KRUMB SNATCHA - HIDDEN SCRIPTURES (Mind Power/Str8 Up, 2009)

giovedì 28 gennaio 2010

In qualche post addietro, a margine delle mie solite divagazioni, mi ero raccomandato di non lasciarvi sfuggire l'ultimo disco di Krumb Snatcha, ovviamente senza fornire alcun tipo d'indicazione utile sullo stesso; al che un commentatore m'ha chiesto come s'intitolasse e così, oltre ad avergli risposto brevemente nei commenti, ora mi pare d'uopo scriverne una recensione approfondita e fare un po' il punto della situazione circa la carriera di questo MC bostoniano. Cominciamo dalle cose semplici: Krumb l'ho conosciuto -e penso di essere in buona compagnia- grazie alla sua apparizione su Moment Of Truth dei Gangstarr. All'epoca la sua strofa in Make 'Em Pay gli valse addirittura l'Hip Hop Quotable della Source e, per quanto abbia sempre ritenuto superiore quella di Hannibal Stax di Set Up, essa è stata sufficiente per attirare l'attenzione della comunità reppusa su di lui; ebbene, un paio di singoli dopo, tra cui la storica Closer To God, e con un buon album (Snatcha Season Vol.1) ed uno mediocre (SS Vol. 2) alle spalle, eccoci giunti alla fine dello scorso millennio con una presenza mediaticamente irrilevante e qualitativamente oscillante.
Quando poi nel 2003 ritorna sulla scena con il suo terzo disco, Respect All Fear None, la delusione per quel che si può sentire è tale che anche un potenzialmente interessato come me decide di lasciare Krumb ai suoi patetici tentativi di riempire la pista con tracce oscene quali Nobody Move, Get Down e soprattutto l'intollerabile Oxygen. Insomma: per quel che mi riguardava, con me s'era bruciato le possibilità, tant'è vero che il successivo You'll See non l'ho mai nemmeno scaricato. Tuttavia, quando a metà del 2009 lessi che tra i produttori di questo Hidden Scriptures sarebbero apparsi Large professor, Pete Rock, Thorotracks (don't sleep!) e Mr. Walt mi sono tosto rimangiato la condanna espressa anni prima ed ho scaricato felicemente il tutto. Il verdetto? Beh diciamo che questo è tutto fuorché un album perfetto, ma probabilmente è quanto di meglio K.S. abbia saputo produrre dai tempi di Snatcha Season Vol.1. Il che a conti fatti non è poco.
Pour commençer: il suo stile negli anni non è cambiato di una virgola e ancor'oggi si fonda più sul bel timbro baritonale e sull'efficacia delle parole che non sulla tecnica stricto sensu; alla fine pur non essendo certo un inetto, Krumb si è fatto notare infatti più per la scrittura che non per la complessità delle rime e dei numerosi intrecci sillabici. Quello che però è cambiato rispetto agli esordi è l'approccio globale, nel senso che da sostanziale tamarro quale era egli qui si lascia abbondantemente andare a temi più profondi quali la spiritualità, le condizioni sociopolitiche dell'America contemporanea, un po' d'introspezione su vari temi e non per ultimo un sano e sobrio amore per l'hip hop. E proprio per questo Hidden Scriptures si distanzia anni luce dai precedenti per coerenza tematica (e musicale), serietà e ricerca, dimostrando sia una maturità personale non indifferente (d'altronde il ragazzo avrà più di 30 anni, sarebbe anche ora) che una visione artistica ben definita.
L'inusuale apertura "politica" di The Way è un primo segnale di ciò: a partire dai fatti dell'undici settembre, Krumb fa il punto della situazione degli oppressi in America e nel mondo sfruttando come al solito più la forma, cioè l'efficacia di certe espressioni e la voce, che non la profondità delle osservazioni. Lungi insomma dall'essere Immortal Technique, egli però non scade in un certo volemosebenismo d'accatto à la Talib Kweli e risulta in fondo credibile quando dice di far parte di coloro che subiscono. Parte di questa visione viene poi ripresa nella terza strofa di Garden Of Eden, in cui il mito del peccato originale viene usato come parabola/metafora per descrivere ciò che avviene ogni giorno nella nostra società; personalmente non sono un fanatico di questo genere di associazioni, ma devo ammettere che in questo caso non si scade nel manicheismo tipico dei predicatori pazzi che solitamente si lasciano andare a discorsi simili. Oltrettutto, l'aspetto (semi)religioso viene affrontato con un distacco sufficiente anche per un allergico come il sottoscrittto, che anzi, in questo modo riesce comunque a trovare un fascino nel discorso. E quest'ultimo viene poi allargato ed esplicitato in altre tracce quali Hidden Scriptures, Mind Power e, soprattutto, l'ottima The Light, da cui emerge una visione personale e vivaddio poco ortodossa del rapporto che il Nostro ha con Dyo.
Ma, come accenavo qualche paragrafo fa, non è tutto: in Hidden Scriptures c'è anche spazio per l'introspezione (Still Be Me, Secret, Explanation, Yesterday e Leavin') così come per argomenti più lievi quali l'hip hop in tutte le sue forme. Infatti, sia l'autoesaltazione, sia il metarap, sia la classica ode all'hip hop riescono comunque a trovare un loro posto in un album per altri versi molto serio e alla fin fine raggiungono il traguardo del conferire un po' di varietà al tutto: fa piacere infatti sentire del buon vecchio e semplice rap quale quello di Triumph, Street Merchant, Feeling o Begins. Un po' meno piacere lo fa invece notare che paradossalmente è questo l'aspetto liricamente più debole dell'insieme, con canzoni come L.O.V.E., Underground Ambassadors o East Is Back che semplicemente non hanno ragione d'esistere vista la loro mancanza di spessore. Aggiungiamo poi a quest'aspetto anche una carenza di ospiti realmente degni (se vi dico che Afu-Ra non fa la solita figura da cioccolataio sappiate che non è per merito suo), una generale incapacità di scrivere ritornelli efficaci -non a caso i migliori sono costituiti da scratch o sample lasciati scorrere- ed ecco che vediamo che l'altrimenti valido comparto lirico viene danneggiato da fattori dovuti, più che ad una vera incapacità di Snatcha, ad una mancanza di verifiche prima di andare in stampa. Bastava scremare ed il problema era risolto, come al solito.
Problema, questo, che puntualmente si replica anche per quel che riguarda le basi, vera nota dolente dell'opera. Esso si manifesta infatti più che in una mediocrità generalizzata, nell'affogamente di quel che di buono c'è -e non è poco- in un insieme di opere che onestamente potevano anche restare nell'hard disk dei rispettivi produttori. East Is Back e Underground Ambassodors, per dirne due, rappresentano al peggio la genericità del pestone underground e sono oltretutto privi sia di melodia che di effettiva incisività (o nod factor) e come tali vengono meno al loro unico scopo; per converso, L.O.V.E. sfrutta al peggio un campione (Walkin' In The Rain ecc. delle Love Unlimited) già sentito otto miliardi di volte negli ultimi tre anni e perciò non può che annoiare; così come non possono non fare due palle così gli insipidi loop di piano di Hold It Down e Explanation (che per giunta soffre di un ritornello in autotune oggettivamente incircolabile), così come il drammatico sample di violini di Heaven On Earth, definitivamente affossato da delle pacchianissime campanelline che nemmeno negli spot natalizi di Sky. Ebbene, simili schifezze non solo sono brutte in sè e per sè, ma per giunta sono collocate "strategicamente" in punti dell'album in cui in qualche modo ne bloccano il flusso e/o il godimento.
Perchè, ammettiamolo, di beat degni qui se ne trovano. Toh, magari uno può reputare troppo didascalico il campione di Triumph, che effettivamente sembra uscito paro paro da qualche filmaccio sword & sorcery di metà anni '80 stile Yado o Krull, così come quello di Secret può risultare troppo melenso o quello di The Way troppo lento: va bene, son gusti e a ciascuno il suo -a me non dispiacciono. Ma di fronte alla potenza di una Street Scriptures non si può restare indifferenti: al di là dell'ipnotico campione vocale arabeggiante, a colpire è la potenza della linea di basso data da Thorotracks e la scelta di far sì che questa sostituisse completamente la cassa, lasciando come batterie i soli rullanti e hihats. Non è la prima volta che ciò vien fatto, sia ben chiaro (mi viene in mente Drop A Gem On 'Em), ma quando si sente un risultato come questo non si può non restarne entusiasti. Oppure anche la bellezza del magnifico sample vocale utilizzato da Pete Rock per Yesterday: cosa si può dire o fare se non riconoscere che anche da solo, senza cioè batterie e altro, potrebbe tranquillamente reggere l'intera canzone? Non da meno, infine, sono The Light (di tale Asmatik) e Garden Of Eden (DJ Ace), che riescono a conferire le giuste atmosfere senza scadere nella prevedibilità ed anzi dimostrando un eccellente gusto dei due nella scelta delle melodie e soprattutto nella costruzione dei pezzi. Last but not least vi sono altre canzoni come Leavin', Begins, Hidden Scriptures, Still Be Me o Mind Power che pur non godendo del felice connubio dato da originalità e qualità come nei casi precedenti, non sfigurano minimanete ed anzi si fanno notare per il loro valore.
Insomma, ancora oggi mi risulta difficile esprimere un giudizio univoco su quest'album. Tre e mezzo mi pare un voto equilibrato, ma aggiungo che personalmente l'ho trovato ben più interessante della media degli album a cui appippo questo voto (lo potete vedere anche da quanto mi son dilungato sui singoli aspetti). Hidden Scriptures infatti non solo contiene cinque tracce impeccabili ed altrettante più che degne, ma soprattutto gode di testi che riescono a sollevare produzioni altrimenti più che trascurabili (vedi il mediocre contributo di Mr. Walt, Feeling). Certo, non sempre ce la fa e nemmeno potrebbe farcela -di fronte a un autotune nemmeno il miglior Kool G Rap- però nel complesso la carenza di un controllo qualitativo, e la conseguente riduzione della tracklist a undici o dodici canzoni, si fa perdonare. Give Krumb a chance.




