PERCEE P - LEGENDARY STATUS (MTA, 2005)

martedì 31 marzo 2009

[Disclaimer: Alcune delle recensioni incluse in questo blog sono originariamente state pubblicate sul sito Hotmc.com. La ripubblicazione di questo materiale su Rugged Neva Smoove non è in alcun modo dipendente dalla volontà di Hotmc, che per politica editoriale desidera rimanere estranea alle attività di qualunque audioblog supporti il download illegale. La riproposizione degli articoli si riduce a una scelta personale dell'autore di questo blog, nonché autore delle recensioni, che si assume totalmente la responsabilità delle eventuali conseguenze]

Il mondo dell’hip hop è sicuramente quanto di più eterogeneo ci possa essere: una simile varietà di persone, stili ed altro è difficile da incontrare in altri generi musicali. Proprio questa rosa di “opzioni” può portarci da un’ostentazione di oggetti di dubbia utilità (tanto che poi nemmeno su Ebay li si riesce a rivendere, il che è tutto dire) alla mentalità fai-da-te di persone come Percee P.
A tal proposito vale la pena di raccontare un aneddoto che accomuna praticamente chiunque abbia comprato dischi al Fat Beats di New York: nel luglio del 2001 mi stavo appunto dirigendo verso il negozio, quando uno sonosciuto col fare da caso umano mi ferma e cerca di vendermi il CD “of the world’s dopest MC ever” (lui medesimo, si capisce). Non vedendo nella persona e nel suo atteggiamento il corrispettivo di quanto dettomi, l’ho più o meno ignorato e, accomiatatomi con un “fuck you” da parte sua, son entrato a far compere. Beh, qualche anno dopo, leggendo una recensione, sono venuto a sapere che il piazzista era con ogni probabilità Percee P in carne ed ossa, e che quelle canzoni che avevo scaricato e stavo ascoltando erano le stesse contenute nel CD più-che-autoprodotto che voleva vendermi. Doh!
Dopo essermi dato dell’idiota e dell’ignorante per un altro paio d’anni abbondanti, grazie alla MTA ho finalmente avuto la possibilità “postuma” di rimediare all’errore, facendogli eventualmente entrare in tasca almeno qualche dollaro. Questa compilation raccoglie infatti 20 delle canzoni più significative del suo repertorio, andando a coprire ben sedici anni di onorata carriera. Percee, oriundo del Bronx, in tutti questi anni ha assistito al microfono nomi quali Lord Finesse, i Cenobites, Big Daddy Kane, Pharoahe Monch e diverse altre leggende storiche dell’undergound di New York (ma non solo). Ciò nonostante, non si può certo dire che la fortuna gli abbia arriso: paradossalmente, solo ora è riuscito ad ottenere un contratto discografico (con la Stones Throw, peraltro) che gli permetterà di dare alle stampe il suo primo disco “ufficiale”. Nell’attesa che esca, questa collezione è il miglior modo di conoscerlo un po’ meglio.
Cominciamo col dire che lui è il classico battle MC di New York: rime da battaglia, pressochè totale incapacità di parlare d’altro che non sia l’autocelebrazione, ma soprattutto un flow serratissimo, costruito su una struttura metrica molto vicina a quella di Kool G Rap elevata alla terza potenza. Se si amano i tecnicismi portati all’estremo, non si può non amare Percee P: controllo del respiro impeccabile, intrecci vari e rime multisillabiche costruiti impeccabilmente lo elevano nell’Olimpo dei rapper col fetish della tecnica. Il problema è che, a parte questo, non si può certo dire che sia facile da digerire: alla lunga, un flow simile può annoiare molto facilmente, specie se si considerano i tempi che corrono, dove personaggi come Juelz Santana stanno facendo scuola per quel che riguarda l’interpretazione (in senso stretto); se non si ha già dimestichezza con il rap di dieci e passa anni fa, difficilmente lo si potrà apprezzare. A parte questo, se poi si calcola che le tematiche sono comunque… no, non ci son tematiche. Da nessuna parte: solo una costante esibizione di stile.
Ora, io non sono di base un fanatico di questo tipo di approccio, ma nel caso di Percee è doveroso fare un’eccezione. In ogni traccia di questo disco, esclusa forse Keep The Fame (dove Rhymefest fa una strofa da lasciare a bocca aperta), il Nostro supera i restanti “ospiti”. Quanto ai beat, il discorso si fa un po’ più complesso: abbracciando sedici anni non sarebbe corretto considerarli paragonabili (per dire: per quanto voglia richiamarsi all’old school, A Day At The Races è su un altro pianeta rispetto a Let The Homicides Begin. Sotto ogni punto di vista). In nessun caso si può comunque dire che Percy abbia mai rimato su schifezze, per quanto qualche caduta di stile più o meno grave la si trovi –mi riferisco in particolare al pezzo coi Jedi Mind Tricks.
Concludendo, posso solo dire che la raccolta è completa e riesce benissimo a mostrare chi è Percee P. Le premesse per un meritato balzo di qualità nella sua carriera vengono finalmente poste in maniera ufficiale; resta da vedere che esito avrà il futuro sodalizio con Madlib (ma Throwback Rap Attack ed il recente singolo Put It On The Line, non presente su questo disco, fanno ben sperare), ma soprattutto bisognerà vedere se il pubblico continuerà a dormire su questo veterano, com’è avvenuto finora, o se finalmente capirà e gli porgerà quindi le dovute scuse. Comincio io.

[Mi concedete una nota d'orgoglio? Stavolta non ho proprio nulla da correggere del testo scritto quasi quattro anni fa: confermo tutto, dalla prima all'ultima riga. Anche Perseverance m'era piaciuto parecchio, e per quanto difetti un po' di longevità mi sembra un più che degno coronamento della carriera del Nostro. Il mio consiglio resta pertanto sia di recuperare questa raccolta, invero ben fatta, che l'album vero e proprio; dubito, dubito seriamente che qualcuno potrà dirsi deluso.]



JUNGLE BROTHERS - RAW DELUXE (Gee Street/V2, 1997)

