione delle batterie, e la più cupa Def Do Us o l'eterea Fantastic possono ben dare un'idea dello stile del Nostro. Dal canto suo sarebbe però ingiustamente relegare Black Milk ad un ruolo di semplice comprimario: in fondo non solo coproduce una svariata selezione di canzoni più che degne (Can I Be Me in primis, certo, ma anche le Dilliane EZ Up e Multiply), ma si dà da fare per far risaltare la sua personalità pià essenzialista -hardcore, se volete- attraverso le ottime Set It e l'ultrafunkettona Hear This. Insomma, l'accoppiata funziona ancor meglio che in precedenza, e per quanto sussista una gradita omogeneità acustica questa non scade nella monotonia grazie al buon lavoro di coppia svolto dai nostri eroi. Ecco, casomai potrei aver da ridire sulla melensa Call Me che, oltre a vedere l'immancabile featuring di Dwele, riprende il celeberrimo campione di Between The Sheets reso immortale da It Was A Good Day di Ice Cube cercando di riutilizzarlo in chiave sentimentale: ecco, appunto, lode per il coraggio ma purtroppo quel campione è "suo" e qualsiasi -inevitabile- paragone vedrà perdere lo sfidante. E di analogo semifallimento si può parlare nel caso di Hell Naw, che pur presentando un'idea interessante (un basso "rotolante" che sostituisce il rullante e che va di pari passo con un giro di chitarra acustica) ritorna un'impressione di incompiutezza e, in ultima analisi, di monotonia.
Monotonia data anche dai nostri cari T3 ed Elzhi, che purtroppo non hanno abbastanza carisma per tirare su un pezzo solo con le liriche e che in presenza di un beat sottotono risaltano negativamente in termini puramente tecnici (T3 a rimare è una mezza pippa) così come contenutistici (tutt'e due). Perchè purtroppo, va detto, la maggioranza dei pezzi ha a che fare con i rapporti col gentil sesso; il che non solo è soggettivamente poco interessante in sè e per sè, ma diventa quasi alienante nel momento in cui la forma risulta spesso povera quanto i contenuti. Al punto tale che scorrendo tra le canzoni ho quasi momenti di euforia ad ascoltare del sano vecchio battle rap (1,2 in particolare risalta, sia grazie al validissimo beat di MoSS che grazie a Elzhi che qui sfodera una tecnica invidiabile) oppure qualcosa che sia comunque esterno alla passera (no, davvero, Def Do Us o Giant sono in tal senso dei toccasana).
Ma per fortuna, come dicevo, in questo Slum Village sono le atmosfere a fare da padrone; lacune stilistiche e monotonia contenutistica passano così in secondo piano, consentendo all'ascoltatore di godersi la musica senza avere crisi di diabete. Sicché, nell'attesa che esca qualcosa di nuovo da parte del duo ma soprattutto che venga pubblicato in via ufficiale The Preface (che anticipo essere un disco della madonna), questo è senz'altro uno dei modi migliori di godersi un po' di suono di Detroit o, molto semplicemente, di passare tre quarti d'ora in compagnia di buona musica.




VIDEO: EZ UP (MOTOR CITY EDIT)

BLACK MOON - ENTA DA STAGE (Wreck, 1993)

