ORGANIZED KONFUSION - THE EQUINOX (Priority, 1997)

venerdì 12 novembre 2010

Che il rap sia un genere musicale spesso portato all'iperbole (e sovente con scarso o inesistente senso del ridicolo da parte dei rapper) è cosa risaputa perlomeno tra gli addetti ai lavori, che sanno che quando sentono un tale parlare della sua vitta con la medesima verve del verdoniano cargo liberiano, beh, con ottime probabilità si tratta di una cazzatona col botto. Del resto, se noi ascoltatori non lavorassimo di "riduzionismo" lirico, o saremmo degli imbecilli creduloni oppure passeremmo più tempo a ridere che ad ascoltare. Ma una volta entrati in questa mentalità, che richiede una certa dose di cinismo, non solo si può apprezzare il lavoro dell'artista per quello che realmente è, ma per converso si può sorridere della pompa magna in cui molti dei nostri eroi si presentano.
Sempre restando in tema, la statistica insegna che la voglia di grandeur del rapper medio si presenta innanzitutto nel titolo: sono lontani i tempi in cui un disco si poteva intitolare "Radio" o "The Message" e tanti saluti. Negli anni ci sono passate per le mani robe pomposamente intitolate "The Great Depression", "Visions Of Gandhi" o "Extinction Level Event" le quali, puntualmente, avevano contenuti che ovviamente col titolo non c'entravano una beata minchia.
Tutto questo però per dire cosa? Per dire che il titolo Equinox stavolta c'entra, seppur meno di quanto gli Organized volessero farci credere. Do per scontato che tutti qui sappiano cosa significhi la parola equinozio e passo subito al rapporto che questo ha con l'opera di Pharoahe e Po: trattasi di un concept album che ripercorre la vita di due ghettusi, Life e Malice, che rappresentano rispettivamente bene e male (da qui il rimando all'uguale durata di giorno e notte negli equinozi, nella fattispecie quello di primavera), e che durante le 20 tracce passano dalla microcriminalità e dalla relativa spensieratezza a giri ben più grossi che infine porteranno alla loro distruzione, sia per ragioni esterne (un driveby) che interne (gelosia, invidia eccetera). In conclusione, dopo il forse troppo didascalico epilogo, una ghost track che vuole fare da "colonna sonora" all'intera vicenda.
Perchè, in effetti, per quanto abbia ridotto all'osso la sinossi basta un primo attento ascolto per capire che la parabola di Life e Malice, ed il modo di raccontarla, si rifa ad un cinema in cui la componente drammaturgica è fortemente presente: il primo esempio che mi viene in mente è C'era Una Volta In America (ma anche buona parte della filmografia di Scorsese potrebbe essere un riferimento). Insomma, per ricollegarmi alla disamina della titolazione di cui ai primi paragrafi, direi che stavolta dietro ad un titolo suggestivo c'è stato un ragionamento forse non originalissimo ma quantomeno ben ponderato e che già per questo dovrebbe escludere gli OK dalla categoria dei parrucconi (casomai qualche criminale avesse mai potuto d'inserirli in un primo luogo).
Ma ciò detto, e dato atto ai due di non essere dei cretinetti qualsiasi, devo purtroppo rimarcare come la fusione tra narrazione vera e propria (gli innumerevoli skit) e musica sia solo parzialmente riuscita. Vale a dire che solo con un estremo sforzo di benevolenza posso considerare "coerenti" tracce -peraltro bellissime- come In Vetro o Numbers. Anzi, a voler essere severi si potrebbe dire che giusto Sin, Soundman e Sugah Shorty riescono a diventare parte integrante della storyline, mentre le altre appaiono quasi isolate dal contesto. E ciò non tanto perchè non si fa accenno ai personaggi del racconto (che sarebbe anche banale, volendo), ma perchè le singole vicissitudini che percorrono i due non vengono affrontate a fondo ma appaiono tutto sommato solo accennate o usate come spunto per parlar d'altro. D'altronde basta fare la controprova: ascoltate Equinox senza gli skit e vedrete che fila che è un piacere. Sono poi a conoscenza di una scuola di pensiero che invece sostiene la perfezione dell'album in tal senso, ma francamente negli oltre 12 anni passati dalla sua iniziale uscita nessuno è mai riuscito a convincermi di essere in errore. Se volete essere i primi, ben venga; intanto spostiamoci alla parte essenziale di un album e cioè la musica.
Rispetto ai lavori precedenti, Pharoahe e Po hanno adottato suoni meno ruvidi e smaccatamente hardcore, favorendo piuttosto atmosfere che non stonerebbero in Stakes Is High o Raw Deluxe. I bassi corposi, i campioni accennati e pressochè sempre d'accompagnamento alla sezione ritmica differiscono molto dall'approccio avuto in Extinction Agenda, dove i sample spesso e volentieri scandivano il ritmo e venivano attivamente usati dai due MC per gestire le proprie metriche. Qui tutto fluisce elegantemente, e pur non lasciandosi andare a melensaggini è raro trovare dei veri e propri pestoni (Chuck Cheese e 9xs Out Of 10 sono gli unici esempi della genere). Ma questa scelta artistica comunque non danneggia la qualità dell'opera in quanto tale, e sfido chiunque a dirmi che Somehow Someway, In Vetro, Questions o Shugah Shorty siano meno che belle. Insomma, francamente proprio mi riesce impossibile criticare il lavoro svolto al campionatore innanzitutto dagli Organized, ma anche da Diamond D, Showbiz, Rockwilder e Buckwild: bello, bravi, ben fatto.
E liricamente... mah, cosa cazzo c'è da aggiungere? Dove Pharoahe molla un po' la presa sull'aspetto puramente stilistico (e prendete quest'affermazione con molta cautela) lo compensa ampiamente con la scrittura, e dal canto suo Prince Po dimostra una crescita sensibile rispetto al precedente album e che si può trovare condensata in alcune eccellenti strofe -quella d'apertura di Hate su tutte.
Tirando le somme, allora, ci troviamo di fronte ad un quattro e mezzo? Eh no... nonnò. La risposta negativa non si deve tanto alla bontà dei singoli pezzi, che comunque se sommati non danno lo stesso risultato di Extinction Agenda, quanto al fatto che gli skit sono troppi e pesano ancora di più perchè, appunto, non s'agganciano bene ai pezzi musicali e viceversa. Tuttavia, malgrado questo cospicuo difetto penso che ascoltare Equinox sia comunque -lo è sempre con gli Organized- un'ottima occasione per sentire musica fatta coi controcoglioni; ineccepibile per quel che riguarda la parte tecnica, non si deve sottovalutare la capacità di coniugare questa ad un'ottima scrittura e spesso a idee geniali come quella di dar voce ad un feto nel grembo della mdare tossicomane. Nuovamente, quindi, non ci resta che ascoltare un disco degli Organized Konfusion e strapparci i peli delle balle pensando che oramai sono già nove anni che si sono sciolti.