lunedì 30 marzo 2009

Visto che mercoledì mattina metterò il culo su un volo per l'Inghilterra e non potrò dunque aggiornare il blog almeno fino al 6, mi pare giusto lasciarvi un po' di roba sulla quale spendere più di un veloce ascolto. Oggi e domani accantonerò pertanto qualsiasi opzione che vada ad includere sia gli album classici che le merdine, preferendo focalizzarmi su materiale che io per primo ho a lungo snobbato salvo ricredermi dopo lungo tempo e darmi del pirla o, come si dice a Milano, del pèèèrla!
Ora: devo ammettere che casi simiili sono piuttosto rari. Immodestamente, sono infatti sempre stato benedetto da un certo fiuto per le ciofeche e questo mi ha permesso di sgabolare una buona dose di cacate; perciò è molto raro che riprenda in mano un disco bollato a suo tempo in modo negativo e che ad un nuovo ascolto mi ricreda. Tuttavia, alle volte ciò succede con più o meno vigore e, quando ho visto su Amazon che vendevano Raw Deluxe a 1,45£ mi sono detto "ma chissenefrega, non era 'sto granché ma perlomeno mi prendo Brain in qualità da CD". In più, poco tempo prima ero stato a casa di un amico che ha un armadio coperto da sticker e tra di essi ce n'era uno fichissimo di, appunto, Raw Deluxe; sicchè mi sono detto che non poteva che essere destino e l'ho aggiunto al carrello degli acquisti. Fine della premessa.
Beh, quando alla fine mi sono sforzato di riascoltare quest'album dopo qualcosa come undici anni mi sono accorto che il mio amico Christian, che nel '97 me ne diceva grandi cose, era dalla parte della ragione e che io invece ero un bel fesso. Infatti, gli unici due veri difetti che ho trovato in questa tremendamente sottovalutata opera dei Jungle Brothers sono una canzone inutile e contraddittoria (Gettin' Money) e la tremenda puzza di involtino primavera che sprigiona il booklet (serio: mai sentito nulla di simile). Tolte queste due cose posso dire che esso rientra tardivamente tra le chicche della seconda metà degli anni '90, e il fatto che sia ormai in rotazione fissa ed ininiterrotta nel walkman, nello stereo di casa e nella radiolina da cesso da ormai quattro giorni la dovrebbe dir lunga sulla sua bontà.
Inutile nascondere il fatto che a rendermi così entusiasta di Raw Deluxe sono perlopiù le produzioni: queste si collocano a metà tra il tipico suono dei Native Tongues dell'epoca -più Beats Rhymes & Life che Stakes Is High- ed il Pete Rock del meraviglioso disco degli InI, con bassi corposi, campioni appena accennati e batterie quadrate dal suono pieno. L'effetto finale è perlopiù rilassante e laid back (scusate il termine ma non saprei come tradurlo correttamente) senza però risultare noioso, e ciò grazie al fatto che pur all'interno di questo tipo di suono vi sono sufficienti variazioni stilistiche che consentono di separare nettamente una canzone dall'altra. Ad esempio, Black Man On Track culla l'ascoltatore grazie ad una riuscitissima fusione di sintetizzatori, piatti ed una linea di basso vibrante spezzata unicamente da un rullante secco che ben sostiene la melodia principale. Ma i Jbeez che hanno creato questo beat sono gli stessi che lavorano di Rhodes e xilofono per Changes, rendendola uno degli episodi più soavi dell'intero LP, e sono gli stessi che in Moving Along mettono insieme uno stupendo campione vocale e delle batterie dal suono cristallino rendendola una sorta di sequel acustico e concettuale a Changes.
Ma se molti meriti per le bellissime produzioni vanno ovviamente conferiti ai Jungle Brothers, devo dire che raramente come in quest'occasione degli ospiti hanno saputo regalare beat di una qualità così elevata. Ad esempio, How Ya Want We Got It, la tanto agognata quanto potente riunione dei Native Tongues, gode di un beat organico quanto si vuole ma incredibilmente hardcore nel suo uso staccato del basso ed il suono da "fischione meccanico" (se lo sentite lo riconoscete) che va a sottolineare alcune chiusure di strofa e relativi passaggi di microfono: impossibile non riconoscere il valore aggiunto conferito all'emceeing da Roc Raida e Knobody. Ma non scordiamoci nemmeno dei Roots, che ci regalano il singolo Brain e ci aiutano a ricordare come mai Illadelph Halflife è ricordato come uno dei più validi album degli anni '90; e nemmeno cancelliamo dalla memoria Djinji Brown e la sua ottima Handle My Business, in cui rivive l'anima più classica dei JBeez courtesy of un insieme di violini, un loop di tromba e delicati arpeggi a far da contrappeso a delle batterie la cui ruvidezza renderebbe orgoglioso Havoc.
Insomma, non so cosa dire se non che Raw Deluxe è prodotto in maniera pressoché impeccabile anche se non troppo originale; ma come ormai ben saprete, di fronte ad un'esecuzione pressoché priva di pecche a me delle cosiddetta "ventata d'aria fresca" poco me ne può fregare. Unica nota stonata è Gettin' Money, che tra un crescendo di archi e delle batterie davvero fuori posto a causa della programmazione isterica risulta essere uno scivolone non da poco e che purtroppo rompe davvero i coglioni nel suo essere a metà del disco.
Inoltre, questa canzone è anche quella liricamente più sballata. Dico "sballata" perchè oltre a contenere dei passaggi secondo me scritti e rappati oggettivamente male (Afrika Baby Bam in particolare, sentite la sua prima strofa e vergognatevi per lui), contiene un'ode al "grindin'" puro e semplice che andrebbe benissimo se... se non fossero i Jungle Brothers, appunto, che in tutti questi anni (ed anche in Raw Deluxe) hanno portato avanti una visione molto ascetica e pura della vita che secondo loro dovrebbe vivere l'afroamericano, rinunciando a cadere in peccati quali egoismo, pigrizia, avidità e quant'altro. Proprio non riesco a capire cosa gli sia preso: a meno che non si tratti di una sorta di parodia, tipo Tha Bullshit di Jeru, Money è una mosca bianca che per giunta ha il difetto di far cagare a prescindere da tutto e da tutti. Vai a capire.
Fortunatamente il resto è qualitativamente migliore e più interessante; a parte il fatto che Mike G e Afrika non hanno perso nulla del loro smalto né per quel che riguarda la tecnica (quest'ultimo in particolar modo si fa notare per le belle entrate) né per ciò che concerne la scrittura, la loro capacità di portare avanti un discorso di presa di coscienza mista ad un orgoglio nero introverso -intendo dire che più che accusare il prossimo sostengono una completa responsabilizzazione dell'individuo- è indubbiamente interessante anche se inizialmente non di grande effetto. In più, riescono comunque ad inserire una buona dose di rimandi alle pietre miliari dell'hip hop cosicché il loro amore verso questa cultura non risulti eccessivamente didascalico e plumbeo, e di certo non difettano di arroganza e capacità di portare avanti un certo tipo di autoesaltazione che riesce a rendere digeribile il loro aspetto più -come dire?- didattico. Esempi di questo loro talento sono sparsi un po' ovunque per raw deluxe, ma se proprio dovessi citare un paio di esempi direi che l'affiatamento mostrato in Changes ed i contenuti di Black Man On Track possono ben riassumere la loro bravura, dimostrando al contempo che chi sostiene che dopo Done By The Forces Of Nature non avessero nulla da dire sbagliava di parecchie misure.
E ora la catarsi: lo so che io sono stato il primo a dormire su questo disco. Ve l'ho detto, son stato un pèèèrla; ecco perchè -e lo dico per il vostro bene- non dovete seguire il mio esempio. Distanziatevi e datemi retta quando vi suggerisco più che caldamente di concedere meno di un'ora del vostro tempo all'ascolto di Raw Deluxe. Vi garantisco che non resterete delusi.




VIDEO: HOW YA WANT IT WE GOT IT

PETE ROCK & C.L. SMOOTH - THE MAIN INGREDIENT (Elektra, 1994)

venerdì 27 marzo 2009

Cara grazia che il mio subconscio lavora bene: stamattina, facendo la doccia e nettandomi gli zebedei, stavo rimuginando sul fatto che era un po' che non parlavo dei Tribe e dunque, una volta asciugatomi i corbelli, avevo riposto People's Instinctive ecc. nella tasca interna della giacca presto prendendo la via del lavoro e con la ferma convinzione di sparar du' palle sul suddetto album appena arrivato in ufficio. Ma lì per lì, fulminato sulla via di Damasco, m'è venuta una sorta di premonizione e così ho imboscato pure The Main Ingredient che, forse, più si confaceva al cielo color biacca che da stamattina lambisce Milano.
Poi, cazzo, capisco: mentre sto buttando giù l'introduzione dei ATCQ in radio mi passano Arisa e allora -BAM!- subitaneo giunge il crollo degli ormai pulitissimi testicoli, venendo inoltre accompagnato da un odio profondo verso tutta la spensieratezza e l'innocenza di Q-Tip. Voglio dire: con una che canta un'immonda cacata da oratorio come Sincerità, sai a me che me po' frega' di quer fròsho de Lucien!?! Ma che muoia ammazzato e che Tip si trombi Bonita senza farla lunga, perdio! Per combattere la pochezza di quella faccia di cazzo (avete notato che sembra che indossi perennemente gli occhiali col nasone che si trovano in cartoleria a carnevale?) ci vuole qualcosa di più pesante: elegante, sì, ma ruvido e soprattutto indigesto a chi oggi si bagna le braghette fischiettando una roba che nemmeno al festival di Castrocaro del '58 sarebbe stata accettata.
"Pete-fottuto-Rock!", ecco che la soluzione si materializza di fronte ai miei occhi! Ma attenzione: non con Mecca & The Soul Brother, che sarà pure bello e "storico" ma è forse fin troppo scontato (e soprattutto non ce l'ho con me), bensì con The Main Ingredient aka uno dei pochi casi in cui il successore è superiore al predecessore ma ciò nonostante viene snobbato dalla stragrande maggioranza del pubblico. Sì, avete letto bene: vuoi di poco, ma Main Ingredient "brucia" M&TSB, il cui unico punto di oggettiva superiorità è la presenza di un pezzone come T.R.O.Y. In realtà, nelle mie parole non c'è nulla di particolarmente sconvolgente: è abbastanza ovvio che prima venga lo schizzo e poi il capolavoro; l'anomalia si pone casomai nel momento in cui già lo schizzo era un capolavoro e dunque le migliorie apportate in un successivo episodio vengono ritenute secondarie, non importanti o comunque incapaci di conferire al lavoro uno status "storico".
Ma per fortuna esiste una cosa chiamata "senno di poi" che ci consente di riconsiderare le cose alla luce dell'esperienza e del tempo trascorso tra un evento e la sua assimilazione. Adoperare questa sorta di ripensamento è in questo frangente spontaneo oltreché doveroso, perchè in tutta onestà penso che alla luce dei fatti MI meriti un posto nell'Olimpo delle migliori produzioni degli anni '90 (come minimo). I Get Physical, Carmel City (la mia preferita, se può interessare), The Main Ingredient, Worldwide e Sun Won't Come Out valgono -ciascuna- l'acquisto del disco, e dunque pensate all'entusiasmo che può nascere avendole tutte in unico "contenitore", magari abbinate ad altre tracce di minor impatto ma comunque di qualità abbondantemente superiore alla media. Inoltre, l'idea di allora che il duo si stesse concedendo un po' troppe aperture commerciali era discutibile allora e ridicolo oggigiorno; molto semplicemente, Main ingredient è uno dei passi che hanno portato l'hip hop da un suono più secco ed essenziale ad uno più corposo e, nei casi migliori, più carico di soul (dicendo questo escludo chiaramente le tante schifezze melense che si sono state propinate in questi ultimi 20 anni *cough* I Need love *cough*).
In tal senso, le uniche sviste di questo album sono Tell Me e soprattutto Take You There (nota bene: stesso sample e stesso problema di Born 2 Live di O.C.), così come volendo essere fiscali ci sono un due-tre ritornelli cantati di dubbio gusto, ma per il resto come si è potuto parlare di "sophomore jinx"? Per via del singolo I Got A Love? Ma per favore... L'alchimia tra Pete Rock e C.L. Smooth viene troppo sottovalutata ancor'oggi, così come del resto quest'ultimo: certo, C.L. parla al 90% di figa e del rapporto che lui ha con essa, ma ditemi se a) non lo fa bene e b) se su questi beat non calzi a pennello. Non a caso faccio fatica a trovare un qualche pezzo in cui il Nostro suoni fuori posto, cosa che invece avverrà in un paio d'occasioni dove altri emsì si troveranno su una buona base di Pete Rock ed inspiegabilmente non c'entreranno una fava (su Soul Survivor gli esempi si sprecano) o al limite risulteranno solo dei frutti di una fusione a freddo.
In conclusione mi piacerebbe sapere quale artista non vorrebbe oggi essere capace di produrre un LP come Main Ingredient. Non riconoscere l'organicità ed al contempo la raffinatezza del lavoro svolto da Pietro Roccia è impossibile, così come difficilmente si può criticare la controparte vocale che -non esagero- ha tra i tanti meriti quello di stare sopra a questi beat con la stessa naturalezza che aveva Snoop su quelli di Dre. Ciò detto, non posso considerarlo un classico vero e proprio solo perchè, appunto, esso presenta delle "semplici" migliorie che inevitabilmente non hanno la freschezza di Mecca & The Soul Brother. Ciò nondimeno penso che davvero si possa parlare di perfezione o quasi, e dunque non dargli il massimo dei voti per un prodotto di questo genere sarebbe criminale.