VIDEO: FEELING

AA.VV. - BEST OF BEYOND REAL RECORDINGS Beyond Real, 2003)

martedì 26 gennaio 2010

Per la serie "mamma mia che voglia che ho di scrivere", ecco che (apparentemente) mi rendo la vita facile proponendovi un'antologia di una casa discografica di cui probabilmente pochi conoscono più di due o tre uscite: la Beyond Real, fondata nella seconda metà degli anni '90 da DJ Spinna.
In realtà, più che "Best Of Beyond Real", sarebbe meno fuorviante intitolare questa raccolta "Best Of DJ Spinna 1995-2003", in quanto a parte pochissimi contributi di Geology, Joc Max e Nick Fury ben 30 basi su 38 provengono dal campionatore del mai abbastanza noto beatmaker di Brooklyn. E difatti la bellezza di quest'antologia consiste sostanzialmente in questo: riuscire a raccogliere diverso materiale prodotto da quel genio di Spinna andando ad attingere anche alla sua fase iniziale tramite il recupero di oscuri 12" ormai probabilmente irreperibili, coprendo in maniera piuttosto completa un arco temporale altrimenti difficilmente decifrabile. Perchè diciamolo pure: ancora ancora le opere dei Jigmastas, ma i singoli di Dynas e Akil richiederebbero un impegno da Indiana Jones del vinile che io -non so voi- non ho nemmeno per il cazzo.
Best Of Beyond Real invece ci viene incontro a braccia aperte offrrendoci tutto questo ben di dio su un piatto d'argento, e pur avendo secondo me qualche difetto in termini di logica (praticamente include metà delle canzoni di Infectious -perchè?) alla fin fine il piatto è così ricco da lasciar soddisfatti anche gli appetiti più voraci come il mio. Per dirne una: se mi fa abbastanza piacere avere Street Serenade di I.G. Off & Hazadus in qualità da CD, ancora di più ne provo andando a scoprire canzoni a me del tutto sconosciute come Vibrate dei Basement Khemists, Hip Hop dei Jigmastas e soprattutto la straordinaria Hey Love di Akil (non quello dei J5). E d'accordo che magari l'aficionado della Beyond Real queste cose già le conosce, ma le antologie in genere sono pensate anche per raccogliere nuovi estimatori ed in tal senso questa centra il segno.
E lo fa dimostrando innanzitutto la bravura di un produttore, ma soprattutto mostrandone l'evoluzione: dal beatmaker piuttosto generico degli esordi -vedi Beyond Real ed il suo sample dei Kraftwerk- si arriva ad avere un sound unico, corposo, classico nell'impostazione ma molto originale nei dettagli (come ad esempio l'effettaggio dei campioni, l'uso dei sample vocali ecc.). Un percorso senz'altro interessante per chiunque ne aprezzi l'operato, ma anche per chi nel suo DNA d'ascoltatore ha quel minimo di curiosità in più che lo distingue da chi ascolta "un po' di tutto". Quanto all'emceeing, invece, per quanto sia difficile dare un giudizio complessivo direi che esso soffre un po' delle magagne dell'underground di fine millennio. Esso è ciò sovente molto tecnico senza comunicare un beato cazzo di niente, con alcuni tipo Skam o Dynas (che in questi anni è enormemente migliorato, comunque) che si perdono in giochini di sillabe o metafore fiacche -"You're Atari 2600 I'm Nintendo 64" fa pietà non solo perchè oggi il riferimento fa ridere- giusto per il gusto di trovare la rima. In compenso, la sorpresa è che Kriminul dei Jigmastas si dimostra essere un MC migliore che non nei loro LP, e come bonus aggiuntivo ci sono un tot di featuring e apparizioni niente male: Guru, Mr. Complex, Grap Luva, Sadat X e svariati altri.
Insomma, per farla breve: questa raccolta non costa niente -mi sembra sette sterle o giù di lì- e ad un prezzo irrisorio vi portate a casa trentotto canzoni di cui più della metà sono di ottima fattura. Non solo: a conti fatti, acquistando questo disco potreste teoricamente evitare Infectious in quanto i pezzi migliori sono già inclusi. Cosa volete di più, scusate?

VIDEO: BEYOND REAL

GHOSTFACE KILLAH - CLASSIC TONY STARKS (2010)

lunedì 25 gennaio 2010

Oh visto che stavolta ce l'ho fatta? Niente, non ho altro da aggiungere se non che il secondo disco va masterizzato ad overburn attivato, in quanto dura circa 20" più del previsto. Per il resto, ecco la tracklist:

DISC 1
01. Iron Maiden feat. Cappadonna & Raekwon
02. Ghost Deini feat. Superb
03. It’s Over
04. 9 Milli Bros. feat. Wu-Tang Clan
05. Milk’Em feat. Trife Da God
06. Hideyaface *El-P Mix* feat. El-P
07. Ghost Is Back
08. Angels feat. MF Doom
09. One
10. Assassination Day feat. Inspectah Deck, RZA, Raekwon & Masta Killa
11. Real Live Shit *RMX* feat. Larry-O, Cappadonna & Killa Sin
12. The Champ
13. Motherless Child feat. Raekwon
14. New York feat. AZ & Raekwon
15. Holla
16. Be Easy feat. Trife Da God
17. Wu Banga 101 feat. Cappadonna, GZA, Masta Killa & Raekwon
18. Josephine feat. Trife Da God & The Willie Cottrell Band
19. Be This Way
20. Fish feat. Raekwon & Cappadonna
21. Mighty Healthy
22. The Roosevelts feat. Trife Da God & Raekwon

DISC 2
01. Return Of The Iron Man
02. Run feat. Jadakiss
03. Winter Warz feat. Masta Killa, U-God, Cappadonna & Raekwon
04. You Know I’m No Good RMX feat. Amy Winehouse
05. Buck 50 feat. Cappadonna, Masta Killa, Method Man & Redman
06. After The Smoke Is Clear feat. Raekwon, RZA & The Delphonics
07. Kilo feat. Raekwon
08. Metal Lungies feat. Sheek Louch & Styles P
09. Nutmeg feat. RZA
10. Outta Town Shit
11. R.A.G.U. feat. Raekwon
12. The Forest
13. He Comes feat. De La Soul
14. Malcolm
15. Real Niggaz feat. Planet Asia
16. Daytona 500 feat. Cappadonna & Raekwon
17. Biscuits feat. Trife Da God
18. Whip You With A Strap
19. Tony/Montana feat. Cormega
20. Tha Game feat. Raekwon, Prodigy & Pete Rock
21. Maxine
22. Killa Lipstick feat. Masta Killa & Method Man

GhostfaceKillah - Classic Tony Starks
GhostfaceKillah - Classic Tony Starks (Grafica)

INSIGHT - THE MAYSUN PROJECT (Ascetic/Nocturne, 2003)