VIDEO: SOMEHOW, SOMEWAY

DE LA SOUL - THE GRIND DATE (Sanctuary Urban, 2004)

Il lavoro in ufficio non sembra diminuire, ma francamente la tentazione di scrivere dei De La Soul lo stesso giorno in cui esce sul mercato la nuova "fatica" dei Black Eyed Peas è troppo grande. Una sorta di ripicca? Forse. In fin dei conti la cosa è abbastanza logica, nel momento in cui i De La da sempre rappresentano l'ottica più ragionevole e seria con la quale osservare il rap in modo critico, fino al punto che spesso sono passati per cosiddetti "hater" (non a caso Aaron McGruder fa riferimento ad ambedue le cose nei suoi Boondocks e più precisamente nella figura di Huey) così come chiunque li ascolti. Tuttavia, questa loro fama è stata in parte sovraccentuata e, ben più grave, la conseguenza di ciò è che il gruppo di Long Island ha visto un calo di popolarità che, oltre a nuocere naturalmente ad essi stessi, nuoce all'ascoltatore.
Un ascoltatore che, a meno che già non li conosca o non abbia un atteggiamento attivo nei confronti della musica, seguendo i dettami del mercato discografico di massa finisce col farsi un'idea del rap non solo sfalsata ma anche oggettivamente povera e dunque penalizzante. Certamente si potrebbe controbattere che in fondo i precedenti AOI non fossero tutto 'sto granché né dal punto di vista artistico e men che meno da quello commerciale, specialmente Bionix, ma ciò non può e non deve penalizzare un gruppo che fin dagli esordi ha saputo evolvere il proprio stile riuscendo al contempo a mantenere intatta la propria identità. The Grind Date rientra appunto in questa categoria di dischi: uscito abbastanza in sordina nel 2004, esso si può definire come il ritorno in forma del trio dopo la perdita di smalto dei due precedenti lavori. Con alle macchine J Dilla, Madlib, Jake One, 9th Wonder e Supa Dave West da un lato; Ghostface, Common e MF Doom al microfono dall'altro, appare evidente che non solo i Nostri vogliono rinfrescare il loro sound ma che anzi lo vogliono portare avanti rispetto a quello vigente nel 2004. Ebbene, ciò gli riesce magnificamente: su un totale di dodici tracce (tredici se si conta la traccia bonus europea) sono pochi i momenti in cui si è tentati di skippare canzone e, anche in questo 2009, The Grind Date suona più fresco di molti altri prodotti contemporanei.
Il breve ascolto (siamo di poco sopra ai 50 minuti) riesce infatti a proporre la novità acustica di una Shopping Bags con l'ibridazione tra passato e futuro dell'ottima Verbal Clap, senza però per questo scordarsi di certe atmosfere tipiche dei Native Tongues (vedi Days Of Our Lives) oppure l'approccio più strettamente boombapparo di Rock Co.Kane Flow. In tutto ciò sia Maseo, sia Dave, sia il sempre immenso Posdnuous aka Plug One (ma quando verrà riconosciuto che è uno dei migliori emsì della storia? Eh? Quando!?!) riescono a stare sul beat nel migliore dei modi, ad imperitura dimostrazione del fatto che talento e fossilizzazione sono sempre incompatibili. Per di più, la tradizionale agilità con la quale sanno passare da temi più leggeri ad altri più impegnativi senza però risultare frivoli o pedanti vede qui un'ennesima conferma; cosa da me molto gradita, questa, perché mi consente di ascoltare un disco provando piacere nel farlo ma conservando integro il mio QI.
Verbal Clap, per dire, di per sè ha ben poco significato ma i De La riescono comunque a seminare piccole chicche quà e là, e dove il concetto non è forte allora lo è la forma: vedi ad esempio la frase "Some call 'em songs, I call 'em words from me that take long to cook/ So some feel free in sayin that we don't hunger for beats, not that we not hungry, just picky in what we eat". Oppure anche Shopping Bags, per il cui beat ammetto di non stravedere ma che dal versante lirico gode di una doppia lettura: parrebbe infatti un pezzo in cui scrivono delle shopper ma in realtà sono semplicemente osservazioni su materialismo e consumismo.
Ma naturalmente c'è anche spazio per testi più diretti, e così eccoci a Grind Date (sul lavoro in generale, cfr.: "The meek shall inherit the earth but don’t forget/ The poor are the ones who inherit the debt"), Church e Days Of Our Lives, in cui su uno splendido tappeto sonor fornito da Jake One Common regala una delle sue prestazioni più convincenti. E, dimenticavo: gli ospiti sono tutti (ad eccezione di Yummy, che fa ride i polli) qui presenti nella loro forma più competitiva e pertanto i featuring sono realmente un valore aggiunto: questo vale sia per Ghostface che per MF Doom, ma anche per un Carl Thomas che di fatto mette la cosiddetta ciliegina sula torta nella stupenda It's Like That.
Ed in quanto a beat è davvero difficile stilare una classifica dei più belli. Certo è che i contributi di Dilla impressionano, ma anche Jake One non scherza (il lavoro che fa col pitch in Rock Co.Kane Flow è impressionante); tuttavia reputo che sia Dave West quello a cui vanno fatti i maggiori complimenti, vuoi anche solo perchè la più parte del lavoro la fa lui. E tra una purtroppo breve The Future, l'eccellente It's like That e l'altrettanto valida He Comes preferisco dedicare maggior spazio a lui che non a gente la cui bravura è fuori discussione. Uniche note dissonanti sono per me Shopping Bags, che non reputo rientrare nel gotha delle produzioni di Madlib, e la nainfuonderiana Church, la quale secondo me ricade nella formulaicità tipica del produttore della North Carolina e, come aggravante, non gode nemmeno dell'orecchiabilità tipica della sua scelta di sample.
Si tratta comunque di sviste di secondo o terzo piano, nulla comunque capace di danneggiare concretamente un lavoro che io reputo essere eccellente e senz'altro all'altezza (se non migliore) di Stakes Is High. Glisso volutamente sulla secondo me tremenda Shoomp in quanto bonus track esclusivamente europea e chiudo con un consiglio: oltre che ascoltarlo, ovviamente, compratelo originale. Non solo per il consueto discorso dell'impegno che va retribuito e bla bla bla, ma anche perchè il booklet è uno dei più belli e ben pensati che abbia visto negli ultimi dieci anni (fatto a calendario, su ciascuna pagina è riproposta una veste grafica tipica dell'estetica hip hop degli inizi).