VIDEO: I GOT A LOVE (RMX)

KOOL G RAP - 4,5,6 (Cold Chillin'/Epic Street, 1995

giovedì 26 marzo 2009

In attesa che Robbie ufficializzi il voto su chi è il miglior MC per l'internets (indovinate un po' chi ho votato) [edit: fanculo], mi pare giusto dare seguito alla saga di Kool G Rap con la recensione di una di quelle opere la cui creazione è avvolta nel mistero, ed il cui gradimento da parte degli ascoltatori è variato enormemente nel tempo. A 'sto giro, volendo procedere in quest'ordine, pare infatti che 4,5,6 sia stato registrato in maniera semiclandestina in uno studio a nord di New York situato in una zona isolata tra i boschi (!?!), in quanto all'epoca G Rap doveva avere non poca ruggine con certi ambienti malavitosi della grande mela (la versione più accreditata accenna a problemi con Eric B), tanto più che in seguito si trasferì per un lungo periodo in Arizona in una sorta di vacanza forzata. Della serie "when keepin' it real goes wrong".
Ma questa è un'altra storia: illazioni a parte, il punto è che questo disco ha avuto una gestazione che molto probabilmente ha influito discretamente sia sulla sua lunghezza che sulle atmosfere in esso contenute e che, se all'epoca già non erano allegre, qua raggiungono vette di cupezza considerevoli; in più, G Rap stesso non ha morso il freno per quel che concerne la crudezza del linguaggio, e se questo già in passato non si poteva dire d'essere ricco di parafrasi o di eufemismi, in quest'occasione si pone allo stesso livello di Rated XXX.
Ciò detto, arriviamo al fulcro del discorso e cominciamo col dire che 4,5,6 è l'album dove Nathaniel Wilson ha forse spinto al massimo la sua tecnica pentasillabica prima di modificarla e complessivamente alleggerirla. Non servirebbe che vi citassi alcun particolare passaggio, essendo tutte le canzoni qui presenti ricche di esibizioni di abilità assolutamente incredibile, ma già che ci sono sceglierò una delle mie tracce preferite, Executioner Style: "'Cause what I carry's much bigger than Dirty Harry's do a 'hail mary' I make Bloody Maries outta your capillaries" oppure "Charged up with anger, six slugs in every chamber, dangerous stranger with itchy trigger fingers like Lone Ranger" danno un'idea dell'effettiva ferocia al microfono di G Rap, ed il bello è che egli la sguinzaglia praticamente ovunque nel corso dei tre quarti d'ora scarsi di durata di 4,5,6. Tant'è vero che, per quanto mi riguarda, questo è tra le altre cose una lezione di tecnica compattata in 43 minuti e che andrebbe spinta a forza nelle orecchie di tutti quei babbei che oggi sostengono che le rime incrociate e serrate sono ormai sorpassate: per favore, prendete un innovatore come il Nostro, ammirate come negli anni ha saputo perfezionare e forse portare ai limiti un certo tipo di metrica oggettivamente difficile da realizzare e poi, beh, poi se avete ancora voglia di ascoltarvi i vostri falliti idoli stagionali -datevi fuoco.
Devo però puntualizzare che questo eccezionale lavoro va un po' a scapito della scrittura; ma non nel senso che ci sono canzoni composte da parole messe lì giusto perchè fanno rima, solo che certe immagini e lo storytelling in generale ne risentono. In effetti, basta prendere una Streets Of New York e paragonarla a Ghetto Knows per vedere come quest'ultima, pur rappata meglio e più complessa dal punto di vista metrico, risulti indubbiamente meno evocativa della prima. Fanno un'eccezione in tal senso 4,5,6, For Da Brothaz e Blowin' Up In The World, che invece riescono a rendere benissimo i rispettivi contenuti; tuttavia, non essendo questi particolarmente ardui da affrontare risulteranno senz'altro meno incisivi del -tanto per fare un esempio- splendido storytelling di On The Run.
Se però si riesce ad accettare questa relativa mancanza (dico relativa perchè KGR dà comunque la paga al 90% della gente in circolazione) ci si renderà conto di quanto alla fin fine siano i testi ad elevare a semicapolavoro un disco che, purtroppo, soffre di alcune produzioni non esattamente brillanti e di ritornelli discutibili. Fast Life è un esempio di quest'ultimo caso: la conoscete tutti, lo so, ma ditemi se anche a voi il cantatino non pare rovinare un pezzo altrimenti perfetto. Persino il campione un po' plasticoso -l'originale è della seconda metà degli anni '80, se non ricordo male- aggiunge la giusta atmosfera ad una traccia molto à la Scarface, e pertanto ci sta benissimo, ma quel terribile "caaaause yoooou've got to make it happen... yeeeah yeah, get this monaaaa-ay" davvero fa crollare gli zuccheri. Idem come sopra per quel che riguarda l'originale di It's A Shame, che già non gode di una base esattamente figa e per giunta viene ingiuriata da una sorta di clonazione andata male degli Isley Brothers (sentite che differenza con l'invece ottimo remix!); e pure Blowin' Up In The World non se la passa benissimo, per quanto utilizzi un ritornello urlato tipo Black Moon e quindi teoricamente piacevole... non so, semplicemente la senti e pensi che c'è qualcosa che non va.
Fortunatamente, però, i beatmaker (T-Ray, Dr. Butcher, Buckwild e Naughty Shorts) sanno riprendersi dalle occasionali cadute di stile e ciascuno di loro firm almeno un pezzone da '90. La palma va però indubbiamente a Butcher, che ci fa dono delle ottime Executioner Style (Gary Burton virato al più cupo possibile). il sopracitato remix di It's A Shame e la posse cut Money On My Brain, in cui lo stesso sample di Herbie Hancock già sentito nella contemporanea Get Up Get Down di Coolio fa nuovamente il suo dovere e permette a B-1 e MF Grimm di non sfigurare. Questi due si sentono poi anche in Take 'Em To War, curata da T-Ray e che gira sulla buona vecchia Holy Thursday di David Axelrod, e come nota a margine vorrei segnalare che qui B-1 riesce nell'incredibile impresa di superare -vuoi anche di poco- il maestro.
A questo punto cosa mi resta da dire? Che 4,5,6 non sia l'opera migliore di G Rap è chiaro, ma è altrettanto chiaro che chi lo condannò all'epoca dell'uscita del disco andrebbe oggi bitchslappato con un guanto di ferro mentre gli si urla nelle orecchie VERGOGNATI BRUTTO PIRLA CHE NON SEI ALTRO!. Non ho altro da aggiungere.




VIDEO: IT'S A SHAME

KOOL G RAP - ROYALTY STATUS (BOOTLEG)

mercoledì 25 marzo 2009

Tendenzialmente è raro per me trovare compile in giro che soddisfino i miei bisogni, i miei gusti o la mia pigrizia. Tuttavia, di recente ho visitato il blog di 187 dove il buon Mak ha ceduto una raccolta di featuring di Kool G Rap dal '94 circa ai tempi nostri. Certamente ci sono inclusioni che non approvo, ma trattandosi di un'antologia vera e propria questa mia rimostranza lascia il tempo che trova; inoltre, la grafica è ben fatta e di gusto, per cui consiglio a tutti voi di scaricarla. Per ovvi motivi di internetsrespects non vi do il link diretto, ma già che ci siete, fatevi un giro ché ho potuto scorgere altre raccolte interessanti. Niente tracklist perchè c'è da spararsi, usate il tray e ciao.