martedì 9 settembre 2008

Nella precedente recensione avevo definito il 1996 come uno degli anni migliori per l'hip hop: grandi dischi vennero pubblicati in quell'anno e sicuramente pochi possono negare che sia stato uno dei saltuari canti del cigno (passatemi la contraddizione logica) che produce questo genere musicale; tuttavia, ancor meglio e certamente più rilevante è stato il 1993. I più giustificheranno quest'affermazione facendo riferimento alla pubblicazione di 36 Chambers, il che è tanto giusto quanto inesatto in quanto ciò relega automaticamente l'altro grande classico di quell'anno in secondo piano. Ma se il rap degli anni a venire ha avuto certe sonorità o date influenze, questo lo si deve anche a Enta Da Stage.
Tanto per dirne una: avete presente i cori urlati da un mucchio di persone, che così bene caratterizzano il suono nuiorchese di quegli anni? Beh, ringraziate i Black Moon. E cosa dire delle produzioni filtrate da ogni tono alto e praticamente "abbandonate" alla sola batteria e basso? Beatminerz, miei cari. E, certamente, se da un lato erano stati i Tribe e i De La Soul (con Buhlōōne Mindstate) ad usare pionieristicamente massicce quantità di campioni jazz nelle loro produzioni, si può dire che solo con Enta Da Stage questi vennero reinterpretati in una chiave decisamente più cupa ed alienante. Insomma, per farla breve, questo disco è una delle migliori colonne sonore esistenti per descrivere in note l'atmosfera urbana di una città in novembre. Non esistono aperture: basso e batteria scandiscono i passi mentre i campioni riflettono lo stridio delle rotaie delle metropolitane e delle gomme delle macchine, mentre la descrizione verbale dell'insieme viene affidata in gran misura al solo Buckshot e agli occasionali ospiti.
Tutto ciò avviene senza soluzione di continuità, anche prendendo in considerazione la suddivisione dell'album in due fasi (il che non è un semplice vezzo ma riflette effettivamente un diverso "taglio" musicale): sia l'iniziale Powaful Impak che la conclusiva U Da Man rientrano nell'estetica ruvida così fortemente distintiva di questo disco. Il merito di ciò va alle produzioni dei Beatminerz, non c'è dubbio: il filtraggio dei campioni di cui dicevo prima, abbinato ad un'equipaggiatura poco più che casalinga, conferisce ad ogni singolo pezzo un timbro cupo, oscuro, quasi come se si sentisse il beat provenire da un lontano scantinato. E la marea di campioni usati vengono usati non per conferire una melodia alle canzoni, bensì unicamente per "spezzarli" con una certa regolarità o per separare i ritornelli dalle strofe. Tuttavia, si può notare una variazione nell'approccio produttivo tra le prime sette tracce e le altrettante che le seguono: nel "first stage" il sound è più legato agli anni precedenti e risulta, in generale, più "energetico" (vedi Who Got Da Props, Niguz talk Shit e la sublime Buck 'Em Down); per converso, nel "second stage" le atmosfere virano verso una ruvidità meno gridata e certamente più vicina ai dischi che sarebbero usciti in seguito (ne sono ottimi esempi Shit Iz Real, I Gotcha Opin e -soprattutto- l'eccezionale Slave). La spiegazione pare essere questa: a cavallo tra il '92 ed il '93, durante le sessioni d'incisione i Black Moon s'imbarcarono in un tour con Kool G Rap e Nas e, sentendoli, Buckshot decise di rendere meno serrato il suo flow. Di rimando, i Beatminerz optarono per un adattamento a questo cambio di stile virando così le sonorità verso toni più smorzati. Ed in fin dei conti la scelta si rivelò vincente oltre che attuale: non è un caso, infatti, che Buckshot sia oggi come allora immediatamente riconoscibile già solo dall'uso della voce, mentre 5ft si può facilmente perdere nel marasma degli MC competenti o poco più. Sia come sia, il punto è uno solo: le produzioni sono perfette, stop. Da Frank Zappa a Cannonball Adderley, passando per Miles Davis e Barry White, i Beatminerz piegano qualsiasi campione alle loro necessità ed alla loro personalissima estetica come ben pochi -specialmente se esordienti- sanno fare.
A questo punto, di fronte all'enfasi che ho dato nell'elogiare il lavoro, è curioso notare come, storicamente (fin dalla sua uscita, cioè), Enta Da Stage abbia ricevuto il plauso del pubblico grazie all'abilità di Buckshot al microfono. Intendiamoci: non voglio sminuire il suo contributo e men che meno mettere in dubbio il suo straordinario talento, semplicemente trovo che di fronte ad un'esecuzione perfetta (rime, controllo del respiro, stile tout court) non vi sia quell'innovazione o quella capacità di influenzare altri ottenuta, che so, dai membri del Wu o da Biggie. Ma questo non fa parte di eventuali difetti oggettivi; tralasciando dunque queste mie "critiche alla critica" di scarsa rilevanza, ciò che conta è che il nostro nanetto (è, tipo, alto come Berlusconi) fa letteralmente a pezzi il microfono su ogni traccia. E nel fare questo, raramente incappa negli stilemi dell'epoca, risultando ancor'oggi godibilissimo da ascoltare pur nella (in realtà, soprattutto grazie alla) sua sbruffoneria e nelle evidenti esagerazioni nel narrare la cosid. street life.
Insomma, tre sole parole per definire Enta Da Stage: classico, influente, imprescindibile.