VIDEO: SHOPPING BAGS

ONYX - BACDAFUCUP (RAL/JMJ Records, 1993)

Delle tante lodi espresse nei confronti di Biggie, quella che reputo più vera ed interessante riguarda la sua capacità di passare dal rap più ruvido a quello più leggero ed orecchiabile senza soluzione di continuità e, soprattutto, lasciando intatta la sua credibilità. Certo, LL Cool J ci aveva provato prima e per un po' c'era anche riuscito (I Want You non è la stessa cosa di I Need Love, non so se mi spiego), ma il trippone di Bed Stuyvesant aveva portato questa capacità ad un nuovo livello. E siamo d'accordo. Dove secondo me ancora non ci siamo è il mancato riconoscimento alla capacità dei primi Onyx di creare pezzi indubbiamente hardcore ma al contempo orecchiabilissimi -gli anglofoni possono usare il termine «catchy»- in maniera non dissimile dal punk: una volta che hai ascoltato una prima volta il ritornello, garantito che la seconda volta lo canterai -e pure a squarciagola.
Sarà questa analoga capacità ad aver decretato l'inaspettato successo di Bacdafucup nel 1993? Oggi infatti sembra incredibile, ma questo amalgama di urla e beat incessanti in quell'anno ricevette il disco di platino, non vorrei dire! E d'accordo che all'epoca c'erano mondi che ancora si contagiavano (skater, metallari, punkettoni californiani ecc.) e un certo tipo d'incrocio tra generi era possibile nonché foriero di successo, come dimostra la colonna sonora di Judgement Night (Cuba Libre in italiano), però trovo che un exploit commerciale simile non possa non tener conto delle doti dei quattro e dei produttori, principalmente Chyskillz e Jam Master Jay.
Questi elementi inoltre non solo hanno prodotto un disco dalle qualità di cui sopra, ma hanno anche portato un'indubbia originalità sulla scena, anche se questa col senno di poi fa un po' ridere e potrebbe invece essere definita una «gimmick»; pensateci, tutta la cattiveria urlata dei quattro, le smorfie, le urla, le minacce... Viene da pensare più ad un archetipo di cattiveria che non ad una rappresentazione fedele alla realtà, no? E poi anche i titoli scritti alla cazzo di cane, tipo Bichasbootlegguz, Da Nex Niguz o Atak Of Da Bal-Hedz: mettete insieme queste peculiarità e, facilmente, si potrà pensare ad un prodotto meramente commerciale non dissimile dai classici fenomeni costruiti a tavolino dai discografici. Ma sto divagando.
Il punto è che Bacdafucup è un album veramente cazzone, in cui le tematiche non contano assolutamente nulla (figa, viulenza, fumo ed essere hardcore e cattivi) e dove invece ad essere protagonista è lo stile. I beat infatti s'assomigliano molto e son costruiti grossomodo alla stessa maniera -campione di tromba o sax riverberato nei ritornelli, batteria martellante e poco altro- così come l'avvicendarsi dei quattro MC (Sticky Fingaz, Big DS, Fredro e Sonsee) procede in maniera regolare per tutto il disco, semplicemente con più passaggi di microfono per strofa del solito e con l'aggiunta di urla collettive in dati passaggi. E se questa descrizione può portare a vedere in Bacdafucup una cazzatona col botto è perchè così effettivamente è; l'esordio degli Onyx è l'equivalente dei blockbuster cazzoni con miliardi di esplosioni e fiche sparse quà e là perchè sì e, come quelli fatti bene, intrattiene dalla prima all'ultima canzone. Tracce come Throw Ya Gunz, Atak Of Da Bal-Hedz, Nigga Bridges, Slam e Shifftee rappresentano poi le impennate della trama, mentre alcuni skit, se tali si possono definire, intervallano il tutto con ulteriore ignoranza, ridefinendo così il concetto stesso del cazzeggio (Bichasbootlegguz è già nella Storia).
Come voi sapete, io non sono esattamente una persona tra le cui doti svetta la sintesi, ma cos'altro c'è da dire? Sinceramente le due righe di descrizione fatte nel paragrafo precedente sono il massimo che si può dire di Bacdafucup, perchè esso nasce e muore solamente nel momento dell'ascolto. Nella migliore delle ipotesi lo definirei una sorta di raccolta di cori da stadio, ovviamente più strutturati, ma dei quali c'è poco da dire. Sono ancora lontani i tempi in cui i quattro avrebbero abbracciato tematiche più complesse, eccelso nello storytelling e rifinito le metriche fino a giungere ad esibizioni stilistiche che non esito a definire eccelse; nel '93 la missione degli Onyx era evidentemente quella di portare il pogo nel mondo del rap e direi che ci sono riusciti perfettamente. Oggi potremmo definire Bacdafucup un disco essenzialmente pop -checché ci vogliano far credere Sticky e soci- ma non per questo esso è meno bello; anzi, avercene di dischi così. Io gli do quattro e vaffanculo, poi ovviamente non so se una persona sotto ai 25 anni (o sopra ai 30) potrà trovare in quest'opera quello che ci vedo io, ma questo è evidentemente il limite intrinseco di dischi simili.