Kool G Rap - Royalty Status

VIDEO: LETTER P

PEOPLE UNDER THE STAIRS - FUN DMC (Gold Dust Media, 2008)

martedì 24 marzo 2009

OOOOOH CAZZO ERA ORA! Signori miei, non ci crederete, ma se andate a leggere le vecchie recensioni scoprirete che qualche mese fa avevo promesso la recensione di Fun DMC: ebbene, se questa arriva solo ora è perchè quelle capoccie di minchia delle Poste avevano perso il pacco con i dischi ordinati (tra cui spicca un Raw Deluxe che -scopro ora- puzza di involtino primavera) e pertanto ho dovuto pimpslappare a dovere un paio d'impiegati perchè sbloccassero il fottuto pacco dalla dogana e me lo facessero giungere, cosa che è effettivamente avvenuta stamane. Oddio, per dirla tutta non è proprio andata così, ma fa niente: il punto è che ora ce l'ho originale e che per questo sono contento come quando da piccolo i miei mi regalarono il G.I. Joe ninja con la katana e il lupo in PVC.
Devo inoltre aggiungere che questo sconsiderato ritardo non è nemmeno stato così traumatico, perchè esso mi ha permesso sia di ascoltare ancor meglio l'ultima fatica targata People Under The Stairs, sia di veder arrivare la bella stagione, la quale ben si confa al disco e viceversa. Sì, perchè come i più cervelloni tra voi avranno capito, Fun DMC dedica i suoi oltre 75 minuti di durata principalmente al cazzeggio ed ai festeggiamenti di varia natura; e per quanto mi disgusti usare uno slang degno di Donna Moderna, devo ammettere che il primo aggettivo che mi viene in mente pensando ad esso è "solare". Voci di corridoio sostengono che questa caratteristica sia presente in più o meno tutte le opere dei PUTS, ma a costo di giocarmi la mia credibilità di aficionado vi confesserò che -ad eccezione di un rapido ascolto a Stepfather [yawn]- fino a poco tempo fa di Thes One e Double K non me ne poteva importare di meno. Tantopiù se mi veniva detto che potevano assomigliare come impostazione ai Jurassic 5, cioè un gruppo da me abbastanza rispettato ma che non ho mai ritenuto degno di tutto il plauso ricevuto. Insomma, com'è come non è, il punto è che scaricai Fun DMC con l'interesse che ben potete immaginare e solo dopo un paio di ascolti autoimpostimi (sì, insomma, sentivo che c'era qualcosa di buono) cominciai a coglierne le sfumature più gradevoli e ad assimilare tutta la verve festaiola e presabbène del duo. Ebbene, dopo tre mesi circa posso trarre le somme e valutare Fun DMC in maniera abbastanza completa, e per farlo partirò dalla sua implicita premessa: il divertimento come Leitmotiv.
Da un lato posso tranquillamente affermare che i PUTS sono effettivamente riusciti a centrare il punto, vuoi anche peccando di prolissità; dall'altro, però, questo si rivela essere il suo maggior limite, visto e considerato che a meno che uno non sia dell'umore adatto difficilmente avrà voglia di ascoltare questo album. I continui riferimenti ai bei vecchi tempi quando qua era tutta campagna, all'old school e alla bellura associata ai festoni con grigliata annessa sono efficaci se già ti trovi in un certo mood; altrimenti, se hai le balle girate e giri in metropolitana in mezzo ai casi umani che quotidianamente scendono a frotte in Porta Garibaldi, l'ipotesi più probabile è che a sentire Anotha BBQ il piffero ti frulli ancora di più.
Questo è però un difetto strutturale capace di pregiudicare tutto il lavoro quasi a prescindere dalla qualità delle singole canzoni; e allora, al fine di parlare un po' più approfonditamente delle varie tracce, facciamo finta di essere costantemente in modalità beona e felice e andiamo a vedere cosa son stati capaci di fare Thes e Double. Dal punto di vista dei beat, interamente autoprodotti con una sproporzione di 3 a 1 a favore di Thes One, la suddivisione può essere fatta grossomodo in questo modo: 1) palese richiamo all'old school (Up Yo Spine, The Ultimate 144, Party Enemy N°.1, Enjoy, Love's Theme); 2) pesca a piene mani nel repertorio funk con l'eventuale aggiunta di clap, il che talvolta rimanda la memoria ai suoni californiani della prima metà degli anni '90 sans i synth da g-funk (Swan Fever, Anotha BBQ, People Riddum, California, A Baby, Same Beat); 3) un aggiornamento dei precedenti stili con qualche variazione sul tema (tutte le restanti canzoni).
Nel complesso posso osservare un buon lavoro, tecnicamente ben realizzato grazie anche all'uso di diversi strumenti suonati dal vivo, ma forse non troppo originale. Il che è da un lato abbastanza ovvio, visto l'imprinting di Fun DMC, e che però nonostante questa scusante "ideologica" spesso non può evitare di annoiare -specie se consideriamo la spropositata lunghezza del tutto. Ciò non di meno, vi sono pezzoni davvero godibili come Anotha BBQ, The Fun, The Grind, the Wiz e Critical Condition che riescono a suonare freschi anche dopo svariati ascolti, dimostrando peraltro una più che buona capacità di variare i drum pattern da parte di Thes One. Altri sono forse fin troppo forzati -su tutti l'ennesimo ed inutile reinterpretazione di Public Enemy N°.1- e per questo suonano oltremodo impersonali; cosa peraltro logica ed ampiamente prevedibile, dato che, più che sviluppare una propria via verso la creazione di atmosfere, in questo modo si cerca di copiare (più o meno bene) le formule del passato, gettando così alle ortiche qualsiasi elemento inerente la personalità.
Un problema, questo, che riguarda bene o male tutti i gruppi facenti parte del filone del throwback rap; tuttavia, dove i PUTS meritano una menzione a parte è nella varietà delle tematiche proposte che, inaspettatamente, sono sviluppate in modo personale ed interessante. Non mi riferisco certo alla voglia di cazzeggiare -è ovvio- quanto piuttosto al lato introspettivo, che brilla particolarmente nelle meditazioni di chi si trova ad essere diventato padre di A Baby, ma che trova sbocco anche in D e nell'ottima Critical Condition. Poi, certo, anche l'amore per il rap, per il proprio luogo d'origine ed il consueto braggin&boastin' fanno capolino, ma diciamo che contenutisticamente fanno più da companatico ai pezzi più seri che non viceversa (pur essendo questi ultimi in minoranza). L'unico pezzo che mi lascia un po' perplesso è Gamin' On Ya, sia per via del beat (BASTA!, BASTA CAMPIONARE I MIDI DEI VIDEOGIOCHI!), ma grossomodo posso comprendere il senso di un tale pezzo se penso al fatto che mentre i due giocavano a Pang c'erano dei loro coetanei che andavano in giro ad ammazzarsi... eppure boh, non so, non mi convince del tutto.
Così come del resto non mi convincono loro due come MC nel senso più stretto del termine: voglio cioè dire che mentre live saranno probabilmente bravi e tutto quanto, certe routine (specie di Thes) per me arrancano un po' e sanno davvero di vecchio; perlomeno Double K ha una bella voce ed un flow molto più sciolto che nascondono certe ingenuità o certe rime un po' stantìe, però diciamo lo stesso che se Fun DMC funziona bene è più merito delle basi e della loro abilità di scrittori che non dell'abilità che hanno al microfono.
In conclusione: acchiappatevi 'sto disco e approfittate di essere agli inizi della primavera. Sono convinto che, se "usato" bene, potrà dare ampie soddisfazioni pur presentando alcuni difetti tipici dei prodotti di questo genere.




VIDEO: THE WIZ

KING GEEDORAH - TAKE ME TO YOUR LEADER (Ninja Tune/Big Dada, 2003)