venerdì 22 gennaio 2010

Essendo io un bruciato, stamattina ho copiato la cartelletta di Ghostface Killah sbagliata -cioè quella con i pezzi non equalizzati- e perciò ho come l'idea che la raccolta del Nostro per oggi ve la potete anche scordare; per di più, sono uscito di casa privo di qualsiasi CD perchè ero certo che tanto sarei riuscito a passarvi quello e bòn. Fortunatamente, però, prima di pranzo mi è giunto quest'album di Insight di cui troppo vi fregherà ma che io vi propongo lo stesso proprio in virtù del fatto che dacché è uscito, cioè nel 2003, non se l'è cagato nessuno.
Il problema per cui non se l'è filato nessuno stavolta non si limita però solamente a questioni di distribuzione o di rilevanza mediatica acquisita, bensì si estende al fatto che è uscito nel 2003 in qualità di raccolta di canzoni di protesta e denuncia. Nello specifico, protesta contro le politiche attuate dall'amministrazione Bush e denuncia nei confronti della situazione socioeconomica americana, ovviamente anche precedente all'11 settembre ed alle sue nefaste conseguenze. Non a caso, sulla copertina troviamo tutta una serie di foto che vanno dal saluto a pugno chiuso di Smith e Carlos alle olimpiadi del '68 fino alle torri gemelle in fiamme, senza scordarci di satelliti, piattaforme petrolifere, un carcerato ed altri possibili segni chiave dell'America contemporanea vista mediante una lente assai critica. Insomma: non proprio ciò che il pubblico richiedeva in un periodo in cui l'indice di gradimento dell'amministrazione Bush aveva raggiunto quote bulgare.
Ciò non di meno, al di là del soffrire -ma nemmeno tanto- del difetto che sovente colpisce questo tipo di progetti (e cioè la forte connotazione temporale), Maysun Project ancor'oggi offre veramente tanta carne al fuoco e se alla fin fine qualche critica gli va mossa, allora questa è quella di una scarsa continuità dovuta all'eccesso di skit di vario genere (strumentali, brevi rappate, spoken word). Ma, tolto ciò, devo dire che Maysun Project è il disco di 'Sight che preferisco in assoluto (escluso il solito Y Society), in quanto combina testi da cui traspare una visione molto simile alla mia, un emceeing bello tirato che fa sempre la sua scena, ed un insieme di beat tra i più crudi mai prodotti dal bostoniano (aiutato in tre occasioni da Dagha e tali Dysh e Endangered Specie -non chiedetemi chi siano).
Ora, per quanto l'insieme di queste qualità sia presente in tutte le tracce -e qui m'azzardo a dire che queste sono solo varianti in positivo e che non ce n'è una che sia brutta- ve ne sono alcune che rappresentano senz'altro la summa di quanto scritto poco prima. The Threat è la prima, e gode non solo di batterie fantastiche, sia per il tiro che hanno che per la potenza e che si sposano in modo eccellente con gli stili di 'Sight e Dagha, ma anche di un sample di piano tagliato in modo tale da sottolineare cassa e rullanti e non dare una melodia; non da meno è la cupa ed ipnotica Ax Of Thor, in cui scorgo un sample degli Isley Brothers, nonchè la minimalista, ruvidissima e fortemente polemica Drop A Bomb. Ecco: queste tre sono senz'altro indicative dello spessore del protagonista del disco, sia come MC che come beatmaker, ma ad esse si possono tranquillamente aggiungere la bella Mental Mechanic, impreziosita da una serie di cut precisi e ricercati nel ritornello, la quasi defjukkiana Confrontation e la collabo con Mr. Lif e Dagha, interamente sorretta da un sample di fiati capace di rendere orgoglioso Pete Rock.
Peccato, però, che a fronte di basi quasi sempre tra il buono e l'ottimo, rappate di qualità e testi ben pensati e mai scadenti nel più becero populismo, vi sia una prolissità fittizia: scrivo "fittizia" perchè pur non durando molto (56'), Maysun Project pare molto più lungo. Questo è dovuto senz'altro all'abbondanza di skittini e interludi vari, che se magari possono pure esser fatti bene (cfr. A Deep look), a conti fatti spezzettano l'ascolto senza aggiungere nulla di immancabile o comunque capace di giustificarne l'inclusione. Peccato, davvero peccato, perchè se ad un primo esame questo può sembrare un difetto trascurabile (e nel momento in cui si fanno le tracklist effettivamente lo diventa) in realtà è quasi più dannoso che non avere tre o quattro canzoni fiacche.
Di conseguenza, per quanto io apprezzi Insight e per quanto non ravvisi molti difetti in questo Maysun Project -in termini numerici, voglio dire- ancora una volta non me la sento di dargli quattro zainetti, anche se per un soffio. Ma voi non fate i cugghioni ed ascoltatelo, oppure aspettate che riesca finalmente a passarvi Ghostface.



MASTA ACE & EDO.G (ACE & EDO) - ARTS & ENTERTAINMENT (M3 Hip Hop, 2009)

giovedì 21 gennaio 2010

Masta Ace e EdO.G sono due veterani dell'hip hop le cui carriere hanno molto in comune: entrambi hanno raggiunto l'apice della popolarità nella prima metà degli anni '90 salvo poi scomparire dal radar fino al decennio successivo; entrambi sono tornati in grande stile nel 2001 ricevendo il plauso della critica e fondamentalmente cominciando una seconda vita artistica; entrambi, infine, hanno basato la loro produzione musicale su criteri quali qualità e consistenza, divenendo così in brevissimo tempo i perfetti anelli di congiunzione tra la vecchia scuola e le nuove generazioni. Non stupisce pertanto se essi abbiano deciso di scrivere un disco a quattro mani, casomai stupisce che ci abbiano messo tanto per prendere questa decisione. Ma tant'è: tra le uscite dell'anno appena terminato una di quelle che più ho atteso è stata proprio questo Arts & Entertainment, in cui speravo di vedere una sintesi degli stili di Edo e Ace sommata all'ottimo orecchio musicale di cui i due talvolta fanno mostra; diciamo che m'aspettavo una sorta di «Frankenstein» composto da pezzi di Long Hot Summer, My Own Worst Enemy, The Truth Hurts e Disposable Arts.
Ovviamente mi stavo illudendo inutilmente e me ne rendevo conto anche da solo (ma si sa, la speranza è l'ultima a morire e chi vive sperando muore cagando), per cui quando al termine del primo ascolto mi son trovato di fronte al fatto che A&E non è un album da cinque zainetti devo dire che non me la sono presa più che tanto. Più problematico è stato casomai l'incedere negli ascolti, in cui pian piano la realtà ha cominciato a smantellare pezzo per pezzo il mio castello di sogni ed illusioni finchè, anziché aver di fronte la reggia che m'ero immaginato, mi è rimasto in mano un grazioso bilocale ma nulla più. Metafore idiote a parte, Arts & Entertainment è un buon disco ma risulta inferiore alla somma delle parti. Tò, l'ho detto.
La causa di questo però non va ricercata nell'emceeing bensì nel comparto della produzione. Infatti, benchè alcuni dei nomi coinvolti siano sinonimo di qualità (DJ Spinna, Supreme One o M-Phazes), vi sono più e più episodi in cui la sensazione che si stia assistendo ad uno spreco di occasioni senza fine diventa fortissimo. E non è il caso della tanto criticata Dancing Like A White Girl, che in qualità di concept track ha tutto il diritto di avere un beat in stile Lady GaGa, bensì delle tracce più genuinamente hip hop come Hands High, Pass Da Mic o A's & E's. Quest'ultima, per esempio, a fianco di batterie un po' moscie pone il solito campione di archi amelodico tirato per tutta la durata della misura, come forse solo il peggio 9th Wonder avrebbe saputo fare, rendendo così di fatto quasi inascoltabile l'intero brano. Ma se a produrla è il giustamente sconosciuto Baby Dooks lo si può magari perdonare, mentre chi invece va preso a schiaffi sulle palle è M-Phazes, che in Hands High si abbassa a campionare/risuonare una versione sintetizzata di un classico motivetto per bambini -da noi noto come il celeberrimo coro da stadio "Tenevaionotenevaisìono", per intenderci- risultando così del tutto privo d'immaginazione e soprattutto un po' farloccone (in inglese userei il termine «cheesy»). Per carità, meno peggio sono poi magari Pass The Mic o Reminds Me, la cui unica colpa è di suonare già sentite e risentite e dunque di una prevedibilità non comune; tuttavia, questa mancanza d'eccezionalità non solo non è un pregio ma per di più è fortemente limitativa, in quanto spesso e volentieri nuoce o affossa completamente qualsiasi sforzo lirico fatto dal duo facendolo galleggiare in un mare di banalità.
Soprattutto, questa mediocrità pesa maggiormente se si vanno ad ascoltare i risultati ottenuti da Ace e Edo quando sono supportati da beat seri: il singolo Little Young, per dirne uno, è potentissimo non solo per via del concetto e dell'esecuzione, ma anche grazie ad una base che picchia ad un punto tale da ricordare il miglior Dr. Dre (pardon: Mel-Man). Analogamente, Eight Is Enuff funziona divinamente proprio perchè nel suo minimalismo il produttore Frank Dukes ("noto" per aver prodotto tre delle quattro 125 Bars di Joell Ortiz) ha saputo lavorare in modo eccellente sulla linea di basso e sul pattern delle batterie, che imprimono un taglio hardcore alla vecchia maniera ad uno dei pezzi migliori di questo Arts & Entertainment. Last but not least, che dire di Good Music? A parte la presenza al microfono del sempre ottimo Pos, qui è DJ Spinna a dare una nuova reinterpretazione del suono nativetonguesiano e, coerentemente col suo sound più recente un po' più elettronico, riesce a dotare il trio di MC di una produzione confezionata su misura per i loro stili ma che conserva comunque una forte identità.
Queste tre impeccabili canzoni non bastano però a risollevare la qualità sonora dell'album, nemmeno se ad esse si aggiungono altri episodi tutto sommato ben riusciti come Round And Round, Over There o The Fans, perchè alla fine dell'ascolto la sensazione che prevale è, come dicevo, quella dell'occasione sprecata.
E lo dico con un certo fastidio, perchè Ace e Edo non si risparmiano: passano dalla contemplazione dei rispettivi passati (Here I Go) al loro rispetto per i fan (The Fans), dalle tracce più concettuali (Little Young, A's & E's) a quelle più battagliere (Eight Is Enuff, Pass The Mic), dai pezzi più incentrati sull'hip hop (Good Music) e su come questo si stia imbastardendo (Over There) al puro divertissement (Dancing Like A White Girl). E, manco a dirlo, questa varietà viene raggiunta con estrema disinvoltura e gran stile, confermando da un lato il talento e la versatilità di questi due veterani, e dall'altro la bontà dell'alchimia esistente tra di essi. Tant'è vero che le loro prestazioni fanno passare in secondo rilievo anche i featuring meno riusciti (KRS che non convince per nulla, una Marsha Ambrosious totalmente inutile), così come rendono accettabili tanti dei beat mediocri di cui ai paragrafi precedenti.
Ma purtroppo nemmeno i loro grandi talenti -che, lo ripeto, guadagnano dal lavoro in coppia- riescono a rendere davvero grande un disco come questo, che soffre moltissimo dal punto di vista del beatmaking a causa di scelte che perlopiù ondeggiano tra lo sciagurato ed il tristemente prevedibile. Tuttavia, quelle tre tracce che ho lodato poco prima valgono da sole un ascolto del disco, e alla fine anche gli episodi meno riusciti assumono un'importanza meno rilevante del previsto grazie alla varietà offertaci da Ace e Edo. Da prendere solo se masticate bene l'inglese e siete propensi ad ascolti concentrati.