VIDEO: THROW YA GUNZ
Onyx - Throw Ya Gunz (HIGH QUALITY )

AA.VV. - RHYME & REASON (Priority, 1997)

lunedì 22 marzo 2010

In teoria questa dovrebbe essere una settimana abbastanza impegnativa al lavoro, e per giunta oggi non mi sento troppo bene; ne consegue che, al di là del numero di recensioni in quanto tale, ridurrò di molto la lunghezza delle stesse optando ovviamente per dischi che mi consentano di far questo. Questo a mo' di disclaimer -ora veniamo al disco.
Primo della serie è una delle tante colonne sonore che uscirono intorno alla metà degli anni '90 e che, salvo rarissime eccezioni, spesso si tradussero in discrete cacatielle di nessuna utilità; con al massimo una o due canzoni carine che facevano traino ad un carico di gentaglia strappata ai cantieri stradali. Ebbene, se Rhyme & Reason non fa parte di questa categoria già solo per via del calibro dei nomi coinvolti, è però pur vero che l'andamento qualitativo scostante del disco nemmeno lo può rendere paragonabile a piccole chicche del genere come Soul In The Hole o America Is Dying Slowly. Difatti, ad ascolto terminato è più che probabile che noteremo innanzitutto uno squilibrio che pende a favore della prima metà di R&R, dove si trovano quattro dei cinque pezzi belli di questa colonna sonora; e poi, in secondo luogo che, ad eccezione dei suddetti, il resto del materiale non è neanche «passabile», ma proprio brutto ed incoerente.
Ma laddove l'incoerenza si può giustificare col fatto che il film è un documentario che si occupa del rap a livello nazionale (e dunque è giusto che ad essere rappresentata sia l'America tutta e le varie differenze stilistiche legate alle regioni di provenienza degli MC), meno si comprende come mai siano stati accettati brani da parte di artisti rispettati come MC Eiht o KRS One che indiscutibilmente si collocano sotto la media del loro output. Perchè se posso accettare che un Master P produca schifezzuole in odore di funk californiano, se non mi stupisce che delle brutte copie dei Bone Thugs 'N' Harmony come i Crucial Conflict partoriscano una cacata immonda come Bogus Mayn, e se posso tollerare che Nyoo & DeCoca (chi!?!) rientrino nella categoria dei raccomandati di turno, quello che -no, proprio no- non posso comprendere è come mai RZA perda il senno e se ne esca con una Tragedy. Oppure, che KRS One campioni Don't Play That Song di Ben King (identica alla più famosa Stand By Me, peraltro) per lanciarsi in una delle sue prediche più fiacche di sempre. E che dire dei Lost Boyz, allora?, che se da un lato non sono mai stati famosi per aver prodotto canzoni di spessore, dall'altro perlomeno sapevano concepire pezzi come Music Makes Me High che facevano il loro dovere. Mah: sta di fatto che su quindici tracce almeno otto o nove vanno buttate nel cesso per direttissima e senza possibilità d'appello.
Ma per fortuna ci sono quelle cinque che un po' salvano la baracca e, anzi, conservano un che di memorabile anche a distanza di tanto tempo. La prima è la sconosciuta The Way It Iz, in cui Guru, Lil' Dap e tale Kai:Bee si cimentano in un pezzo «street conscious» di chiara matrice gangstarriana che fa del beat -autoprodotto dal signor Elam- la propria forza; il campione di flauto di pan è infatti assolutamente spettacolare, e il suo alternarsi con una linea di basso filtrata è indiscutibilmente magnifico. Le batterie picchiano sui timpani e questo, se aggiunto a pause e svuotini piazzati sempre al punto giusto (vedi la seconda strofa di Guru), oltre ad un ritornello semplice ma efficace, la rende indubbiamente il pezzo più bello di Rhyme & Reason nonché una delle mie tracce preferite degli anni '90. Non esagero: quel beat è qualcosa di superbo e non conosco nessuno che l'abbia ascoltata restandovi indifferente. CA-PO-LA-VO-RO, non si discute, ascoltare per credere.
Più in basso, ma sempre in zona «molto bello», si trova la collabo tra Busta Rhymes e Q-Tip intitolata Wild Hot. Incentrata su un arpeggio tratto da The Human Fly di Lalo Schifrin, la traccia regge benissimo l'età grazie ai due MC in perfetta forma e la breve durata del tutto (due strofe appena), che ne sottolinea il minimalismo ed al contempo enfatizza l'ottima strofa di Busta. Stesso coefficiente di apprezzamento si ritrova in Nothin' But The Cavi Hit, uno dei pochi esempi di tarda scuola Death Row che non risulta invecchiato come aceto. Il merito principale va all'ottimo emceeing di Kurupt, certo, ma anche il beat prodotto da Daz (che sceglie un tiro veloce per le batterie ed un bel sample di xilofono, limitando al minimo i synth) gioca una sua parte, così come in fondo anche Mack 10 riesce a fare la sua sporca figura.
Le ultime due canzoni degne di essere ricordate provengono invece da artisti distanti anni luce gli uni dagli altri: sto parlando di Ras Kass, gli Heltah Skeltah e Canibus, che si riuniscono per la buona ma un po' troppo fracassona Uni-4-Orm, e 8Ball & MJG, che invece ci regalano un classico esempio di Dirty South di classe. Il loro pezzo, intitolato Reason 4 Rhyme, è esattamente ciò che il titolo suggerisce: una spiegazione tutt'altro che banale del loro amore per l'hip hop, infarcita di aneddoti autobiografici e voglia di riscatto sentita. Ottimo anche il beat, melodico quanto basta e soprattutto non troppo invadente, cosa che consente ai due di dimostrare soprattutto una cosa: che anche a sud della linea Mason-Dixon c'è gente capace di fare a pezzi un microfono come se nulla fosse. Tant'è vero che quando si arriva a Uni-4-Orm si resta quasi un po' delusi da quello che in teoria avrebbe dovuto essere un sabba del liricismo; il problema è semplicemente che il beat è troppo epicheggiante e caotico, col risultato che le prestazioni degli MC (soprattutto di quelli che hanno le voci meno possenti, Sean Price e Ras Kass) vengono soverchiate da tutto quel casino che si sente in sottofondo. Intendiamoci: a conti fatti il pezzo regge anche se troppo lungo, eppure è impossibile osservare come questo avrebbe fatto una «figura» migliore se si fosse avvalso di una base dei Beatminerz e se avessero scremato quei quaranta secondi di troppo.
Detto questo, come potrete ben notare, complessivamente il bilancio non è particolarmente positivo. Tuttavia, nella logica delle colonne sonore gli esiti non sono nemmeno da buttar via, e per quanto il voto corretto sarebbe due e mezzo, un mezzo zainetto va aggiunto vista la bontà di quelle poche tracce davvero di classe. Personalmente mi spingo addirittura a consigliarvene l'acquisto: già solo The Way It Iz lo giustifica.