lunedì 23 marzo 2009

Come (mi auguro) già saprete, di recente, e dopo un silenzio relativamente sconcertante di quasi cinque anni, è uscito il nuovo disco di MF Doom. Da un lato la cosa mi fa piacere e vorrei che fosse ben chiaro che è uno dei pochi ai quali concedo un pass per i suoi svarioni autocompiacenti, visto che questi si sono spesso tradotti in ottima musica; dall'altro temo però che il risultato alla fin fine altaleni tra la delusione soggetiva e l'oggettiva stronzatona col botto. In attesa di farmi un'opinione in merito, eventualmente attraverso l'ascolto del disco, per ora preferisco sollazzarmi coi suoi precedenti lavori ed in particolar modo con la sua opera più riuscita: Take Me To Your Leader.
Il fatto che per l'occasione egli si sia "travestito" da King Geedorah non ha secondo me più che tanta importanza se non perchè ciò ha permesso ai grafici della Big Dada di confezionare una grafica ed un booklet fichissimi; no, l'unico elemento concettuale stante dietro a queste tredici tracce consiste piuttosto nella scelta dei campioni e nell'atmosfera generale da Z-movie che imperversa un po' ovunque, mentre se andiamo a vedere i testi scopriamo che non esiste un nesso tra l'identità di Daniel Dumile e quel che viene rappato in questi 42 minuti scarsi di musica. Ciò che conta, casomai, è che in TMTYL Doom fa un passo indietro limitandosi in maggior parte alle produzioni e lasciando dunque ampi spazi d'incursione ad alcuni ospiti, dei quali molti sono membri dei Monsta Island Czars; anticipo fin d'ora che, mentre a livello di beatmaking la qualità è eccelsa, l'emceeing varia di caso in caso e passa dall'ottimo (Trunks, Rodan, Doom stesso) al fastidioso (Gigan, Mr. Fantastik) con una maggioranza di performance accettabili o piacevoli (in particolar modo tal Hassan Chop).
Ma ora, volendo entrare più nel dettaglio, cosa è lecito aspettarsi da Take Me To Your Leader? Innanzitutto e soprattutto una coesione ed un sound che rendono questo disco una vera e propria colonna sonora, con tanto di inserti di dialoghi di oscuri film fantascientifici/catastrofici di quarta ed effetti sonori che renderebbero orgoglioso Ed Wood. Non esagero quando dico che raggiungere una simile omogeneità attingendo a talmente tante fonti d'ispirazione (soul, funk, jazz, colonne sonore eccetera) sarebbe un'operazione pressoché impossibile per molti ma non per uno che, evidentemente, conosce molto bene il suo mestiere. Ad esempio, chi potrebbe mai dire che Anti-Matter (che campiona l'ormai stranota Message From A Black Man dei S.O.U.L.) potrebbe stare accanto ad un beat dissonante come quello di No Snakes Alive, così come ai sintetizzatori di Lockjaw? Ancora: il jazz stante alla base di di Next Level è tanto pulito quanto le chitarre elettriche di Fastlane appaiono sporche e rippate da una bootleg su cassetta; eppure, dicevo, malgrado tutto questo l'album scorre senza un intoppo e, per giunta, assume una propria personalità di ascolto in ascolto. Decisamente non un lavoro alla portata di tutti, lo ripeto, e vista l'esecuzione -tanto perfetta quanto è audace l'idea- sotto questo aspetto non esito a dargli il massimo dei voti.
Dove invece TMTYL perdè qualcosina è invece sul versante dell'emceeing: non tanto perchè ci siano delle vere e proprie seghe, ma semplicemente perchè alcune prestazioni soffrono di scarso entusiasmo o di tecnica limitata. Gigan, ad esempio, in sè e per sè non sarebbe uno scarso MC ma purtroppo la sua voce è francamente insopportabile, roba al cui confronto Magoo si eleva a vette di raffinato piacere auditivo. Analogamente, Mr. Fantastik sfoggia una verve degna di un condannato a morte, così come una tale Stahhr riesce a personificare perfettamente l'insipidezza e l'impersonalità di tante, troppe, MC al femminile. Fortunatamente, però c'è anche chi come Hassan Chop sa rimediare al proprio tono monotono con delle buone rime ed un'ottima scrittura; più sovente, però, capita che ci sia chi sopperisce alla mancanza di contenuti con una discreta aggressività ed una buona dose di stile: Trunks, per dire, smembra l'ottima Lockjaw e fa scendere una lacrima di dispiacere non appena ci si accorge che questa dura poco più di un minuto (WTF!?!). Rodan invece si conferma come membro più dotato dei Monsta Island Czars e riesce tranquillamente a tenere testa a Doom su No Snakes Alive, così come Lil' Sci suona perfettamente a suo agio sulle eleganti note di Next Level.
Purtroppo, però, nel complesso i risultati degli MC coinvolti non riescono ad essere all'altezza delle necessità imposte da un lavoro al campionatore che definire impeccabile è forse riduttivo. Ciò non di meno, Take Me To Your Leader è sicuramente un disco coi controcoglioni di fronte al quale le critiche che si possono muovere sono poche, e che sia per ragioni di qualità tout court che per quanto riguarda il perfezionamento di un certo sound è più che degno di rientrare tra le massime opere degli anni zero. Acquistare, subito.



FRANKIE CUTLASS - POLITICS & BULLSHIT (Relativity, 1997)

giovedì 19 marzo 2009

Vi voglio trattare bene: dopo il picco di (presunto) eclettismo rggiunto coi N.A.S.A. è giunto il momento di tornare alle radici non progressive che tanto mi piacciono. In questo campo i nomi papabili ammontano a diverse centinaia e pertanto non c'è che l'imbarazzo della scelta, ma siccome voglio bullarmi un po' scelgo uno dei pochi CD che (sfortunatamente) non hanno ancora visto la luce della ristampa: Politics & Bullshit di Frankie Cutlass. Il disco in questione è la seconda opera del DJ nuyoricano, il quale, seguendo la formula già collaudata qualche anno prima (ma con minor successo), produce una decina di beat e chiama tutta una serie di ospiti per farli a pezzi al meglio delle loro possibilità.
Ora: contestualizzando cronologicamente Politics & Bullshit si può notare come il roster sia di quello da leccarsi i baffi, dato che include gli Heltah Skeltah, Fat Joe, Kool G Rap, i Mobb Deep, Busta Rhymes, Keith Murray, Redman, Teflon (entrambi non accreditati), gli M.O.P., il 90% della Juice Crew, gli Smif 'N' Wessun, i Lost Boyz prima del crack (in tutti i sensi) più un paio di sconosciuti (Roc-City O e Evil Twins) ed il secondo miglior rapper-diggèi dopo Kid Capri: Doo Wop. Sembra strano che tutta questa dose di talento riesca ad essere condensata in così poche tracce senza confluire in un troiaio senza capo né coda, ma è chiaro che Cutlass, non nutrendo ambizioni protohipsteriane e quindi scegliendo artisti dotati grossomodo della stessa impronta stilistica, sa benissimo cosa vuole e quindi come creare i giusti abbinamenti.
Ne è una riprova l'eccezionale Know Da Game -al contempo pezzo migliore di P&B e pezzo storico degli anni '90- dove i Mobb Deep, Kool G Rap e gli M.O.P. regalano una performance stellare su una delle basi meglio concepite e confezionate su misura che la mia mente ricordi. In pratica ci si ritrova in mano solo le batterie, quasi soffocate da dei bassi capaci di far saltare i woofer a qualsiasi impianto low-budget, ed un brevissimo loop spezzettato e ridotto all'osso di chitarra elettrica; e non capitemi male, non intendo una di quelle tamarrate che si possono sentire su Chaos di Adam F, bensì una produzione fortemente minimalista che da un lato rende incapaci di trattenere il good ole headnodding, e dall'altro concede agli ospiti tutto lo spazio necessario per esibire la propria bravura. Tolti gli M.O.P., che si occupano esclusivamnte del ritornello, la palma va ad un Kool G Rap in stato di grazia che ci delizia con una strofona da '90: "I'll leave your whole body twisted when you get lifted/ And police'll have to fist rumblistics on a biscuit- another statistic/ I tried to chill but you insisted coming all in my district I don't know why the fuck you risk it". Che dire... ogni volta che la sento mi prostro di fronte alla grandezza di quest'uomo, e la mia esaltazione di sedicenne è ancora integra, tant'è che ancor'oggi sono capace di ripeterla a memoria in qualsiasi circostanza reputandola il mio personalissimo hip hop quotable del decennio.
Curiosamente, però, non fu questo il singolo bensì The Cypher Pt.III, in cui Craig G, Roxanne Shanté, Biz Markie e Big Daddy Kane vengono richiamati al microfono per una riedizione di The Symphony. Tuttavia, vuoi la mancanza di G Rap, vuoi per il fatto che il beat è identico a West Up, l'intento non viene raggiunto e così ci si limita ad avere un buon pezzo ma nulla che sia capace di imprimersi nella memoria collettiva (parentesi: avete notato che tutti i remake di Symphony tentati negli ultimi 20 anni fanno abbastanza pena?). Va invece molto meglio con quella che era -vado a memoria- la b-side di Cypher, cioè You & You & You. In essa abbiamo Sadat X, Redman e lo sconosciuto ma competente June Lover che si passano il microfono su una produzione per quegli anni inusualmente veloce e che alla fin fine conferma ciò che dissero i Public Enemy: B-Side Wins Again.
Sullo stesso livello si collocano poi Feel The Vibe -ottima la combo tra gli Heltah Skeltah, Rampage e Doo-Wop e chapeau per un beat a metà tra DJ Scratch e Erick Sermon- e Pay Ya Dues, che riesce a trasformare un morbido sample di xilofono in una base bella ruvida e ritmata in cui Busta Rhymes diventa francamente la persona perfetta per occuparsi del ritornello. Boriquas On Da Set RMX e Focus invece le trovo meno convincenti: la prima per Fat Joe, qui in piena modalità "No Flow Joe" e quindi non proprio elastico in quanto a metrica, né creativo in quanto a immaginario; la seconda, invece, perchè rappresenta sì una sintesi tra il sound dei Lost Boyz e quello degli M.O.P., ma così forse sacrifica le parti migliori che i due gruppi avevano da offrire. Non che ciò significhi poi che ci troviamo di fronte a delle puttanate, vorrei che questo fosse chiaro, semplicemente che dopo una serie di pezzi innegabilmente potentissimi appare un po' deludente sentire dei contributi solamente di buon livello. Riagganciandomi poi a questa ingenerosa verità, reputo infine senza infamia e senza lode il contributo solista di Roc City O e francamente inutile l'inclusione dell'originale di Boriquas On Da Set: insomma, se hai fatto il remix, caro il mio Frankie, qualche dubbio doveva esser venuto pure a te...
Conclusione: dischi così se ne fanno ancora, per fortuna. Infatti, per ciò che concerne la qualità complessiva del lavoro non trovo che un Politics & Bullshit sia inferiore a, che so, un Port Authority. Trovo, però, che rispetto a quest'ultimo (e molti altri) il punto a favore delle opere personali dei DJ/produttori fosse quello di lasciare ai posteri almeno una canzone che avrebbe fatto storia: Know Da Game, Tru Master, Travellin' Man eccetera eccetera. Politics & Bullshit non fa eccezione, e anzi la conferma nel migliore dei modi: con una serie di tracce molto buone di cui una addirittura risulta eccezionale, e con come unico difetto una durata davvero breve. ma anche così com'è non penso proprio che si possa rifiutarne l'acquisto, men che meno l'ascolto.