VIDEO: EI8HT IS ENUFF

INFAMOUS MOBB - REALITY RAP (Sure Shot/IM3 Records, 2007)

martedì 19 gennaio 2010

Come molti di voi ormai sapranno, ieri è morto Prince AD aka Killa Sha, un veterano del Queensbridge che dopo una partenza in sordina negli ultimi anni s'era fatto notare soprattutto grazie ad un ottimo LP quale era il suo God Walk On Water. Ora, siccome quel disco l'ho già recensito non posso esibirmi in grandi tributi alla sua memoria, perciò tanto vale tuffarsi su altro: e quale miglior pretesto per parlare del capitolo conclusivo della Trilogia del Cinghiale, ovverosia il terzo ed ultimo album firmato (probabilmente con una X) dagli Infamous Mobb? Reality Rap -i cultori del trio in questione lo sapranno- sarebbe dovuto uscire nel 2004 o comunque non più tardi del 2005; tuttavia, una serie di lungaggini burocratiche legate alla distribuzione hanno comportato un cospicuo ritardo e perciò si è potuto ascoltare quest'opera tanto attesa solo nel 2007, forse fuori tempo massimo, visto che il successo di vendite è stato pressoché nullo.
Ad ogni modo, quest'attesa è stata una vera tortura per chi, come me, guardando il DVD allegato a Blood Thicker Than Water s'era imbattuto nell'anticipazione di Bloah (ora «Blauu!», sempre peggio) e aveva cominciato a salivare come in base ad un riflesso pavloviano. In effetti, questa canzone ha saputo riportarmi emotivamente ai miei sedici anni, cioè quando sentivo un pezzo e mi piaceva al punto da farmi smaniare come un posseduto per averlo: e qui la cosa si è ripetuta. Sarà il campione tagliato di Love Over Gold dei Dire Straits (il vantaggio di essere un bianco trentenne è che 'sti sample li becchi al volo), che conferisce un taglio enormemente melancolico al tutto, saranno le batterie relativamente semplici oppure, ancora, sarà l'approccio senza fronzoli dei tre: fatto sta che Bloah non solo si colloca tra le tre migliori canzoni dei Im3, ma tra quelle migliori del 2007 (e per quel che mi riguarda del decennio, ma mi rendo conto di essere esagerato e di meritare gli insulti che verranno nei commenti). Per carità: il testo è sempre la solita roba ghettusa e visceralmente ignorante, ma mi parrebbe scorretto pretendere altro da un gruppo che ha fatto dell'estremizzazione rozza del connubio fica-soldi-hoodness la propria cifra stilistica.
E difatti anche qui, come nelle loro opere precedenti, avremo a che fare con questi profondi temi la cui unica rilevanza sarà data dal modo in cui ci vengono esposti. E stavolta qualche novità dal punto di vista dell'emceeing c'è, e consiste molto semplicemente in questo: sia Twin che Knitty sembrano migliorati dal punto di vista della tecnica. Non ci credete? Ascoltatevi le loro tracce soliste (in Reality Rap ogni membro ne ha una) e ditemi se Gambo nella sua Closer quasi non riesce a far scordare la mediocre produzione di Sid Roams, così come Knitty alla fin fine riesce addirittura a suonare competente sul bel beat di Get It Poppin' e quindi a valorizzarlo una minima. Certo, che sia ben chiara una cosa: i due restano delle capre e alla fine G.O.D. resta ancora l'unico tra i tre dotato di un minimo di spessore lirico; però devo dire che non dispiace notare un minimo di crescita sia da parte di chi potrebbe farne a meno per altri motivi (Gambino), che da chi invece ne aveva un bisogno enorme (Knitty). E con questo chiudo l'apologia dei Mobb.
Ebbene, attestato che le tematiche sempre quelle sono e che i tre alla fine sono un po' migliorati, sia presi singolarmente che nel complesso, veniamo ora ad occuparci delle basi. Anche stavolta queste si rivelano essere le naturali fondamenta dell'album e per l'occasione si possono notare un paio di novità. I nomi sembrano innanzitutto essere più noti/importanti -sempre in termini relativi- rispetto al passato, e così stavolta possiamo beccarci un po' più di Alchemist, diverso materiale dei Sid Roams, più qualche contributo sparso di Evidence, Erick Sermon (!?), Chaze dei parigini Grim Team ed il già "apprezzato" Steve Sola. Ora, il fatto di avere nomi relativamente più noti non significa automaticamente un incremento della qualità, però devo dire che rispetto a Blood Thicker Than Water quest'opera ha il pregio di suonare un po' più varia: si esplora infatti sia la tipica cupezza del QB con Bloah, Who Can U Trust o la übercafona It's A Gift (con Sola che campiona la il tema principale di Bourne Identity), sia i pestoni nuiorchesi contemporanei che si rifanno al passato (Capitol Q, That Smell, Reality Rap, Hustle Hard), sia un certo sound un po' cafunciello ma sempre e rigorosamente orientato all'universo del cosiddetto street rap. In tal senso, quindi, Reality Rap sembrerebbe sorpassare i predecessori e potrebbe risultare financo "maturo".
Purtroppo, però, non tutto è rose e fiori: infatti, quello che poteva essere un canto del cigno si rivela invece essere semplicemente un disco passabile, sempre ammettendo che siate fan degli Im3 e siate quindi disposti a tollerare le loro lacune. Ma prima di sparare ad alzo zero, vediamo cosa c'è di buono: beh, innanzitutto Bloah, che è evidentemente il pezzo trainante dell'album, seguita a ruota dall'ottima Reality Rap, in cui un Alchemist d'annata si dà da fare tagliando campioni soul ed inserendovi cut come da tempo non faceva. Ottimo anche l'altro suo contributo, Hustle Hard, che risulta ruvida e martellante al punto giusto. Dal canto loro si difendono bene pure EBlaze e la sua energica Capitol Q, la triviale ma efficace It's A Gift (ma il merito è del compositore John Powell più che del pigrissimo Sòla) e Get it Poppin' e Streetz Of NY -ambedue di Sid Roams.
Tuttavia, a fianco di queste ci sono tutta una serie di smagliature che alla fine rovinano non di poco la fruizione del disco nel suo complesso, prima fra tutte la genericità. Vale a dire che a fronte di una maggiore varietà in quest'occasione dobbiamo sucarci beat privi d'anima (e mordente!) come quello di Borderline o quello di We Here (decisamente, gli ACD han fatto una cosa valida in vita loro, e quella è stata Street Life. Poi, il nulla), che potrebbero andar bene per tutti e per nessuno. Poi, anche stavolta c'è una lunghezza eccessiva (diciotto tracce, maddài...) e, soprattutto, anche a questo giro dobbiamo sopportare gli ospiti pacco: Erick Sermon come rapper non solo è trascurabile ma coi Mobb non c'entra nulla, Alchemist non sa rappare, V-12 e Chinky sono l'antitesi del canto e Flame Killer -che si può sentire nel singolo!- è una mezza chiavica. A questi nomi, insomma, l'onore di rovinare qualsiasi traccia sulla quale appaiano -sempre che non ci pensi qualcun altro. E questo qualcun altro può essere il produttore (Sid Roams con Closer), l'MC (Knitty su 4/20 e non solo) oppure entrambi (il pessimo doppio tempo di G.O.D. sull'assordante That Smell). Insomma, per dirla brutalmente, pure stavolta i Nostri potevano e dovevano scremare un po': sia quantitativamente che qualitativamente.
Ma in fondo li si può perdonare... Credo che il malinteso possa esservi stato quando all'uscita di Special Edition si pensò che loro fossero un gruppo dotato di qualche particolare marcia in più, mentre in realtà sono dei grezzoni che generalmente fanno rap grezzo nel modo più grezzo possibile. E, accettata questa sorta di «visione artistica», uno si mette il cuore in pace riuscendo pure a godersi le canzoni belle da loro fatte; tuttavia non si riesce a scacciare il pensiero che se si fossero limitati ad un solo disco con il materiale più potente sarebbe forse stato meglio... ma del resto i greatest hits esistono anche per questo, per cui tra non molto provate a ripassare da queste parti. Intanto, a Reality Rap do un tre pieno e che non se ne parli più.