VIDEO: RHYME & REASON DOCUMENTARY (PT.1/9)

ROYCE DA 5'9'' - STREET HOP (One/M.I.C., 2009)

venerdì 19 marzo 2010

Confesso che, pur seguendo la carriera di Royce The 5'9'' fin dal giorno in cui comprai il singolo di Scary Movies, questo Street Hop è l'unico suo album in mio possesso. Il motivo è presto detto: la qualità a dir poco altalenante dei suoi lavori, la quale dopo dieci anni mi aveva quasi portato ad abbandonare ogni qualsivoglia speranza nei suoi confronti (come già successo per Ras Kass, ad esempio). Ma la pubblicazione di un EP promettente, le apparizioni su diversi brani dove puntualmente assassinava il collega di turno e, infine, l'annuncio che Street Hop sarebbe stato supervisionato da Premier sono i tre motivi che mi hanno spinto a dare una chance a questo Street Hop. Che sia la volta buona che riesco a godermi un album di Royce?
In breve, la risposta è no. Nuovamente, il Nostro da un lato dimostra di aver capito che genere di audience è interessata a lui, ma dall'altro continua -con una pervicacia che ha dello sconfortante- a scivolare nel cattivo gusto del ritornello cantato male, del beat uptempo privo di qualsiasi gusto e, più in generale, in tutti quelli che erano i cliché del rap mainstream di fine anni '90. Per sua fortuna, però, l'essere un liricista fenomenale conferisce un valore aggiunto di immensa importanza, rendendo quest'album un oggetto di culto per qualsiasi otaku della metrica. E, tanto per essere chiari, l'altra «fortuna» di SH è di non assomigliare quasi per niente a quella vaccata indegna che è l'album degli Slaughterhouse: contrariamente a quest'ultimo, qui potrete infatti trovare molto più che versi su versi su versi messi insieme alla cazzo su basi fiacche. Qui potrete trovare battle rap eseguito in maniera eccellente non solo dal punto di vista della tecnica -le punchline funzionano- ma soprattutto dello storytelling ME-RA-VI-GLIO-SO e alcuni beat che variano dall'ottimo al buono. Increduli? Lo sarei anch'io, ma seguitemi.
Uno: il singolo Shake This è qualcosa di indiscutibilmente strepitoso. Prodotto da Premier, esso non ha nulla in comune con i suoi recenti standard e vi basti sapere che stavolta viene usato un intero loop tratto da The Smile di David Axelrod. Niente tagli strani, ritornelli cuttati o assenza di charleston: proprio un loop completo. Ed il bello è che malgrado il campione non sia esattamente nuovo, il tutto suoni piuttosto fresco. E, naturalmente, il fatto che su una simile base ci sia un MC del calibro di Royce non può che aiutare; al di là dei contenuti autobiografici espressi più che bene, ad affascinare è la metrica ed il crescendo del tono vocale che, accompagnando il suono in levare del campione, rende l'ascolto una vera gioia per le orecchie.
Due: anche quando Primo ritorna ad una formula più legata al boombap tradizionale, i risultati si distanziano nettamente dalla pochezza esibita fino a solo poco tempo prima. Something 2 Ride To coincide alla perfezione con la volontà espressa nel titolo, e pur non avendo nulla di facilmente melodico riesce ad essere una colonna sonora perfetta per un giro in macchina. E la riproposizione di queste atmosfere riesce così bene anche grazie ad un ritornello cantato da un Phonte sul quale stavolta non posso dire proprio nulla di male: la sua voce è qui perfetta, e nel momento in cui questa s'appoggia al campione di flauto pare quasi di sentire la brezza che entra dal finestrino... e sappiate che se vi sto dando una descrizione così emo è perchè i risultati sono oggettivamente eccellenti.