VIDEO: HOW MANY MC'S...

SADAT X - WILD COWBOYS (Loud, 1996)

lunedì 8 settembre 2008

Non c'è dubbio che il 1996 sia stato uno degli anni più floridi per quanto riguarda l'hip hop: Hell On Earth, Reasonable Doubt, The Score, Muddy Waters, The Coming, Nocturnal... davvero potrei andare avanti per un bel po', continuando ad elencare titoli che sono considerati classici assoluti oppure che in questi 12 anni sono maturati divenendo autentici oggetti di culto da parte degli aficionados. Tuttavia, trovo più interessante far notare come il '96 sia stato anche l'anno delle uscite oramai cadute nell'oscurità benchè di pregevole fattura: i Real Live, l'eccezionale esordio di Kwest Tha Madd Ladd (ché ancora mi mastico le palle per non averlo comprato all'epoca), il sottovalutato Da Storm e, naturalmente, questo Wild Cowboys.
I motivi per queste "disattenzioni" da parte dei fan -specie i più giovani- li ho già illustrati in altre occasioni e comunque mi paiono abbastanza ovvi; tuttavia sarebbe imperdonabile proseguire lungo questa strada di dimenticanze ed è così che stamane, dovendo decidere tra recensire gli Heltah Skeltah o Sadat X (ambedue comprati lo stesso dì al WOM di Monaco), alla fine ho optato per per Wild Cowboys, per alcuni la sua opera migliore e senz'altro un eccellente esempio di cos'era il suono nuiorchese di metà anni '90.
Non faccio mistero difatti che la prima cosa di questo LP che desta l'attenzione sono i beat: abbiamo Diamond D su tre tracce, Buckwild e Ogee su due, Showbiz su una e così anche i Beatminerz, Pete Rock, Alamo ed altri. Volendo dunque chiudere un occhio sull'assenza di Premier e Large Professor, si può ben dire che la formazione è certamente impressionante e rappresentativa della Grande Mela -che poi questa vada a tradursi in'equivalente qualità resta da vedersi, ma intanto ogni timore di ciofeca tout court è da considerarsi automaticamente escluso. Del resto, per scongiurare quest'ipotesi sarebbe bastato il solo fatto che l'autore di Wild Cowboys è nientemeno che un terzo dei Brand Nubian e che, negli anni immediatamente precedenti l'uscita di questo suo esordio, egli s'era fatto notare per le strofe di tutto rispetto sui dischi di KRS One e Lord Finesse. Aggiungiamoci infine che l'etichetta per la quale venne pubblicato questo lavoro era la Loud -già firmataria di cosucce come 36 Chambers, The Infamous e Cuban Linx- e si può comprendere come le aspettative fossero parecchio alte.
Spiace anticipare, dunque, che queste vengono in buona parte tradite: ma non tanto perchè siano (fossero) comunque insoddisfabili, bensì perchè Wild Cowboys presenta alcuni difetti oggettivi che francamente non ci si sarebbe aspettati da uno come Sadat X. Ad esempio, per dirne uno, la presenza di ospiti: passi che il Nostro probabilmente era abituato ad avere almeno un compagno di rime al quale appoggiarsi nei momenti di difficoltà, ma ciò non giustifica in nessun modo un tale assortimento di gente che si rivela essere, nella migliore delle ipotesi, appena passabile -e mi riferisco a Lord Tariq, di certo non al resto dei Money Boss Players o all'onnipresente e tristemente mediocre Shawn Black. L'handicap in questione risulta ancor più fastidioso se si pensa poi all'occasione sprecata: così come X ha avuto il buonsenso di invitare Grand Puba ed il sempre affidabile D.V. Alias Khrist, perchè allora non si è spinto oltre in questa direzione dando un colpo di telefono a Finesse, KRS o qualcun altro della D.I.T.C. o della Boot Camp Clik? E se non loro, qualcuno interno al roster della Loud che, voglio ribadirlo, non è che fosse composto da ciò che si chiamano cretini... Mah, vai a capire. E poi: d'accordo che non siamo più nel '90, d'accordo che non sei abituato a pensare pezzi da solista, ma... com'è che in tutto l'album non vi sia nemmeno un accenno ai temi sviluppati (o per meglio dire: all'impostazione) nei dischi incisi coi Brand Nubian? Per carità, non ho nulla da eccepire sul braggadocio, specie