VIDEO: THE CYPHER PT.III

N.A.S.A. - THE SPIRIT OF APOLLO (Anti-, 2009)

martedì 17 marzo 2009

Al mondo ci sono cose che non si possono spiegare usando esclusivamente i mezzi donatici dalla ragione e da un uso continuo del raziocinio. Nel mio caso si tratta dello straordinario olfatto che ho e di come lo so usare per snasare qualsiasi cosa anche solo vagamente venata di fighettismo, dove per "fighettismo" intendo la costante e criminale reiterazione dell'apparenza sulla sostanza. Nel caso dei N.A.S.A., un acronimo (North America South America) dietro al quale si nasconde il duo di produttori Clean e Zegon, ho fiutato tanfo di hipster già solo partendo dalla copertina, fino a scorgerne il lezzo più pesante nel momento in cui ho letto la lista degli ospiti e soprattutto come questa viene presentata: "plus over 40 guest performances". Embè?
Tuttavia, da persona dalle aperte vedute quale sono (hum), ho dato una chance a questo Spirit Of Apollo ed alla fin fine sono giunto alla conclusione che per apprezzarlo devi avere in te ancora qualche residuo della natura che da piccino faceva sì che le tue orecchie potessero ascoltare gli Scorpions senza farti sorgere dubbi qualitativi di sorta. Detto altrimenti, non pensare più dello stretto necessario e piegati pedissequamente all'orecchiabilità dell'insieme, magari fischiettando Wind Of Change e bona lé.
Non vuoi farlo? A tuo rischio e pericolo, caro mio! Potresti infatti scoprire un paio di cosucce degne di riflessione. La prima, la più evidente, è che com'era facilmente prevedibile qui non esiste uno straccio di coesione, se non per il fatto che la maggior parte dei beat sono piuttosto tirati e trovano la loro origine nel funk occasionalmente mescolato a elementi di musica brasiliana (peraltro l'unica cosa sudamericana presente in SOA ad eccezione di Seu Jorge, nota bene). Peggio ancora, sovente pare di trovarsi di fronte ad una di quelle tristissime jam session prenatalizie -chiamiamole così- dove una serie di mostri sacri della musica si unisce agli emergenti del momento per incidere canzoni inutili i cui proventi andranno in beneficenza. Anzi, no, mi correggo: nemmeno quello; pare invece che si tratti più spesso di mashup fatti all'insaputa degli ospiti, col risultato finale che può variare dall'accettabile allo scandaloso. Pensate ad esempio alla "collaborazione" tra due leggende come Ghostface e Scarface che dividono lo spazio di una traccia con quelle scarse merdine dei Cool Kids! Ma quale hipster senza rispetto per la musica ha mai pensato che si potessero unire due realtà così diverse senza che vi fosse una sorta di big bang che scindesse la gente capace dai poser?!?
Cerchiamo di capirci: un conto erano i Mobb Deep che facevano il pezzo con Rakim, oppure Inspectah Deck che faceva capolino su una traccia dei Gangstarr: si trattava di gente che, pur avendo carriere e status diversi tra loro, si poteva comunque considerare allo stesso livello del collega o poco più basso/alto. Ma mettere insieme due realtà così diverse significa reputare che non vi è alcun valore intrinseco nel lavoro svolto dagli uni, né, eventualmente, da quello fatto altri. E difatti lo scarto risulta così abissale che, per quanto in sè la canzone potrebbe non essere malaccio, alla fine pare una sorta di Frankenstein musicale. Meglio allora combinare Spank Rock, M.I.A., Santogold e Nick Zinner: la loro Wachadoin' personalmente mi fa orrore, ma perlomeno risulta essere stata davvero concepita a quattro mani dai suddetti. Persino Gifted, che musicalmente pare un incubo dove i Pet Shop Boys s'ingroppano i Bronski Beat (aggiunta di fine serata: ricorda anche Precious dei Depeche Mode, e per quel che mi riguarda non è necessariamente un insulto), mi pare avere più ragion d'essere in virtù dei nomi coinvolti (Kanye, Santogold e Lykke Li) che non la tragica Strange Enough ed il suo indeciso beat -sul quale, per inciso, fa presenza uno dei featuring più scandalosamente svogliati degli ultimi anni, dicasi quello di Karen O, che partorisce un ritornello degno di una denuncia all'Onu.
E già che annovero le Nazioni Unite, tra i crimini contro l'umanità vorrei infine annoverare la strofa di KRS One in Hip Hop, francamente indifendibile nella sua trivialità, e la dancehall fatta col mangianastri Fisher Price di A Volta. Queste le note fortemente dissonanti, in un modo o nell'altro, di Spirit Of Apollo.
Fortunatamente ci sono però degli accoppiamenti che invece paiono funzionare producendo risultati piacevoli: ne sono un esempio The People Tree e Money, nelle quali David Byrne canta i ritornelli in maniera alquanto degna e dove Gift Of Gab e Chali 2na nella prima, Chuck D e Ras Congo nella seconda, donano buone prestazioni che ben si fondono con l'atmosfera creata dai N.A.S.A. Anche N.A.S.A. Music risulta più che piacevole, grazie soprattutto all'inaspettato affiatamento tra E-40 (che non sentivo rappare da Dusted 'N' Disgusted, credo) e Method Man; ma le vere chicche sono altre ancora. Way Down è una e, forse per la presenza di RZA e Barbie Hatch, forse per il suono cupo (The Letter di Al Green con pitch a -8?), fa tornare alla memoria la vecchia collabo tra i Texas ed il Wu; Tom Waits e Kool Keith si danno ad una versione musicale di Maciste VS. Godzilla e stranamente funzionano bene; last but not least, non riesco a trovare nulla di cui lamentarmi in Samba Soul di Del e Q-Bert.
E dunque, come diceva il vecchio Vladimir Iliç, che fare? Non riesco a dare una risposta definitiva a questa domanda. Da un lato ci sono una serie di consistenti abbagli strutturali mescolati ad errori oggettivi (il mixaggio è tra i peggiori che abbia sentito di recente, con tutti i volumi sparati a mille senza criterio) ed una pretenziosità di fondo assolutamente insopportabile; dall'altro invece c'è un dischetto contenente un paio di belle cose e tutto sommato -eccetto due pezzi- gradevole all'ascolto. Il parallelismo che mi viene da fare è con i Killers, che pur senza essere dei geni ma ciò nonostante ammantandosi di un'aura di "artisticità" del tutto immotivata, si possono ascoltare senza grossi problemi. A patto che, però, non ci si concentri troppo: e forse questo non è esattamente sintomo di spessore.




VIDEO: WAY DOWN

REKS - GREY HAIRS (Brick/Show Off, 2008)