Tre: volete un po' del "vecchio" Royce, quello che sminuzzava qualsiasi MC gli si mettesse di fianco? Bene, allora sappiate che sono almeno quattro i pezzi che dovete ascoltare. Il primo è Gun Harmonizing (con un ottimo Crooked I), dove la prevedibilità della metafora voce-pistola passa in secondo piano grazie ad una bella produzione di Emile e alle impressionanti metriche dei due, che fanno a gara per superarsi in pulizia e inventiva (anche se lo scat del ritornello talvolta mi sembra fesso). Poi viene l'esperimento -riuscitissimo- di Dinner Time, in cui lui ed un ottimo Busta Rhymes giocano con metrica e voce spezzando i flow serratissimi in chiusura di verso; che, detta così, sembra una robetta ma vi garantisco che dovete ascoltare per capire la grandiosità di questa traccia, in cui l'altrimenti triviale produzione di Quincy Tones si rivela essere la famosa ciliegina sulla torta. Segue sulla via «sperimentale» la title track, in cui Royce lavora su dizione e libera associazione di pensieri in maniera indiscutibilmente creativa, mentre molto più tradizionale (ma non meno bella) è Hood Love, che vede nel beat di Primo e nella collaborazione di Joell Ortiz e Bun B due valori aggiunti di non poco rilievo.
Quattro: se invece volete prendere delle lezioni di storytelling, ci sono tre pezzi che fanno per voi. On The Run è forse il più prevedibile di essi, sia nella trama che nella struttura del racconto, ma questa prevedibilità aiuta noi ascoltatori a comprendere la differenza che passa tra un MC affabulatore ed un semplice rapper che sa fare il suo mestiere. Le immagini che Royce dipinge sono vivide ma mai troppo descrittive, costantemente a cavallo tra la narrazione più lineare ed i flash dati dalla situazione. Una caratteristica che vede il suo zenith nella successiva Murder, ancora più brillante nello svolgimento e nei toni, e che poi sconfina in un territorio di estrema creatività (e immaginario weirdo, se posso aggiungere) con la fantastica Part Of Me, che non intendo spoilerare qui ma di cui vi suggerisco di vedere anche il fichissimo video.
Bene, ciò detto, basta fare quattro conti e vediamo che (perlomeno a mio dire) le tracce davvero degne sono ben nove, a cui aggiungo in extremis la clipsiana Soldier, che da un lato merita grazie al beat che echeggia assai Grindin', ma dall'altro viene un po' rovinata da una strofa di tale Kid Vishis (???) e da un ritornello non proprio brillante. Insomma, siamo a nove tracce e mezzo che posso definire a metà tra lo «strepitoso» ed il «degnissimo».
Purtroppo, però, Street Hop è composto anche da altre otto canzoni, ed esattamente come quelle citate finora sono belle, le altre sono delle cazzatone che lèvati. Dalla boiata che grida al mondo la sua bruttezza -Mine In Thiz- a quelle più sottili come Thing For Your Girlfriend o Far Away, passando naturalmente per l'oggettiva mediocrità ed inutilità di una Gangsta o una New Money e per giungere infine all'ennesima posse cut deludente a nome Slaughterhouse, ossia The Warriors. E dunque, considerata l'estrema lunghezza del lavoro, è inevitabile giungere alla conclusione che avere ben otto canzoni brutte che diluiscono la bontà delle altre dieci è un colpo basso letale per Street Hop, che se solo avesse usufruito di un maggior controllo sulla lunghezza forse avrebbe potuto aspirare all'eccellenza.
Così come, invece, è un prodotto strano: scremate la tracklist dalla monnezza (come ho fatto io) e vi trovate con in mano una sorta di EP da pieni voti, assolutamente geniale e che farebbe capire persino a un sordo quanto Royce sia uno degli MC più bravi degli ultimi dieci anni. Ascoltatelo per intero, invece, e sarà come uscire con una ragazza che dalla vita in su ha il fisico di Megan Fox e dall'ombelico in giù quello di Orietta Berti: certo, potrai sempre vedere il bicchiere mezzo pieno, ma questo non riuscirà mai a soddisfarti pienamente. Peccato, davvero peccato.




VIDEO: SHAKE THIS

SUNZ OF MAN - THE LAST SHALL BE FIRST (Red Ant Ent., 1998)