se a farlo è una persona competente come il Nostro, certo è che i pezzi genericamente sboroni lasciano il tempo che trovano, e lì, purtroppo, non c'è Diamond D che tenga. Last but not least, dato che ho nominato uno dei produttori, mi preme sottolineare come non tutti giochino le loro carte migliori: Buckwild, per dirne una, conferma la sua fama con Smoking On The Low ma lascia perplessi con la triviale Lump Lump (un giro di basso bello non sempre basta e creare materiale memorabile); lo stesso dicasi per Diamond D, che prima imprime a fuoco il suo nome sull'ottima Wild Cowboys (quel campione di vibrafono mi sa un tantinello di David Axelrod...) e dopo sforna una robetta "meh" come Petty People, che non si riesce a capire se sia una versione embrionale della prima o se semplicemente si tratti di uno scarto databile tra il '92 ed il '93.
Fortunatamente, però, c'è gente come lo scandalosamente sottovalutato Ogee che non fallisce un colpo (sue le valide Sauce For Birdheads e The Hashout, ambedue di buona qualità); e anche Showbiz conferma i suoi meriti producendo una delle cose migliori di Wild Cowboys, cioè Stages And Lights. Dal canto loro, pure i Beatminerz e Alamo si tuffano sui campioni di xilofono, entrambi con ottimi risultati (in particolar modo è Open Bar ad imprimersi nella memoria come uno dei pezzi più potenti dell'insieme). Ma è lo sconosciuto Ali Malek che ruba lo show: campionare Morricone non sarà in sè un'idea particolarmente originale, ma quando il risultato riesce a mantenere l'atmosfera dell'originale pur essendo marcato da un tasso di ruvidezza elevatissimo, non ci si può che inchinare.
Tuttavia, se la sua Hang'Em High svetta come punta di diamante di Wild Cowboys è anche grazie al fatto che qui Sadat X, oltre a rimare bene come sempre, partorisce una lunga metafora dove il far west è accomunato alla vita nel ghetto e, se da un canto l'abbinamento non pare troppo sconvolgente, l'esecuzione è ottima e soprattutto s'inserisce a perfezione nel contesto creato dal sopracitato Ali Malek. Chapeau anche a Khrist, che firma il ritornello in un modo tale da rendere ancor più vergognoso il fatto che non gli siano stati riconosciuti l'enorme talento e la personalità inimatibile che indiscutibilmente possiede. Per il resto, X generalmente rimbalza con discreti risultati tra l'autoesaltazione, la pura esibizione di bravura e l'aneddottica riguardante la sua città ed il suo quartiere; tutto ciò però assume un ruolo di secondo piano quando si nota che in fin dei conti sono i beat a rendere efficace l'MC. Non a caso, se è Pete Rock a tirar fuori il suo lato più marcatamente jazz, allora le cose funzionano ed Escape From New York va ad inserirsi nel quintetto di canzoni memorabili di Wild Cowboys; quando invece c'è qualcun altro un po' meno ispirato, allora l'insieme o finisce nel dimenticatoio (Do It Again) oppure si trasforma in un'autentica e fragorosa cazzatona col botto: ce n'è una sola, è vero, ma vi garantisco che The Funkiest è una cacofonia tale da lasciare sbigottito l'ascoltatore.
Come s'è visto, Wild Cowboys ha la sua bella fetta di scivoloni francamente incomprensibili e se da un lato non mi stupisce che a causa di questi esso sia scivolato nel dimenticatoio, dall'altro trovo che sarebbe un peccato perdersi gran bei pezzi quali Open Bar, Hang'Em High, Stages And Lights, Escape From New York e Wild Cowboys. Pure, vorrei contestare l'opinione comune che lo vorrebbe come l'opera migliore di X: contestualizzandolo, difatti, non si può ignorare lo scarto tra il potenziale espresso dai vari protagonisti ivi presenti ed il risultato finale, secondo me relativamente deludente. In tal senso, Experience & Education riesce a spremere meglio le capacità di tutti gli attori coinvolti, primo fra tutti 'Dat X stesso, che fortunatamente dimostra (vuoi anche fuori tempo massimo) la sua versatilità e la sua personalità che, purtroppo, in Wild Cowboys affiora solo quà e là e per giunta timidamente.