VIDEO: BETTI BYE BYE

ENCORES 2009 - REWIND HITTERS VOL.6 (2010)

lunedì 18 gennaio 2010

Voglia di recensire zero, ma per fortuna riesco a salvarmi in zona Cesarini con l'Encores di quest'anno. Encores che, per dirla tutta, se non mi soddisfa dal punto di vista della grafica (ma insomma, a una certa mi ero anche rotto i coglioni di far prove) da uqello della selecta invece sì e molto. Praticamente il contrario di quello dell'anno scorso. Vabbè, ecco la tracklist:

01. Rap Ambush - Doom (prod. Jake One)
02. Lifetime - Marco Polo & Torae (prod. Marco Polo)
03. Think About It - O.C. & A.G. (prod. EBlaze)
04. Sonny's Missing - Raekwon (prod. Pete Rock)
05. Radiant Jewels - Raekwon, Cormega & Sean Price (prod. Fizzy Womack)
06. I'm Dope Nigga - Method Man & Redman (prod. Havoc)
07. Give It Up - DJ Honda & Problemz (prod. DJ Honda)
08. Nitro - Slum Village (prod. Young RJ)
09. Motor Music - Finale (prod. Black Milk)
10. Auditorium - Mos Def feat. Slick Rick (prod. Madlib)
11. The Great - Elzhi (prod. Oh No)
12. Shake This - Royce The 5'9'' (prod. DJ Premier)
13. Karma Killerz - Aesop Rock, C-Rayz Walz & Vast Aire (prod. DJ JS-1)
14. Streets Won't Let Me Chill - Diamond District (prod. Oddisee)
15. Little Young - Masta Ace & EdO.G (prod. M-Phazes)
16. Make It Clear - Cormega (prod. DJ Premier)
17. Cloud 9 - Reks (prod. DJ Premier)
18. Microphone - Slaughterhouse (prod. Alchemist)
19. Proper Aim - Souls Of Mischief (prod. Prince Paul)
20. Street Merchant - Krumb Snatcha (prod. Thoro Tracks)
21. Head High - Mr. Lif (prod. DJ Therapy)
22. More - Dynas (prod. DJ Spinna)
23. The Beautiful decay - Skyzoo (prod. 9th Wonder)
24. Blind Man - Trife (prod. Blunt)

Al solito, se masterizzate mi raccomando di eliminare le evntuali pause tra una traccia e l'altra. Nello zip troverete anche la grafica, se doveste aver problemi coi font (non li ho convertiti in tracciati) fatemi sapere che li carico. Qualsiasi commento e pubblicità gratuita sono i benvenuti.

Encores 2009 - Rewind Hitters Vol.6

DJ CLUE - THE PROFESSIONAL (Roc-A-Fella/Def Jam, 1998)

venerdì 15 gennaio 2010

Quest'album di Clue -per essere precisi il suo esordio per una major dopo una quantità di mixtape alla vecchia maniera- si può prendere in due modi radicalmente differenti tra loro e decidere perciò se odiarlo o dargli una chance. Se lo si vuole odiare basta concentrarsi sul fatto che del DJ Clue ha ben poco: non mixa, non usa il giradischi e praticamente grida fesserie sulle canzoni e basta; se invece lo si vuole amare si deve pensare al fatto che alla fine egli (con il compare DURO -no homo) produce il 90% di quello che, in fondo, più che un mixtape è una compila in tal senso non troppo dissimile da Soul Survivor: tanti ospiti su produzioni originali create ad hoc.
Personalmente io non reputo il personaggio un granchè, anche se un posticino nella storia ce l'ha: per me è poco meno di un Puff Daddy (che guardacaso appare nell'intro) del giro dei mixtape, cioè uno che grazie alla capacità di crearsi dei contatti e saperli sfruttare è riuscito a costruirsi una carriera, che al contempo è rispettabile dal punto di vista imprenditoriale e deprecabile da quello artistico. E siccome a me dell'aspetto imprenditorial-economico-peschereccio non me ne può frega' de meno, Clue può anche andare a dar via il culo, in special modo dopo i due ignobili sequel di Professional. Ma sto divagando.
Limitandoci a questo disco cosa abbiamo? Abbiamo una pletora di nomi della scena nuiorchese -ma non solo- più in auge all'epoca, sia che si tratti di emergenti (Big Pun, Canibus, la cricca dei Ruff Ryders) che di artisti affermati (Jay-Z, Nas, Def Squad, Mobb Deep). Il senso di questa scelta è ovvio e consiste nel presentarsi sul mercato con una summa, un bignamino del chi-è-chi dell'hip hop di fine millennio e così incontrare i gusti di chiunque; difatti non solo alcuni dei protagonisti sono diversissimi tra loro per sound e carriera, ma anche nel campo dei beat i salti stilistici sono innumerevoli. E così, se sulla carta il progetto può risultare interessante quantomeno per alcune delle combinazioni e dei nomi proposti, dall'altro risulta essere un pochino paraculo (ma è il meno) e soprattutto tremendamente incostante. Com'è infatti possibile conciliare un classicone cupo com'è The Professional -Mobb Deep e Noyd con beat di V.I.C.- con una puzzetta da club qual è Bitch Be A Ho (titolo più ignorante del '98, BTW) di Jermaine Dupri? Non si può in nessun caso, è ovvio, e così ecco che The Professional, analogamente a molti dischi usciti per major all'epoca, risulta essere al massimo una mediocre cesta dalla quale raccogliere saltuariamente qualcosa di buono.
Ma anche in questo caso il "qualcosa" in fin dei conti non equivale a molto. Sul versante positivo dei pezzi possiamo infatti elencare la già menzionata title track, con i Mobb belli in forma e ruspanti ed un beat che non tradisce il loro stile; idem per Queensfinest di Nas e It's My Thang '99 degli EPMD con Redman e Keith Murray, un pezzo che non toglie nulla all'originale e anzi lo ripropone rispettosamente in versione riveduta e liricamente aggiornata. Gangsta Shit di Jigga e Ja Rule è invece materiale negli standard d'allora di Shawn Carter, quindi non malvagio ma nemmeno degno di chissà quali applausi; al contrario, Exclusive-New Shit con Nature risulta inascoltabile malgrado il bel sample di Bob James (già sentito in Beasts From The East dei Lost Boyz, però) in quanto inspiegabilmente qualche genio ha deciso di censurare le innumerevoli scurrilità ivi contenute; last but not least, tra i pezzi di qualche valore si può infine annoverare la buckwildiana Cops & Robbers, principalmente grazie ad un beat costruito su un buon sample degli Stylistics (lo stesso che Alchemist farà suo in The Man The Icon) e alle rime di Lord Tariq, peraltro qui affiancato da un altro cialtrone della scuderia Desert Storm di nome Muggs e che altri non è che il fallitone Paul Cain.
Tolte queste canzoni, e non avendo nessuna voglia di perdere tempo a dir male di scontate porcherie come i pezzi di Fabolous (all'epoca Fabolous Sport, pensa te), Jermaine Dupri, Ma$e o Missy Elliott, il materiale che resta oscilla tra l'orrendo ed il deludente. Ad esempio: facciamo finta che i Ruff Ryders siano una crew di talentuosi e facciamo finta che la base di Ruff Ryders Anthem sia una figata: anche così, perchè mai mi becco un remix su cui ci sono Eve e Drag-On, cioè due schiappe clamorose? O, ancora, perchè il pezzo di DMX è identico ai milioni fatti fino a quel punto? Impossibile dirlo. Mentre è facile dire perchè la posse cut principale dell'album, cioè Fantastic Four, con Cam'Ron, Pun, Noreaga e Canibus, sia perlomeno molto deludente: con una base simile nemmeno loro -escludo ovviamente Cam che all'epoca faceva schifissimo- potevano fare molto; monotona, ripetitiva, senza melodia da un lato e priva di batterie serie dall'altro, come produzione non stonerebbe se inserita in uno dei patetici e noiosissimi dischi dei Kings Of Convenience. Lo stesso dicasi per No Love, assolutamente fuori luogo per gli M.O.P., Brown Paper Thoughts di Raekwon e la ultragenerica Thugged Out Shit, così come per i contributi della Flipmode Squad, della Boot Camp Clik e dei tanti altri che non hanno voluto/potuto produrre materiale all'altezza delle rispettive reputazioni.
Insomma, tanto per farla breve: molto fumo, poco arrosto ed un successo di pubblico decisamente esagerato rispetto a quella che è fondamentalmente una idea carina realizzata però male. Due e mezzo, valà, che son pure un po' regalati...