lunedì 16 marzo 2009

Confesso che sono in serie difficoltà creative per quanto riguarda la recensione di Grey Hairs; questo né perchè si tratta di un album scialbo, né perchè non ci siano delle osservazioni da fare sul lavoro svolto da Reks. Più semplicemente, il problema è che esso ricalca nei pregi come nei difetti il lavoro precedente, quel Along Came The Chosen a cui ebbi modo di dedicare tempo e spazio qualche mese addietro: dalla durata dell'insieme alla ridondanza contenutistica, dall'incapacità del produttore scelto di reggere un intero album da solo alla presenza di un paio di tracce che dall'inutilità sconfinano nella trissshteria, Grey Hairs è per molti versi una sorta di fotocopia dell'opera d'esordio del Nostro.
Non intendo dunque farla più che tanto lunga e, lungi dal lanciarmi in una disamina del disco traccia per traccia, preferisco andare per sommi capi. Due sono le cose che, secondo me, vanno dette specificamente di Grey Hairs: la prima è che Reks è migliorato in modo notevole sia per quel che riguarda la tecnica (controllo del respiro eccezionale, impossibile non capirlo) e l'impostazione vocale (ora molto più netta sia nei pezzi più tirati che in quelli più leggeri), sia per quanto riguarda la scrittura e la varietà di argomenti. Liricamente, insomma, ho davvero poco di cui lamentarmi -forse punchline non sempre riuscite- ed anzi vorrei congratularmi di persona con il signor Christie per essere invecchiato come il vino e non come l'aceto.
Ma la vecchiaia porta anche testardaggine e sordità, purtroppo, e questo si nota fin dal primo ascolto dell'album. Tolte infatti alcune canzoni davvero ben riuscite, la stragrande maggioranza delle produzioni (affidate al secondo me sopravvalutato Statik Selektah) oscilla tra l'insipido ed il già sentito; e per giunta, l'ampio utilizzo di campioni vocali pitchatissimi poi riesce a a dare il colpo di grazia alla pazienza dell'ascoltatore medio. Questo però come si traduce, in una schifezza? No, nient'affatto: banalmente, Grey Hairs asciuga molto più in fretta di quanto fosse dovuto e, aggiungo, non pesta abbastanza duro.
The One, Say Goodnight, Stages, All In One e Next 2 Me sono le uniche tracce dell'album in cui Reks tira fuori il suo lato più hardcore e, se calcoliamo che sono solo cinque su venti (nessuno skit, dimenticavo) aggiungendoci che son tutte collocate nella prima metà del disco, allora secondo me abbiamo un problema. Anche perchè se da un lato questa bizzarra tracklist consente -unitamente ai contenuti- di suddividere Grey Hars in due parti, con la prima più orientata all'hip hop vero e proprio e la seconda più intimista, dall'altro la suddivisione pare un po' forzata ed in ultima analisi incapace di raggiungere lo scopo prefisso, cioè quello di intrattenere con intelligenza.
E questa critica la muove uno che trova Reks davvero un buon MC (anche se le personificazioni di Biggie e Big L in All In One fanno rimpiangere alla grande Last Emperor), non un ascoltatore occasionale. Aggiungo, lo ripeto, che la colpa è da cercarsi unicamente nella scelta dei beat. Perchè il Nostro alla fin fine ce la mette tutta per rendere interessante una determinata produzione e talvolta ci riesce anche (cfr. tra le altre Rise, Isiah, Black Cream), ma quanto si sente la differenza appena ha sotto mano qualcosa di più energetico! Prendete Stages -pezzo migliore dell'album- dove Large Professor pur non spingendosi a livelli di hardcore tipo gli UN riesce a tagliare un campione in modo da stupire ancor'oggi, gli butta delle batterie serie e fa aggiungere dei cut di Nas e di sè stesso che aggiungono la proverbiale ciliegina sulla torta. In modo analogo anche se meno impressionante si muove Premier con la sua Say Goodnight, e persino Statik, quando ispirato, riesce a creare tracce più che degne come The One o la pur leggera Grey Hairs.
Morale della favola, Grey Hairs è per me un'occasione mancata. Pur non presentando delle fiaccate in senso assoluto, ci sono davvero troppe canzoni incapaci di mordere e, per converso, troppe poche degne di memoria. Tuttavia, se da un punto di vista del beatmaking è stato fatto un passo indietro, come emceeing ci siamo abbondantemente. Reks conferma le buone impressioni dell'esordio ed anzi amplia la sua gamma di tematiche, riuscendo a risultare sincero e meritevole d'empatia, seppur con qualche caduta nell'autocommiserazione o nella lamentela-piagnisteo. Ciò detto, non so se consigliarlo al di fuori degli aficionados più invasati; diciamo quantomeno che già solo per Stages io un ascolto glielo darei...




VIDEO: BIG DREAMERS (REMIX)

AFU-RA - BODY OF THE LIFEFORCE (Fat Beats/Koch, 2000)

venerdì 13 marzo 2009

La maggior parte di voi avrà notato che disprezzo il 95% del rap mainstream e che lo faccio con una appassionata convinzione, dove questa è dettata unicamente dal fatto che -più che i beat in sè e per sè- i vari Young Jeezy e compagnia bella non sono capaci di rappare secondo gli standard classici. Sono poi dell'idea -ovvio- che i canoni che adotto siano giusti e che se il rap commerciale (e usiamola, sta cazzo di definizione!) di oggi sia più schifoso di quello di dieci anni fa è perchè si è mostrata troppa tolleranza nei confronti di gente che arebbe dovuta essere bastonata a sangue fin dagli esordi. Tuttavia, posso comprendere l'obiezione che i suddetti standard non possono essere un metro di giudizio rigido o infallibile e, per quanto non me ne faccia molto della suddetta obiezione, ci sono casi in cui devo ammetere che essa ha una sua ragion d'essere.
Dove invece questa è assolutamente fuori luogo è nei casi in cui si prova a prendere in esame un MC che implicitamente dichiara di far parte della scuola di rap che nel tempo ha generato questi criteri; giustamente, quindi, personaggi come Melachi The Nutcracker, Big Shug o Erick Sermon vengono considerati delle schiappe (naturalmente con le dovute sfumature del caso). Ci sono però alcune chiaviche che, inspiegabilmente, riescono a sottrarsi a questo giudizio: tra i contemporanei devo giocoforza menzionare Kanye West, che è un po' l'epitome dello scarsone reputato discreto, ma forse c'è uno che in passato è riuscito a sgabolare fischi ed umiliazioni più di altri: Afu-Ra.
Inspiegabilmente, e analogamente a quanto avvenuto con Grand Agent, quando nel 2000 venne pubblicato Body Of The Lifeforce nel Belpaese vi fu un generale entusiasmo nei confronti del Nostro. Entusiasmo, questo, assolutamente infondato -ça va sans dire. Insomma, si tessevano le lodi di Afu come se lui al microfono valesse chissà che, quando in realtà chiunque se lo fosse filato nelle sue precedenti apparizioni poteva notare che a) bravo non era mai stato, e b) che il suo stile e la sua tecnica erano rimaste pressoché invariate dal '94 in poi. A sua discolpa, però, posso dire che contrariamente a GA lui ha perlomeno avuto la decenza di scegliersi una gamma di beat capaci di rendere l'ascolto di Body Of The Lifeforce quasi un piacere: Premier, i Beatminerz, True Master e gli sconosciuti ma validi DJ Roach e Mike Rone. Ecco, appunto, le uniche cose positive che si possono dire di BOTL riguardano i beat, che forniscono una panoramica abbastanza estesa e mediamente ben fatta di quella che è la scuola nuiorchese a cavallo tra il boombap più classico ed il sound del Wu-Tang.
Ad esempio, il singolo Defeat b/w Mortal Kombat già anticipava questo dualismo: da un lato Primo cuciva un beat tipico del suo stile -campione tagliato, batterie pestone, ritornello scratchato- e dall'altro DJ Roach faceva risorgere in modo eccellente le atmosfere del miglior RZA. Purtroppo, oltre ad anticipare questo fattore indubbiamente positivo, in quel 12" già si poteva notare che Afu non era 'sto genio al microfono (e dire che Defeat è uno dei pezzi migliori dal punto di vista dell'emceeing), cosa ulteriormente messa in evidenza da una ottima performance di Masta Killa, che nella b-side letteralmente ridicolizzava la strofa del collega. Uno squilibrio, questo, che ritroveremo ogni qual volta che Afu decide di invitare qualcuno su una canzone: che si tratti di GZA, degli M.O.P., degli Smif 'N' Wessun o di Hannibal Stax, e a prescindere dalla bontà relativa dell'intervento, tutti questi danno una paga imbarazzante al poveretto.
Poveretto che, dal canto suo, fa quel che può con i mezzi a sua disposizione e che sfortunatamente sono ridotti all'osso: una voce anonima ed assolutamente statica per quel che riguarda l'interpretazione va ad aggiungersi ad una tecnica elementare consistente in poco più del saper stare a tempo; le metafore e le similitudini utilizzate sono a dir poco asinine ("sharper than a fuckin' cactus" è solo un esempio dei guizzi di creatività presenti nelle varie tracce) ed il vocabolario viene spesso bistrattato attraverso la messa in sequenza di parole il cui unico nesso è dato dall'assonanza tra di esse ("Inferable, impenetrable, mineral, serial/ Spiritual, visuals, sprinkle mics with my lyricals"), tanto che sovente si ha l'impressione che Ra abbia copiato tali e quali intere pagine da un rimario di quart'ordine. Insomma: un disastro su tutta la linea.
Ma, come dicevo, per quanti difetti possa avere l'autore di Body Of The Lifeforce, non gli si può negare un buon orecchio; il che gli ha permesso di mettere insieme una serie di beat davvero niente male, che spesso lo aiutano drasticamente a portare avanti il disco (una caratteristica, questa, presente anche nei lavori successivi). Posso infatti dire che le uniche basi mediocri sono Bring It Right e la complessivamente orripilante Caliente? Sul serio: tutto il resto dei beat varia dal buono all'ottimo, tanto che l'assenza di un'eccellenza vera e propria cade in secondo piano senza che ciò arrechi disturbo. Proprio per questo non me la sento di commentare l'album beat per beat; preferisco limitarmi ad elogiarne non solo l'intrinseca bontà ma anche la buona varietà, che tra il reggae di D&D Soundclash, l'atmosfera gotica di Mortal Kombat e l'hardcore di Soul Assassination riesce a rendere possibile l'ascolto di Body Of the Lifeforce senza restarne disgustati ed in diversi casi anche avendo una sensazione di soddisfazione.
Tutto ciò però non può salvare Afu dall'essere valutato per quello che è, e cioè una mezza sega. Ne consegue che se i beat sono da 4, il suo "emceeing" è di livello così miserabile da non poter attribuire a BOTL più di tre zainetti. Un giudizio secondo me comunque più che generoso, che peraltro accompagnerei con un buon consiglio: Afu-Ra caro, lascia stare quel povero Shure e vai a fare ciò che evidentemente ti è più congeniale e dove difatti brilli: l'A&R.