VIDEO: HANG 'EM HIGH

CORMEGA - THE TRUE MEANING (Legal Hustle/Landspeed, 2002)

giovedì 4 settembre 2008

Benchè Cormega affondi le sue radici nella seconda metà degli anni '90, è difficile mettere in dubbio che la sua rilevanza abbia cominciato a crescere solamente a partire dal 2001 e la relativa pubblicazione del suo The Realness. Questo scarto temporale è dovuto principalmente a causa della sua casa discografica di allora, ovverosia una Def Jam capace di bloccare la pubblicazione di The Testament almeno fin quando pochi anni or sono 'Mega decise di ricomprarne il master e darlo alle stampe indipendentemente. In realtà -se si eccettua un featuring sul disco dei PHD nel '91- tra la sua apparizione su Affirmative Action e The Realness vi furono un paio di tappe intermedie: prima la pubblicazione del singolo Testament sul disco bonus allegato alla prima tiratura di It's Dark And Hell Is Hot; poi un paio di pezzi live (Dead Man Walking e un altro) su una compilation della Def Jam; infine, il singolo Killaz Theme Pt.II b/w Angel Dust nel '99. Nulla di significativo, per carità, ma la cronaca è pur sempre la cronaca.
Fatto sta che quando The Realness uscì sugli scaffali la mia impressione fu quella di avere tra le mani un album nel complesso solido ma ancora un po' immaturo o, se preferite, non all'altezza di quanto fosse lecito aspettarsi da uno che comunque era riuscito a mettere insieme una They Forced My Hand, The Saga o Fallen Soldiers. Fortunatamente non mi toccò aspettare molto prima che ciò avvenisse: nel 2002 il Nostro raggiunse la suddetta maturazione con questo The True Meaning, ad oggi la sua opera migliore (ma aspetto con ansia l'imminente Born And Raised) nonché una delle cose migliori sentite nel corso di quell'anno. Innanzitutto perchè la selezione dei beat è mediamente eccellente, ma soprattutto perchè la diversità degli argomenti ed il modo in cui vengono affrontati mostrano chiaramente come 'Mega non sia il solito ignobile bburino bensì qualcuno con decisamente più neuroni a disposizione della media (un po' come Tragedy Khadafi, insomma); ne consegue che The True Meaning si presta a più tipi di ascolto, da quello cazzeggiante in macchina a quello più impegnato quando si è tranquilli, seduti a non far altro che concentrarsi sulla musica.
Tuttavia, qualche difettuccio quà e là c'è: ad esempio, per quanto i beat siano appunto mediamente più che buoni, l'aficionado di hip hop un po' più scafato non potrà non notare che diversi di essi non brillino per originalità: Love In Love Out è il remix di Usual Suspects di Big Noyd; Soul Food è 3 Card Molly di Xzibit; Endangered Species è Mobsta's di Kool G Rap; Verbal Graffiti è Lotta Armata Chatty