giovedì 18 marzo 2010

Coloro che hanno cominciato ad interessarsi al hip hop dopo il '99 non potranno capire -per loro fortuna- ma c'è stato un periodo in cui chiunque tra i 15 ed i 25 anni smaniava per qualsiasi puttanata che recasse da qualche parte il logo del Wu-Tang: dischi, portachiavi, calze, tazze da cesso -tutto. In particolare, i soggetti più impressionabili e fessi come lo ero io erano propensi a spendere cifre esorbitanti in CD senza prima appurarne la qualità; e se questo da un lato li ha aiutati ad imparare il valore del denaro, dall'altro ha lasciato loro in eredità una serie di cazzatone macroscopiche dal dubbio valore.
Il primo disco ufficiale dei Sunz Of Man a stento non rientra tra queste cazzatone, ma solo per un soffio; e difatti, conoscendolo bene ma non trovandoci un granché di degno, la mia voglia di recensirlo sta a zero. Ogni promessa è debito, però, e allora quantomeno vediamo di farla breve: uscito nell'estate del '98 pochi mesi dopo il solista di Killah Priest (una mossa che nei testi di marketing rientra alla voce «WTF?») e anticipato dal singolone Shining Star, The Last Shall Be First è stato forse il flop esiziale per la combriccola degli affiliati al Wu. Le aspettative erano infatti talmente alte che, quando i fan si sono trovati in mano una robetta al cui confronto qualsiasi peto dei Killarmy svetta, la delusione è stata tale che da lì in poi praticamente tutti i side projects del gruppo di Staten Island hanno toppato clamorosamente (anche perchè, salvo un par di eccezioni e contrariamente ai vari Pillage o Heavy Mental, si trattava di complete schifezze).
E si capisce bene il perchè. Vedete, su diciassette pezzi direi che quelli davvero belli sono due, quelli buoni quattro, ed il resto si colloca su una linea sinusoidale dove le ordinate positive variano tra il "accettabile" ed il "vabbè pazienza", mentre quelle negative stanno tra il "faccio finta di niente" ed il "incircolabile". E ciò non tanto per via del emceeing, che ad eccezione del tremendo 60 Sec. Assassin si mantiene su buoni livelli, quanto per i beat: i più sembrano difatti scopiazzature delle cattive idee di RZA, prive di qualsivoglia intuizione melodica o perizia tecnica. Sembrano, in poche parole, un ibrido tra gli stereotipi del sound di Staten Island e le relative caricature, con risultati che si concretizzano nelle ignobili Can I See You, The Grandz (che pure usa lo stesso campione di Recognize & Realize Pt. I) e nella cacofonica Inmates To The Fire. E se la colpa di questi scempi va data perlopiù a True Master ed un RZA già scoppiato -Supreme e 4th Disciple qualcosa di buono lo tirano fuori- bisogna aggiungere che in moltissimi casi un pezzo di per sè non brillante viene definitivamente assassinato da ritornelli di una bruttezza sesquipedale, in cui la tendenza pare essere quella di ripetere fino al rincoglionimento il titolo della canzone o lasciarsi andare a cori urlati o lamentosi (vedi ad esempio Not Promised Tomorrow o The Grandz). Insomma, siamo ben lontani dai buoni livelli di Fear Love And War e Heavy Mental e, col senno di poi, in TLSBF si possono cogliere (a partire dall'orrido singolo prodotto da Wyclef) i primi segni della sventura che da lì in poi s'abbatterà sulle vendite e sulla fama del Wu-Tang.
Epperò, va detto, assieme alle premonizioni negative vi sono alcuni echi della bontà che aveva contraddistinto il suddetto Wu fino a quel punto. Nella fattispecie si tratta di Natural High e The Plan, ossia le uniche due canzoni davvero belle e che meritano di essere ricordate anche da chi non è mai stato un grande fan dei Sunz Of Man. La prima è costruita su un irresistibile campione di tromba (di Al Green, secondo alcuni, ma a me non risulta) e su una linea di basso eccezionale su cui gli MC hanno tutto lo spazio di cui necessitano per lasciarsi andare al misticismo cazzaro che caratterizza i loro testi. In particolare, è il sottovalutato Prodigal Sunn a brillare, con un attacco di strofa fantastico: "A young king at the age of 15, caught up in things/ The golden scorpio sportin' material diamond rings/ Physical, historical, mystical, shinin' crystal-like/ Stackin, packin pistols, FA and they brought the crystal meth". Ascoltatela e ditemi se il fatto che tutto ciò non significhi pressoché nulla non diventi pressoché irrilevante.
L'altro gran pezzo, invece, è la magnifica The Plan: stavolta il sample è di Ann Peebles (la stupenda I'm Gonna Tear Your Playhouse Down, che scoprii propprio grazie a questo pezzo) e praticamente consiste in un loopaggio puro e semplice di alcune misure dell'originale. Non un grande lavoro dal punto di vista del beatmaking più puro, forse, ma a giudicare dai risultati ugualmente degno di plauso. Peccato solo per il mostruoso bridge di 60 Sec. Assassin, che sta ai Sunz Of Men come Islord sta ai Killarmy, e che a momenti rischia di mandare a ramengo una canzone altrimenti godibilissima.
Meno eccitanti ma comunque apprezzabili sono poi Cold ed il suo mood minimalista, l'epicheggiante Flaming Swords, Illusions ed infine -undici tracce dopo- Next Up, che a momenti si salva solo grazie al semplice beat e ad un featuring di Method Man particolarmente ben riuscito. Per il resto, come vi dicevo, meglio far finta di nulla. Il che è un peccato, perchè dal punto di vista del solo emceeing i Sunz Of Man sono sicuramente tra i più dotati del nutrito parco dei weed carrier; Killah Priest lo conosciamo e non c'è bisogno di aggiungere altro,mentre Prodigal Sunn si fa notare per la metrica serrata e la maggior linearità delle descrizioni, ed infine Hell Razah risulta essere quello più ghettuso fra tutti ma comunque favorito da una bella voce ed una presenza al microfono di tutto rispetto. E così come dell'altro scemo non voglio nemmeno parlarne, nemmeno mi pare il caso di snocciolare uno per uno i temi affrontati dai nostri Eroi: si tratta come al solito di un amalgama di misticismo da baraccone, oscuri riferimenti al movimento/religione della Nation Of 5%, un po' di street rap e ammiccamenti di vario genere all'hip hop. Solita roba, insomma, ma che a me non stanca mai.
Insomma, cosa posso aggiungere ora che non abbia già detto? Il disco pare essere fuori stampa e, fatte salve due o tre canzoni, non mi sembra una gran perdita per la storia del rap. Se proprio doveste morire dalla voglia di possederlo io vi sconsiglio di spenderci più di una decina di yuri, e comunque ascoltatelo per bene prima di prendere una qualsiasi decisione. Tre zainetti di cui mezzo praticamente ragalato.




VIDEO: THE PLAN

EVIDENCE - THE WEATHERMAN LP (ABB Records, 2007)