INSIGHT - TARGETING ZONE DELUXE EDITION (Ascetic, 2007)

giovedì 14 gennaio 2010

Insight è un nome che a molti non dirà nulla o al massimo farà ricordare qualche apparizione su album altrui più famosi, eppure è uno degli artisti più attivi della recente scena bostoniana sia in veste di MC che di produttore. Personalmente lo scoprii tra la fine del '99 e gli inizi del 2000, quando lavorava insieme a T-Ruckus facendo sporadiche apparizioni su sampler della Brick o della Landspeed, ma la vera svolta ci fu solo nel 2002 con il suo LP d'esordio, Updated Software. Di lui mi piacquero principalmente due cose: i beat dal taglio piuttosto sporco e la sua capacità di mescolare piuttosto bene rime e contenuti; in pratica trovavo la sua musica una sorta di versione aggiornata del rap nuiorchese tra il '91 ed il '93, capace di mischiare le basi della D.I.T.C. con i contenuti dei De La Soul. Più o meno.
Per questo motivo ho cercato di mantenere aggiornata la sua discografia, recuperando in modi rocamboleschi (prima di Vibra e Amazon, insomma) le varie uscite susseguitesi negli anni; e se nessuna di esse è mai riuscita a raggiungere uno stato d'eccellenza -l'album fatto con Damu a nome di Y Society non conta- il loro pregio è stato di mantenere pur sempre un livello medio piuttosto elevato, con qualche genialata sparsa qua e la e davvero poche autentiche cacate. Targeting Zone non fa eccezione, e se ho scelto di parlare di questo album anzichè del primo o del secondo è solo in virtù del fatto che qui la varietà musicale è maggiore, e pertanto si presta più all'ascolto da parte di chi non aveva mai sentito parlare di questo bostoniano.
In esso infatti troviamo dei stili di beatmaking in sè non nuovi ma comunque ben differenziati tra di loro, e così, a fianco di una Rhyme Master -tipica per 'Sight- avremo una Good Morning, dalle atmosfere ben più rilassate, oppure una Moment To Unwind con tanto di vocine pitchate. Per carità, nulla di enormemente originale o folle, semplicemente una serie di «variazioni sul tema» capaci di conferire una varietà sonora finora inedita per il bostoniano; il quale comunque riesce a mantenere a fuoco la direzione artistica del progetto mediante l'approcio concettuale e mediante i costanti richiami a sonorità ben collaudate ed apprezzate. In tal senso si lascia apprezzare in particolar modo il buon orecchio del Nostro: l'etereo loop di piano ed archi di Moment To Unwind, la lieve chitarra di I See Better Days o il giro di pianoforte jazzato di Now Time To Cool Out sono solo alcuni degli esempi di come egli sappia trovare melodie memorabili ed al contempo capaci di viaggiare su beat che picchiano. Inoltre, bisogna dar atto a 'Sight di aver saputo scegliere dei campioni che si accostano perfettamente con il tema della canzone di turno; Targeting Zones è quindi un album fortemente atmosferico, in cui con poche eccezioni l'intento è di immergere l'ascoltatore nel mood più adatto per fargli comprendere il senso dei testi. E se alle volte ciò proprio non riesce (il remix di Bother Me), spesso e volentieri invece il nostro eroe fa centro riuscendo così ad impreziosirli notevolmente: I See Better Days, Usual Scene, Time To Cool Out, No Turning Back (che fa molto King Gheedorah), Situations e Under A Spell ne sono alcuni esempi che vi suggerisco d'ascoltare.
Suggerimento che deriva anche dal fatto che Insight evidentemente tiene molto ai suoi testi, i quali sovente risultano sì pregni di contenuti ma senza mai scordarsi di cercare di stupire con le rime; affondando quindi i piedi negli stili di Big Daddy Kane e Q-Tip, egli ondeggia tra l'autocelebrazione vecchia maniera e la descrizione della vita quotidiana -con critiche sociali annesse. Una formula già sentita miliardi di volte, ma che anche stavolta funziona grazie alla capacità di scrittura dell'autore e, soprattutto, grazie ad una cifra stilistica che nella sua sostanziale derivatività riesce paradossalmente a sembrare originale. Al limite, quello che gli si può contestare sotto il profilo dell'emceeing è un tono vocale fin troppo piatto anche quando si spinge oltre gli omaggi al fast rap, ed una pronuncia che nei passaggi più serrati perde di chiarezza -sintomo di poco controllo del respiro. Difetti, questi, che non pregiudicano l'ascolto ma che necessiterebbero di una limatura al fine di potersi spingere verso l'eccezionalità.
Ma se la suddetta eccezionalità non viene raggiunta non è solo per via di difetti di tecnica, purtroppo. A danneggiare Targeting Zone c'è, come al solito, una certa prolissità del tutto (quasi settantasette minuti di durata!), qualche pezzo francamente evitabile (una copia carbone di The Life di Styles e Monch, l'ennesimo ed inutile remix di Message 2000), degli ospiti non proprio eccellenti -Dagha e il resto degli Electric sono a malapena passabili- ed infine qualche autocitazione di troppo. Non roba da poco, insomma, specie se si considera che questo è il suo quarto disco da solista e che i difetti qui presenti sono esattamente gli stessi del primo album!
L'unico motivo di perdono per Insight, dunque, è la bellezza di ciò che resta dell'opera in seguito alle critiche di cui sopra. Personalmente trovo che la sua visione sia contemporaneamente fresca e nota, e che la realizzazione risulti anche oggi un caso molto raro persino all'interno del cosid. throwback rap. I primi anni '90 sono infatti ancora tutti da esplorare, e se qualcuno lo sta facendo con intelligenza -senza cioè scordarsi dell'anno in cui sta vivendo- questo è proprio 'Sight il quale, disco dopo disco, non sta ergendo un monumento musicale spettacolare e visibile a tutti quanto una struttura solida dentro alla quale qualsiasi aficionado potrà trovare rifugio [bella metafora del cazzo]. Non essenziale, quindi, ma se vi resta qualche soldo...




VIDEO: YOU BOTHER ME (BONUS RMX)

INFAMOUS MOBB - BLOOD THICKER THAN WATER (IM3 Records, 2004)