Boy Disser (vabeh). Ora, questo significa semplicemente che i campioni sono gli stessi e che sono tagliati allo stesso modo, non che le canzoni siano oggettivamente migliori o peggiori delle precedenti controparti; tuttavia, è inevitabile avere una sensazione di già sentito. A ciò va poi aggiunta una verità: la sopracitata Endangered Species è l'unico pezzo davvero brutto dei 13 offertici, in quanto il Nostro non solo non si spreca in inventiva (aka è il solito "ti rompo il culo") ma, ben più grave, non va a tempo e piazza pause quà e là alla sperindio al punto che sospetto che il testo sia stato scritto avendo in mente tutt'altro beat. Sia come sia, il risultato finale si può definire in un solo modo: amatoriale, e questo per un veterano è imperdonabile.
Fortunatamente, però, il resto di True Meaning non delude: i beat dei vari Emile, Hangmen 3 (sissì, proprio quelli degli Almighty RSO), Hi-Tek, Buckwild, Alchemist, Large Professor e D/R Period fanno da sfondo ideale alle capacità narrative nonché strettamente liriche di Cormega, e così si passa elegantemente dall'amarcord di The Legacy all'ultima puntata della diatriba con Nas (Love in Love Out) -fortunatamente gestita non con toni esagerati bensì trattata con buona sobrietà, senza naturalmente scordarsi delle cosiddette hood tales e degli struggimenti correlati. Menzione particolare in tal senso va a A Thin Line (storia di un tradimento da parte di un ex amico, decisamente personale) e Soul Food, una delle poche canzoni d'amore che risultano sobrie ma al contempo scevre dal machismo d'accatto che invece così spesso si trova all'interno dell'hip hop. Ad ogni modo, in mezzo a tutto questo valido materiale è difficile stabilire quali siano i pezzi oggettivamente migliori: ad esempio, il mio preferito è Therapy (principalmente per via del beat di Hot Day), ma non troverei scandaloso se qualcuno preferisse Thin Line o The Legacy; poco conta, in fondo.
In conclusione, benché alcuni destestino 'Mega per via della sua voce (davvero! ne ho già beccati due che la pensano così) è innegabile la sua crescita in quanto a scrittura e tecnica, così come non si può sorvolare che queste trovino dei degni partner in una pletora di beat dalle melodie tendenzialmente orecchiabili ma che non ne pregiudicano la matrice ruvida. The True meaning è dunque un album importantissimo all'interno della carriera di questo artista, certo, ma soprattutto un ascolto più che consigliato a chiunque sia portato verso un rap che non si nasconde nè dietro a trucchetti da baraccone come gli adlib ad effetto, nè tantomeno dietro ad un fare pretenzioso di chi si reputa "avanti".




VIDEO: THE TRUE MEANING

SCREWBALL - SCREWED UP (Hydra, 2004)