mercoledì 17 marzo 2010

Come anticipato nei commenti di ieri, dato che ultimamente il nome di Evidence e del suo Weatherman LP sta venendo menzionato con una certa regolarità, mi pare d'uopo procedere con una regolare recensione che ne evidenzi i pregi ed i difetti. A scanso d'equivoci, vi anticipo che non ho mai reputato Ev un MC particolarmente brillante nella metrica, e nemmeno l'ho mai considerato dotato di una penna particolarmente valida; tutte le conclusioni alle quali giungo nel corso della recensione partono dunque da questo mio (pre)giudizio.
Ora, la prima di queste conclusioni è che Michael Perretta -questo il nome di battesimo del Nostro- per questo suo debutto da solista ha intrapreso una strada molto chiara che consiste nella rifinitura del suo stile, nalla pulizia della sua tecnica ed in un approccio talvolta più intimo della sua scrittura; una scelta di per sè apprezzabile, anche se per poterla attuare ha dovuto trascurare un po' il campionatore, che però è andato a finire nelle sapienti mani di Jake One, Alchemist e Sid Roams. Sia come sia, se l'obiettivo era crescere come rapper senza perdere la qualità nei beat, questo è stato raggiunto in pieno: rispetto al passato egli è migliorato molto -anche come carisma- ed è impossibile negare che sia dotato di una personalità assolutamente unica, mentre le basi picchiano come e più che in passato, proseguendo oltretutto sulla strada (da me tanto apprezzata) intrapresa a partire da Neighborhood Watch.
Canzoni come Mr. Slow Flow, Down In New York City, Chase The Clouds Away, Born In LA o Hot & Cold dimostrano che Weatherman LP non è un album dei Dilated a scartamento ridotto e che, anzi, rispetto a certe loro opere più recenti (20/20) è la miglior valvola di sfogo per un MC a cui forse la formula del trio cominciava a stare un po' stretta. Dico ciò perchè al di là di una certa ripetitività dovuta alla continua reiterazione della sua figaggine, Ev ha qui un po' di spazio per spingersi oltre ai cliché del caso ed uscirsene con tracce un po' più concettuali, in cui lo spazio per costruire atmosfere ed attirare l'attenzione dell'ascoltatore diventa più ampio. E se questo non sempre viene sfruttato al massimo, con pezzi come Chase The Clouds Away che dimostrano che egli è ancora ben lontano dal saper dipingere immagini con le parole come saprebbe fare un Nas (o anche un Fashawn, per fare un esempio meno intimorente), è anche vero che i pezzi più autobiografici stupiscono: l'inizialmente prevedibile A Moment In Time si rivela essere un gioiellino di narrativa, ma soprattutto è la dedica alla madre (morta) intitolata I Still Love You che fa capire quanto potenziale sia ancora nascosto nella zucca di Perretta. Un potenziale di narrativa che aspetto di veder espresso nel prossimo lavoro, ma che per ora mi faccio bastare anche in virtù dei miglioramenti tecnici così evidenti non solo nel singolone Mr. Slow Flow (in cui giustamente viene omaggiato l'originale, cioè PMD, peraltro presente nel remix), ma soprattutto nelle collabo.
Collabo che meritano una nota a parte, in quanto generalmente ben scelte e caratterizzate da ottime performance degli ospiti. Tolti infatti gli irrecuperabili Big Pooh, Joe Scudda e Mad Child, i pezzi con Planet Asia (sempre eccelso, ma ahimé solo nei dischi altrui), Slug, e soprattutto Chace Infinite e Sick Jacken, rientrano tutti tra i momenti più alti di Weatherman. Voci diverse e flow diversi difatti sono un toccasana per un album così lungo in cui a fare da padrone è qualcuno comunque non caratterizzato dallo stile più eccitante di questa terra, ed evidentemente Ev questo lo ha capito molto bene invitando gente più che degna. Persino Alchemist non fa la solita figura da cioccolataio, vi lascio immaginare.
Purtroppo, però, mi chiedo come mai abbia compreso benissimo il fattore «noia della madonna» solamente sotto questo aspetto; o, per meglio dire, mi chiedo come non abbia potuto rendersi conto che 16 pezzi della durata media di 4'10'' sarebbero pesanti per chiunque (o quasi), ma diventano addirittura assassini se prendiamo in considerazione il fatto che musicalmente si assomigliano parecchio. Intendiamoci: non dico nulla sulle basi, che anzi in media sono decisamente ben prodotte e raggiungono spesso vette d'eccellenza -vedi Alchemist con la sua Chase The Clouds Away o Sid Roams e la loro Mr. Slow Flow, solo per citare le due più belle- però la matrice è sempre quella: campione soul -occasionalmente accompagnato o sostituito da synth ottantoni-, charleston quasi del tutto assenti, bpm mai superiori ai 90 e basso coincidente col rullante. Ergo, le differenze sono minime e per quanto siano anche facilmente riscontrabili l'impressione finale è di eccessiva omogeneità; e per quanto preferisca questo tipo di sound alla reiterazione premierana presente sull'album di Blaq Poet (giusto per fare un esempio chiaro), uno arriva al sessantanovesimo minuto di ascolto con un'orchite galoppante.
Per avere un album molto più bello sarebbe secondo me bastato fare due cose: da un lato eliminare i fastidiosissimi skit, accorciare la durata media delle canzoni e scremare almeno quattro pezzi sostanzialmente identici ad altri ma meno belli (Letyourselfgo, Things You Do, Believe In Me, NC To CA), oppure, dall'altro, lasciare tutto così com'è ma suddividerlo in due EP. Ovviamente l'opzione da me preferita è la prima, ma anche la seconda sarebbe andata bene; ed il fatto che Ev in Layover abbia operato una scelta simile, confezionando infatti un EP davvero godibile, mi fa pensare che le mie critiche abbiano qualche fondamento -e comunque, a prescindere da ciò, sono contento che si sia accorto della prolissità.
Ma tornando all'oggetto della discussione, si può dire che Weatherman è un esordio stranamente molto ben fatto se preso in piccole dosi ma afflitto da una specie di «peccato originale» quasi imperdonabile se si pensa all'esperienza decennale di Evidence; ne consegue che, per quanto vi siano tracce eccellenti, per quanto queste siano mille volte più freshe della media dell'underground, e per quanto il Nostro sia dotato di un'originalità fuori dal comune, a conti fatti il disco annoia e questo è forse il difetto più pesante (e paradossale) che possa avere un album altrimenti ben fatto. Discreto ma con margini di miglioramento; se volete un consiglio -sempreché non siate fan accaniti del Nostro- ascoltate sì questo, ma comperate Layover.




VIDEO: CHASE THE CLOUDS AWAY