lunedì 11 gennaio 2010

Visto che venerdì vi ho scritto di Infamous, ancora ieri sera m'è venuto in mente che per questioni di completezza filologica -oltreché di ricerca di emozioni forti- sarebbe stato delittuoso non battere il ferro finché è caldo e dunque scrivere qualcosa sui da me tanto amati Infamous Mobb. Il trio composto da G.O.D. Pt. III (che è come se io mi facessi chiamare «Amarcord» o «Miracolo A Milano», se ci pensate), Ty Knitty ed il divino Twin Gambino, evidentemente non appagato dal successo di Special Edition, non si è addormentato sugli allori e a distanza di soli due anni dall'episodio precedente ha dato alle stampe un sequel del loro ottimo debutto, corredandolo peraltro di un DVD autocelebrativo contenente video "ufficiali", interviste e amenità varie. Imperdibile!
Ma volendo lasciar da parte l'aspetto cinematografico di Blood Thicker Than Water, impossibile da descrivere a parole nel suo essere così ghettusamente oltre, vediamo di fare il punto della situazione: nel primo capitolo della Trilogia del Cinghiale avevamo lasciato i tre nella sporcizia e nel degrado del Queensbridge, loro quartiere d'origine, mentre si trovavano a combattere un'eterna battaglia contro la polizia, i rapper parrucconi, le fake hoe$ e gli onnipresenti playa-hatin bitch-azz nigguz. Una battaglia senza esclusione di colpi in cui il trio non faceva ostaggi, e a suon di banconote, droga e rime AABB i nostri cercavano di emergere dallo squallore in cui le circostanze li avevano fatti precipitare. Ora, nel secondo capitolo, cos'è cambiato?
Assolutamente nulla, e difatti la loro lotta si presenta dura come non mai; ma loro, mai domi, si dimostrano pronti ad affrontare qualsiasi avversità e, a partire dalla copertina (in cui si vede G.O.D. accendersi un sigaro con delle banconote da 100$, roba che nemmeno Rockerduck), decidono di mettere in campo tutto il loro arsenale. Il singolo Empty Out (Reload, che fa parte del titolo a mo' di suggerimento) ne è l'esempio migliore: su un bel loop di archi sottolineato da batterie quadrate volte esclusivamente ad accentuarne la potenza ed a conferire un tiro ben serrato al tutto, G.O.D., Ty Knitty e l'ospite nonché mentore Prodigy si lasciano andare a quel che sanno fare meglio: scagliare minacciose invettive contro chiunque si frapponga tra di essi e le loro ambizioni, il tutto ribadito da numerosi effetti di arma da fuoco nel ritornello. Direi che non si potrebbe chiedere di più: il beat di Masberg picchia, gli MC fanno il loro dovere ed alla fine l'unica cosa che spiace è che Gambino sia relegato al solo ritornello. Ma per gli orfani del Sandro Ciotti del QB c'è molto altro materiale: Greenback, per esempio, oltre a godere di un'altra cartella di Masberg (stavolta incentrata su un giro di piano che renderebbe orgoglioso l'Havoc dei tempi d'oro) vede i tre avvicendarsi al microfono e, come prevedibile, è Twin a rubare la scena grazie ad entrate come "You can jump, we can thump, dunn, whatever you want/ You don't want me to send Alamo out with the pump/ He a young ass kid and he ready to ride/ Don't even look this way 'fore I punch you in your eye". Analogamente, più avanti nel disco c'imbattiamo nell'ottima U Know The Ratio, che riprende il mai abbastanza noto campione di archi tratto da Instant Love di Leon Ware (la parte meno prevedibile, peraltro) e la rende di una cupezza tale per cui la presenza di Twin e di cut azzeccatissimi nel ritornello non sono che la proverbiale ciliegina sulla torta. Non male nemmeno il lavoro del californiano Nucleus, che omaggia apertamente il miglior Alchemist con Watch Your Step, e che viene seguito da un Joey Chavez forse un po' pigro (un loop della zozzissima Millie Jackson che viene lasciato girare senza fronzoli) ma certamente dotato di buongusto. Chiaramente, questi sono beat che al sanno pestare su woofer ma al contempo mantengono una melodia orecchiabile: esattamente ciò di cui abbisognano i nostri, i quali puntando tutto sul carisma necessitano sia di batterie che enfatizzino quest'aspetto, sia di aspetti melodici che distraggano dalle loro evidenti lacune tecniche.
Qui Quo e Qua non brillano infatti per altre doti che non siano le voci, e pur sapendo far di necessità virtù in modo davvero invidiabile (peccato per Ty Knitty, che il più delle volte è proprio inascoltabile) hanno sempre bisogno di beat di qualità superiore alla media. E per quanto anche stavolta si può dire che nell'insieme ci riescano -pur essendo sprovvisti di Alchemist- vi sono diversi episodi in cui l'aspetto musicale crolla portandosi appresso gli Im3. More Hoes Than Hefner è un ottimo esempio di questa pochezza, nel senso che a fronte di una base accettabile il talento lirico complessivo non è sufficiente a riscattare la canzone dall'alveo della mediocrità tendente al brutto; idem come sopra per Got That Iron, apparentemente un'ode al ferro da stiro, che precipita sotto i colpi dell'ignobile ritornello di Chinky e soprattutto del generico beat "curato" da tale Steve Sola -quando si dice nomen est omen. Peccato infine per l'uso fiacco fatto della mitica Supernatural Supernature di Cerrone (ascoltatevi Venom degli Arsonists per notare la differenza) in King From Queens, e peccato anche per la bruttarella Gunz Up -unica apparizione di un Alchemist col pilota automatico innestato e quindi piuttosto inutile.
Insomma, arriviamo al dunque: i tre porcellini stavolta hanno allungato il brodo con le cazzate spingendosi oltre la soglia del «vabbè pazienza, so' regazzini»: non solo includendo materiale che avrebbe fatto meglio a restare negli hard disk di V.I.C. (che ha curato il mixaggio del tutto facendo un ottimo lavoro) ma anche arrivando ad inserire pezzi -Gunz Up e Tonite- in cui non c'è alcuna traccia degli Im3 stessi ma solo di alcuni loro amici! Giusto loro potevano... Comunque sia, diciamo che vista oltretutto la ripetitività lirica dei tre, sarebbe stato molto meglio avere una tracklist sulle tredici-quattordici unità, in quanto la qualità di alcuni pezzi sarebbe risaltata molto di più. Così com'è, invece, si tratta di un piccolo passo indietro per gli Infamous Mobb, che se da un lato non gli farà perdere i fan, dall'altro nemmeno li aiuterà a farsene di nuovi.




VIDEO: WHO WE RIDE FOR

MOBB DEEP - THE INFAMOUS (Loud/RCA, 1995)

venerdì 8 gennaio 2010

Ci sono artisti per i quali compilare raccolte antologiche è quasi una necessità, in quanto la loro discografia è qualitativamente frammentaria e perciò farne una sorta di riassunto quasi giova alla loro reputazione; altri, invece, ne hanno bisogno perchè la loro carriera è talmente lunga che avere una sorta di Bignami può aiutarli a guadagnare i fan più giovani. Altri ancora, infine, presentano una peculiarità parecchio tediosa per chi si dovesse cimentare in questa sorta di operazione, consistente cioè nell'avere all'attivo un album definibile come «classico» a tutti gli effetti: non solo quindi per quanto riguarda strettamente la loro storia, ma quella della musica in generale. Succede perciò che il compilatore da un lato deve necessariamente scremare del materiale, ma dall'altro sarebbe spinto ad includere l'intera opera e bona lé. Questo è il caso di Nas, di GZA, dei Public Enemy e, appunto, dei Mobb Deep.
Infatti, quando qualche tempo fa mi sono cimentato nella loro antologia, pur disponendo di ben 240 minuti di tempo/spazio vi giuro che ero tentato di includere l'intero The Infamous: ma non solo perchè questo disco è uno dei pilastri della storia dell'hip hop, ma anche perchè personalmente il mio legame con questa meraviglia di album è fortissima, forse ancor più che con Illmatic o Liquid Swords. Non scherzo quando dico che da quattordicenne quest'album segnò i punti cardinali di quello che per me dev'essere innanzitutto il rap, cioè basi cupe dalle atmosfere caduche, sulle quali qualcuno deve rappare in maniera tale da appagare sia l'aspetto tecnico che quello della scrittura. L'hardcore, insomma. Punto. Poi, certo, nel tempo mi sono ammorbidito ed ho imparato ad apprezzare molte delle miriadi di sfumature di questa musica ma, ancor'oggi, fornitemi materiale analogo a quello dei Mobb Deep e sappiate che di base lo preferirò sempre a qualsiasi altra cosa, per bella che essa possa essere. Per dire: Nation Of Millions? Storico. Low End Theory? Capolavoro. Enta Da Stage? Non c'è nemmeno da chiedere, ma... per quel che mi riguarda Infamous è tutt'un'altra cosa, mi spiace.
Considerato a ragione uno degli artefici della riaffermazione della supremazia nuiorchese su tutto il resto, quando il secondo album dei Mobb venne anticipato dal singolone Shook Ones Pt.II -anch'esso senza dubbio tra le migliori dieci canzoni di sempre- risultava chiaro che qualcosa di grosso stava per succedere: l'attacco di hihats e rullante, il campione di Quincy Jones che pare quasi un lamento, ed infine la frase introduttiva per definizione "To all the killers and the hundred-dollar-billers" che lascia libero spazio ad una delle linee di basso più potenti che si fossero mai sentite da You Gots To Chill in poi. Pura poesia. E se già questo potrebbe bastare, come scordarsi delle strofe di Prodigy e degli innumerevoli quotables che esse contengono? Secca ammetterlo, ma aveva perfettamente ragione Phonte dei Little Brother quando scriveva che uno dei motivi per cui P è di diritto entrato nella storia dell'emceeing è dovuto alla sua capacità di regalare singoli versi a dir poco memorabili. Insomma, tanto per farla breve mi limito a dire questo: qualora qualcuno dovesse dimostrare curiosità per il rap e voi voleste fargli sentire qualcosa, dategli Shook Ones; se gli piace c'è speranza e vale la pena passargli altro, mentre in caso contrario non è la musica che fa per lui.
Ma se fosse solo per Shook Ones i Mobb potrebbero esser stati delle meteore come tanti altri; il fatto è però che nel loro caso sono riusciti a mettere insieme tredici canzoni spettacolari di cui alcune a dir poco immortali, per cui i 66'51'' di durata di Infamous ancora oggi scorrono con una naturalezza ed un godimento da parte dell'ascoltatore assolutamente impareggiabili. in più, essi son stati capaci di creare un intero mondo o, meglio ancora, un immaginario quasi cinematografico di cui The Start Of Your Ending, con i suoi melancolici arpeggi appoggiati da un set di batterie a dir poco brutale, non è che solo l'inizio. La discesa nel ventre di una New York -più esattamente il Queensbridge- violenta ed ostile proseguono con Survival Of The Fittest, il cui minaccioso campione di piano ha contribuito a far entrare nella storia la canzone: in essa Hav e Prodigy ci ricordano quanto sono propensi alla violenza ("I'm going out blastin' takin' my enemies with me"), in un crescendo di minacce ("There's a war going on outside no man is safe from") e accenni a diversi gradi di antisocialità ("Fuck lookin' cute I'm strictly Tim boots and army certified suits"). Ora, nel bene e nel male questa loro forma di ultraviolenza ha segnato una dipartita da quelle che erano le tematiche classiche legate a New York, in cui certo non si respirava aria di tarallucci e vino ma nemmeno s'aveva assistito ad un simile sfoggio di aggressività, storicamente ben più vicino agli ambienti di Compton e South Central; da Infamous in poi la tendenza prenderà sempre più piede in un'orgia di chi la spara più grossa e questo a molti non è piaciuto ma, come dire?, gli effetti speciali spesso e volentieri ci stanno (vedi quel che recentemente ha scritto Combat Jack).
Ma ultraviolenza a parte, questo disco presenta altri aspetti della famigerata street life che qui vengono esplorati sotto prospettive diverse ed a loro modo innovative: ne sono esempi lo storytelling über-ghettuso di Trife Life, l'excursus nella paranoia da arresto di Temperature's Rising -logicamente seguita da Up North Trip, descrizione di un viaggio e raltivo soggiorno a Riker's Island- o anche la concept track Drink Away the Pain. Insomma: The Infamous non solo porta agli estremi la logica della hood tale così come già affrontata in precedenza da Kool G Rap, ma da un lato la esaspera ai limiti del surreale e dall'altro la rinchiude all'interno delle mura del ghetto, del quale è componente essenziale e diffusa. In più, a ciò aggiunge valanghe di paranoia diffusa su più livelli ed una misantropia non comune, col risultato finale che nelle azioni dei Mobb -idealmente rappresentativi del QB- non c'è né catarsi, né speranza ma solo negatività.
Piaccia o meno l'idea, l'esecuzione è indiscutibilmente perfetta sia dal punto di vista delle liriche che da quello dei beat. E parlando di questi, esattamente così come i testi hanno segnato una svolta stilistica estesasi ben oltre i soli Havoc e Prodigy, essi hanno apportato diverse innovazioni in senso generale oltre ad aver conferito un'identità, un sound al loro quartiere d'origine. I brevissimi loop scelti da Havoc vengono difatti tagliati, ricomposti e sovrapposti ad altri con abbondante uso di filtri; contestualmente, le batterie suonano secche ma il fatto di utilizzare sovente di un riverbero conferisce loro comunque potenza, la quale infine viene sottolineata da linee di basso corpose ma mai troppo pulite. Oltre a ciò, la predilizione di pianoforti e archi nel sampling -rispetto alle cose più jazzate o funk degli anni precedenti- distacca definitivamente The Infamous dallo stile predominante dell'epoca permettondogli di coniare un nuovo filone che fa della cupezza la propria cifra stilistica. Difficile in tal senso trovare produzioni indiscutibilmente superiori ad altre -Shook Ones Pt.II a parte- ma la cosa non è grave; sia che si tratti di Q.U. Hectic che Up North trip, alla fine ciò che si assaggia non sono soamente che diverse fette della stessa torta.
Difetti, quindi, nessuno; storico, impeccabile, innovativo, longevo e soprattutto il mio album preferito di sempre. Infamous continua a far storia da quindici anni a questa parte. Stab your brains with your nosebone...