martedì 2 settembre 2008

Oggi ho voluto rendermi la vita facile. Data la mia stanchezza, la sola idea di spremermi le meningi per descrivere approfonditamente l'eventuale capolavoro mancato di turno mi terrorizzava, sicché ho optato per una sorta di greatest hits facile facile: quello degli Screwball. In realtà, parlare di Screwed Up non è poi così semplice, a partire dall'inquadramento: si tratta davvero di un greatest hits o è qualcosa di diverso? In effetti, a prima vista si direbbe di sì: le tracce più celebri del gruppo ci sono tutte, a partire da Who Shot Rudy per arrivare a Loyalty, passando ovviamente per Seen It All, F.A.Y.B.A.N. e On The Real. D'altro canto, però, non solo è impensabile fare un greatest hits partendo da due soli album (che peraltro col successo commerciale non c'azzeccano 'na sega), ma soprattutto è fuori da questo mondo tirare fuori addirittura due CD interi. E allora? Allora diciamo che Screwed Up si propone in parte come una sorta di alternativa all'acquisto di Y2K e Loyalty, ed in parte va a completare la discografia degli Screwball gettando sul piatto tutta una serie di pezzi inediti o b-side decisamente appetitosi.
Scartando infatti qualsiasi discorso inerente le tracce già conosciute, il disco si apre con un sogno che molti covavano già dai tempi di Y2K: una versione "completa" di Urban Warfare, che nel sopracitato disco era stata criminalmente utilizzata solo come introduzione a Who Shot Rudy. Il beat di Mike Heron è un pestone come raramente se ne sentono oggigiorno, fondato su un campione di fiati dal tono decisamente marziale che poi va ad appoggiarsi su delle batterie di rara potenza, cosa che consente a Poet & soci di dedicarsi a ciò che sanno fare meglio: regalare perle di saggezza all'ascoltatore, con la sobrietà e la modestia che li contraddistingue. La loro Weltanschauung viene ulteriormente illustrata nella bella Dirt Thugs, affidata al buon Godfather Don, mentre Ayatollah tira fuori il suo lato più profondamente queensbridgeiano per creare il loop di piano di Who. Ma a questo punto, senza voler fare la lista della spesa, mi preme sottolineare come tutte le tracce extra si attestino sulla qualità media del gruppo -tradotto in italiano, sono delle ficate- con solo piccole sbavature quà e là: dicasi alcune strofe riciclate in What The Deal ed il pessimo crooning da frocio di Fred Fowler su Be On Your Way, che da solo riesce a rovinare un beat davvero particolare ed inusualmente melodico del sempre affidabile Mike Heron (parentesi: non è un peccato che adesso faccia solo l'A&R? Serio, era uno dei produttori che all'epoca preferivo).
Ma sciocchezze simili a parte, nel complesso l'operazione Screwed Up funziona eccelentemente. In qualità di possessore di ambedue i dischi precedenti sarei rimasto parecchio contrariato se fosse stata fatta la classica mossa da rabbino del mettere insieme quattro scarti in croce di nessun valore tanto per far su du' lire. Invece non solo abbiamo a disposizione sedici tracce di cui quattordici valgono ogni singolo centesimo speso, ma per di più vengono offerte per lo stesso prezzo diciassette estratti scelti con criterio da Y2K e Loyalty, il che permette a coloro che si erano persi i suddetti album di risparmiare danaro senza perdersi poi nulla di fondamentale (personalmente mi spiace solo che non siano presenti Street Life e Live And Let Die, per il resto non ho nulla da obiettare). Senza voler diventare sentimentale, vorrei concludere dicendo che in un panorama di pubblicazioni fatte senza nessun tipo di riguardo e dovuto rispetto nei confronti dell'ascoltatore, Screwed Up svetta per correttezza oltre che per qualità. Ne consegue che sarebbe doveroso da parte di quest'ultimo spendere la miseria di 18€ per retribuire come si merita la Hydra [N.B.: il voto finale si riferisce naturalmente ai soli inediti, che per maggiore chiarezza ho caricato separatamente].



J DILLA - RUFF DRAFT EP (Stones Throw, 2003/2007)

lunedì 1 settembre 2008

"Straight from the motherfuckin' cassette": è questa l'estetica stante dietro a Ruff Draft, un EP inizialmente pubblicato esclusivamente nel 2003 dalla tedesca Groove Attack salvo poi venir ripreso, rivisto & corretto dalla Stones Throw l'anno scorso, in seguito alla scomparsa prematura di Yancey nel 2006. Cinicamente, posso solo dire che il vuoto da lui lasciato sta venendo riempito come raramente avviene; dal 2006 ad oggi non si contano le uscite (ufficiali e non) portanti il suo nome, col risultato che stare dietro a tutta questa mole di materiale non è facile specie se si considera che in media qualsiasi cosa da lui prodotta oramai viene venerata ed idealizzata a prescindere. Ora, a mio modesto avviso reputo l'isteria veneratrice decisamente nociva e quindi non ho timore a scrivere -per esempio- che personalmente potevo vivere benissimo senza J Dilla Loves Japan così come il 50% di The Shining mi pare quantomeno deludente; per converso, se dovessi consigliare le cose secondo me imprescindibili (post-mortem, voglio dire) dell'oriundo di Detroit, non esiterei ad aggiungere a Donuts questo Ruff Draft.
Ciò perchè esso è essenziale per comprendere l'evoluzione stilistica avvenuta in seguito all'uscita dai Slum Village, nella quale Dilla è passato dall'avere un timbro marcatamente native-tonguesiano (e, mi permetto di dire, noioso fino alla morte come dimostra la maggior parte delle produzioni dei Soulquarians) a sviluppare un suono che caratterizzerà la sua Detroit influenzando nel frattempo altri beatmaker, i B.R. Gunna su tutti. Da Ruff Draft in poi, difatti, si può notare una maggiore propensione a creare atmosfere ruvide, dure, con un'elaborazione dei campioni estremamente particolare oltrechè una maggiore propensione all'utilizzo di synth: canzoni come Reckless Driving e Nothing Like This non sono quindi esperimenti bensì anticipazioni, per certi versi "acerbe" se considerati i lavori successivi ma già estremamente appaganti.
Quest'ultima, per esempio, vede una batteria strutturalmente semplicissima venir rielaborata in modo da potenziarne il suono ed al contempo distorcendolo dandogli un caratteristico tocco di sporcizia; a ciò si aggiunge un campione che pare attingere al prog rock degli anni '70 e che viene fatto girare al contrario, sicchè il risultato finale non stonerebbe se inserito nella tracklist di Beauty And the Beat di Edan. Ed in quanto a Reckless Driving, si entra nel pieno uso del synth che va poi ad accompagnarsi a suoni che paiono provenire da un organo elettrico, il tutto appoggiato stavolta da persussioni meno quadrate e non intrusive. The $ prosegue sulla stessa strada, limitandosi però ai soli synth, mentre per Crushin' e Make 'Em NV si torna all'uso di campioni. Quest'ultima, in particolare, col suo loop di xilofono si erge fin dal primo ascolto come pezzo migliore del tutto sia come beat che come liriche ed è senz'altro degna di essere annoverata tra la crème de la crème del lungo curriculum di Dilla.
E a proposito di liriche, fermo restando che non ci troviamo di fronte ad un campioncino, l'insieme risulta funzionale all'ascolto: nel senso che, al contrario di Madlib (che al microfono fa davvero cagare a spruzzo),Dilla non solo ha una voce gradevole ma soprattutto riesce a stare a tempo e a manifestare quella minima di entusiasmo necessario per non far cadere in coma l'ascoltatore. Purtroppo, se tra i suoi pregi di MC c'è un'ottima dizione, questa gli si rivolta contro perchè consente di capire esattamente cosa dice: ed in casi come The $ e Crushin' non si può notare come il suo approccio a tematiche in sè trite ritrite (soldi e fica, rispettivamente) sia decisamente scontato. Aggiungo poi a titolo personale che la struttura in quartine di Nothing Like This spacca il belino alla quarta volta che l'ascolti, rovinando parzialmente un'altrimenti valida traccia.
In conclusione, se sul versante dei beat reputo Ruff Draft molto interessante oltreché piacevole, l'emceeing di Dilla frena un po' l'ascolto nel suo complesso ed inoltre va detto che la carne al fuoco è purtroppo un po' poco (solo due tracce superano i tre minuti) anche prendendo in considerazione che si tratta di un EP, e d'altro canto se le aggiunte sono senz'altro benvenute in fondo resta sempre una sensazione d'incompiutezza. Ciò nondimeno, Ruff Draft rimane un gran bel ascolto che difficilmente si dovrebbe ignorare; aggiungiamoci che l'edizione della Stones Throw è decisamente ben curata ed ecco che i miei 18€ sono stati decisamente ben spesi. Da avere, insomma [N.B.: il disco è da 3 e 1/2, ma aggiungo deliberatamente un altro mezzo Invicta per via dell'importanza acquisita e riconoscibile nel tempo].