VIDEO: SHOOK ONES PT. II

DIAMOND DISTRICT - IN THE RUFF (Mello Music Group/Groove Attack, 2009)

giovedì 7 gennaio 2010

Innanzitutto benttornati a voi ma soprattutto bentornato a me stesso su queste pagine: dopo un capodanno passato all'insegna dell'anzianità, dell'alcol e della malattia, stamane mi ritrovo in ufficio nella remota speranza che non si ritorni immediatamente al lavoro cosicché possa scrivervi du' righe su un altro buon album uscito nel 2009: In The Ruff dei Diamond District. Ora, a meno che già non lo conosciate, dubito che il nome di questo gruppo vi possa dire un granché in quanto tecnicamente si tratta di un esordio. Tuttavia, la presenza al campionatore (e al microfono) del già noto Oddisee potrebbe aiutarvi ad avvicinarvi al trio, composto per i restanti due terzi dagli MC Y.U. e X.O., e a far scaturire la canonica fiammella della curiosità; curiosità che potrebbe/dovrebbe accentuarsi nel momento in cui prendiamo in considerazione il fatto che i tre provengono da Washington, una città conosciuta per milioni di motivi fra i quali però non rientra l'hip hop e che pertanto si può dire essere ancora terra di conquista.
E i Diamond District, il cui nome deriva da una definizione urbana concettualmente rapportabile alla nostrana MiTo (vedi QUI), si propongono proprio come portabandiera della capitale statunitense: partendo dal nome e passando per localismi di vario genere, essi giungono infine all'efficace rappresentazione della maggior fascia demografica del luogo -i cosiddetti colletti blu- e delle sue peculiarità così come dei suoi problemi. Vorrei allora cominciare col sottolineare il primo dei tanti pregi di In The Ruff: la «personalità» in senso lato. I testi dei tre, infatti, non possono in nessun modo essere confusi con quelli di qualche collega di Brooklyn, Detroit o San Francisco; e non solo perchè i riferimenti a D.C. abbondano, ma anche e soprattutto perchè man mano che si prosegue nell'ascolto si viene a conoscenza di una popolazione tipicamente working class che finora solo in rare occasioni era stata descritta, e men che meno si era lasciato così tanto spazio ai suoi problemi, alle sue ambizioni e soprattutto al sue peculiarità. E, sempre restando all'interno dell'aspetto scritto del disco, il secondo motivo per le sue meritate lodi va senz'altro alla sua attualità: i Diamond District infatti non solo fotografano un gruppo sociale nei suoi tratti più archetipici, ma lo inseriscono nel contesto attuale di crisi economica; facendolo, però, non propendono né verso una fredda analisi sociopolitica, né verso una banalizzazione di qualche tipo. Se volessi riassumere il loro stile espositivo in una sola parola, questa sarebbe senz'altro neorealismo.
Ma non vorrei ora perdermi in troppe disquisizioni dal carattere pseudosociologico; lascio il piacere di scoprire i dettagli a chiunque si prenderà la briga di ascoltare (e, spero, comprare) In The Ruff; piuttosto, vale la pena soffermarsi un po' sulle produzioni di Oddisee, essendo queste non solo il pilastro che regge tutto il progetto, ma anche essendo queste il motivo principale per cui diverse persone si sono lasciate incuriosire dal prodotto. Oddisee, dicevamo: i più lo conosceranno per i passati lavori svolti assieme alla cricca della Halftooth -Kev Brown, Kenn Starr, Wordsworth ecc.- in cui ad onor del vero s'era distinto più per competenza che non per originalità o, se vogliamo, individualità; le sue basi insomma si rifacevano alla seconda golden era, e quand'anche alcune di esse riuscivano ad essere molto belle (penso a If di Kenn Starr), il loro principale difetto era una fastidiosa sensazione di déjà vu.
Bene: scordatevi quello che avete sentito finora, perchè il Nostro qui fa un lavoro al campionatore a dir poco eccellente, da un lato scordandosi di tutti i manierismi legati al campionare soul, e dall'altro, contestualmente, rinvigorendo le produzioni con casse e rullanti potenti ed anche "sporche", quasi che si trattasse d'un omaggio all'old school prima ancora che al lavoro di un Pete Rock. Per carità, non pensate all'ennesimo riutilizzo dell'808; pensate invece a quello che potrebbe essere una fusione degli stili di Pietrino Roccia e Dilla. L'eccezionale Streets Won't Let Me Chill, per esempio, combina i pattern di batteria del secondo ad un campione di tromba tipicamente riconducibile al primo, aggiungendoci poi un breve sample vocale che non può non far pensare ai Gangstarr di Daily Operation o Hard To Earn (non a caso omaggiati esplicitamente in I Mean Business). Ancora, i loop ipnotici di Who I Be o Back 2 Basics fanno correre il pensiero alla scuola di Detroit, ma conservano comunque un modo di far suonare i campioni più tradizionalmente nuiorchese; aspetto, quest'ultimo, che prende poi il sopravvento in brani come Get In Line o Make It Clear, in cui il Marley Marl di Mama Said Knock You Out fa un'apparizione tutt'altro che fugace. Insomma: Pete Rock, Dilla, Premier, Marley Marl... Oddisee non solo ha ottimi referenti culturali, ma li sa anche sintetizzare in maniera tale da renderli orgogliosi. E, pur non avendo ancora sviluppato un'identità immediatamente riconoscibile, il Nostro qui dimostra una crescita artistica notevole sia nella teoria che nella pratica.
Ma malgrado tutto, In The Ruff non è perfetto: come prima cosa, gli MC non sono propriamente carismatici, e per quanto le loro liriche risultino funzionare più che bene, come interpretazione e diversità stilistica il lavoro da fare è ancora molto. Vale a dire, cioè, che a meno che non ci si concentri in stile tibetano sulle rime e sui contenuti, l'album rischia di suonare pesante e/o monotono già a partire dall'ottava o nona traccia. Anche perchè non tutti i beat di Od riescono a tener su da soli le canzoni, e sfortunatamente quelli che ce la fanno (i primi sette, assolutamente superlativi) sono concentrati nella prima metà del disco, mentre la seconda, più calma e rilassata, soffre appunto della suddetta pesantezza. Non aiuta poi il fatto che i ritornelli si salvino solo la metà delle volte, così come un'ulteriore ostacolo all'ascolto viene dato dal mixaggio, che letteralmente soffoca delle voci di loro non proprio d'impatto sotto i mille strati di clap, rullanti e campioni vari del caso.
Ciò detto, il mio suggerimento è di prendere in seria considerazione questo In The Ruff, perchè pur con tutte le sue smagliature esso merita senz'altro l'acquisto e anche -almeno secondo me- l'inclusione tra i dieci dischi da avere del 2009. Certo, liricamente si può e si deve ancora crescere, ma anche solo per le basi questo materiale è davvero grasso che cola.