VIDEO: DEFEAT

DAS EFX - HOLD IT DOWN (EastWest, 1995)

mercoledì 11 marzo 2009

Sarebbe interessante studiare la differenza carrieristica che passa tra gli artisti di successo nel campo del rap e quelli di un altro genere musicale. Alcune notevoli differenze salterebbero fuori sia per quanto riguarda la parabola commerciale che per quel che riguarda la memoria collettiva. Prendiamo ad esempio tre dei gruppi di maggior successo dei primi anni '90: i Naughty By Nature, gli Onyx e i Das EFX. Tutti questi hanno avuto un esordio di enorme successo all'inizio del decennio seguito da una più che buona seconda opera, nel 1995 hanno creato un album eccellente, ma dopo -a prescindere dalle vendite del passato- sono andati scomparendo sia dalle classifiche che soprattutto dalla memoria.
Intendiamoci: non sto parlando di memoria personale, perchè lì basta avere un sufficiente numero di anni per sapere cosa rispondere alla domanda "You down with O.P.P.?"; parlò di ciò che fa cultura (nel senso più ampio del termine), cioè di quello che permette ad un quindicenne di oggi di sapere cosa sia The Message e non They Want EFX. Decisamente, su certi artisti o certe canzoni pare che ci sia una data di scadenza, al contrario di ciò che avviene ad esempio con l'alt rock e le sue diramazioni (ma di questo ne ha già scritto più nel dettaglio Antonio). Fatto sta, insomma, che alcuni artisti secondo me più che degni sono ormai condannati all'oblio e, parlando adesso specificamente dei Das EFX, in parte se lo sono anche meritato viste le ultime creazioni da loro partorite. Ma nessun album -per brutto che possa essere- dovrebbe autorizzare la rimozione di due ottimi dischi come Straight Up Sewaside o questo Hold It Down.
Hold It Down che, analogamente a All We Got Iz Us, è uno degli unsung heroes del 1995. Ascoltarlo oggi fa uno strano effetto perchè risulta essere incapsulato in una bolla temporale,e se questo da un lato non l'ha aiutato ad essere ricordato dai posteri, dall'altro è capace di regalare ai fan del genere più di settanta minuti di goduria e questo è il suo maggior pregio. Tutto, dico tutto il disco sprigiona hardcore da ogni singolo poro. Non un ammiccammento a sonorità leggere, non un ritornello cantato, non un argomento che si sposti dalla combo ghetto-fumo-alcol-hiphop; l'immaginario di Timberland indossate sotto a pantaloni militari è presente in ogni singola strofa e portato avanti con una convinzione tale da cancellare qualsiasi dubbio sulla sua genuinità. I produttori, che si chiamino Premier, Easy Mo' Bee, Showbiz o Solid Scheme tirano fuori il loro lato più minimalista e lavorando per la maggior parte del tempo quasi solo di basso e batteria riescono a creare un suono omogeneo che solo in pochi casi viene a noia; un buon 80% di Hold It Down fila via infatti che è un piacere, e se è indubbio che taluni pezzi abbiano un impatto maggiore rispetto ad altri, è pur vero che questi fungono da collegamenti di lusso. Here We Go, ad esempio, fa da ponte tra la potentissima Knockin' Niggaz Off (messa un po' in ombra solo dalla precedente No Diggedy) e la storica Real Hip Hop; allo stesso modo, Hold It Down collega Alright a Dedicated, e lo stesso vale per Bad News. Le uniche note dissonanti sono date da Comin' Thru e 40 & A Blunt, che a fronte di contenuti onestamente generici ed uno stile non troppo variegato non sanno esibire una controparte sonora capace di destare l'interesse dell'ascoltatore, il quale è portato a pensare che si tratti di canzoni nemmeno completate da tantoi che isultano scarne.
Tolte queste due pecche (alle quali comunque aggiungo Buck Buck e l'inutilissima seconda intro, dato che spezzano l'ascolto senza un perchè), il resto è materiale da leccarsi i baffi. La già citata No Diggedy è energica quasi quanto My Kinda Nigga di Heather B e la successiva Knockin' Niggaz Off prosegue su questo filone. Senza citare più di tanto originale e remix di Real Hip Hop, preferisco tessere le lodi della cupa e relativamente melodica Here Its Is (che sfrutta un intero loop di piano), Can't Have Nuttin' (azzeccati i sample vocali, peccato solo per delle batterie un po' datate anche per quel periodo) e Dedicated che, con suoni a metà tra Inna City Blues dei Group Home e Properties Of Steel di Godfather Don, trova Clark Kent nella sua modalità hardcore più estrema. Last but not least c'è il singolone Microphone Masta ed il suo indimenticabile campione di xilofono, un'autentica perla curata da Easy Mo' Bee che straccia come e quando vuole gli inutili remix che gli sono susseguiti. L'unica accusa che si potrebbe muovere al sound di Hold It Down (ho fatto la rima) è di non brillare per originalità, ma di fronte ad una simile esecuzione la cosa per me scivola in secondo piano.
Tuttavia, non posso essere altrettanto generoso con le liriche. Non tanto per la banalità dei contenuti, che considerando il tipo di disco ci sta tutta, quanto per l'aspetto più strettamente tecnico dell'emceeing. Drayz e Skoob, infatti, si lasciano alle spalle le esagerazioni di "iggety" vari, e ciò personalmente non può che farmi piacere (ma chi mi volesse controbattere che era il loro marchio di fabbrica avrebbe ragione); peccato però che facendo questo facciano notare a tutti quanto la loro abilità di costruire metriche o punchline valide sia quel che sia. Spesso infatti li si sente usare metafore ed analogie assolutamente prevedibili già nel '95, così come del resto le rime che, in certe occasioni, addirittura rimandano il pensiero a certi stilemi di fine anni '80 (lunghe pause, una sola rima a fine verso, cose così insomma). Detto in altre parole, in Straight Up Sewaside erano oggettivamente più in forma ed avevano secondo me trovato la quadratura del cerchio tra la gimmick del iggety e la tecnica più tradizionale/efficace. Ciò detto, dispiace che gli ospiti siano solo due (KRS One e PMD) perchè questi avrebbero potuto movimentare un po' di più una situazione certamente non disperata ma nemmeno eccelsa.
Ma anche alla luce di questi difetti Hold It Down mi pare davvero troppo bistrattato dal pubblico hip hop. Esageratamente criticato all'epoca della sua uscita da un lato e vittima di una memoria fallace che vede Drayz e Skoob dei fenomeni da baraccone da lasciare nei primi anni '90 dall'altro, in realtà è un disco che nella sua incapacità di giungere a compromessi merita ben altra attenzione. Non piacerà a tutti, poco ma sicuro, ma del resto questa non è mai stata un'ambizione del hip hop. Quanto al voto, spero che non ci sia la sommossa come dagli Organized ma comunque spiego: quattro e mezzo stiracchiati ai beat, tre/tre e mezzo all'emeceeing, diciamo che un quattro abbondante ci sta tutto.




VIDEO: REAL HIP HOP

NON-PHIXION - BLACK HELICOPTERS (2002)

lunedì 9 marzo 2009

Dato che oggi è lunedì, cioè una giornata abbastanza traumatica per un cazzeggiaro purosangue come il sottoscritto, voglio giocarmela facile facile con un bècchindedeis oramai forse inutile ma -immodestamente- apprezzabile. Quando nel 2002 uscì The Future Is Now, mi resi conto che oramai ero riuscito a mettere da parte una discreta quantità di singoli e b-side dei Non-Phixion che, ovviamente, non erano stati poi inclusi nel loro album d'esordio. Inutile dire che questo era tanto giusto quando seccante, perchè canzoni come 5 Boros, Refuse To Lose o 4 W's meritavano senz'altro un secondo o terzo giro nelle orecchie di chiunque. E allora, ispirato dal mixtape The Past, The Present & The Future Is Now (curato dallo stesso DJ Eclipse e originariamente pensato come mezzo promozionale per il loro disco ufficiale), mi sono messo di Photoshop e Goldwave a mettere insieme un po' di roba. Ancor'oggi mi sembra che la selecta regga abbastanza bene e, fatta eccezione per il remix di 5 Boros, che qui troverete in qualità urènda (ma vi ho caricato il VLS a quest'altro indirizzo), la pulizia del suono sia a livelli mediamente accettabili. Ovviamente, la grafica dovrei ancora averla nel HD esterno, ma stamattina francamente non avevo tempo di ripescarla e, in ultima analisi, non è che sia tutto 'sto granché.
Fatto sta, ecco la tracklist:

01. 14 Years Of Rap feat. Q-Unique & Jise One
02. Legacy
03. Black Helicopters
04. I Shot Reagan feat. necro
05. Promo WKCR
06. This Is Not An Exercise
07. 5 Boros feat. D.V. Alias Khrist
08. Refuse To Lose
09. No Tomorrow
10. Thug Tunin'
11. 4W's
12. End Of the World
13. Sleepwalkers
14. They Got...
15. 5 Boros (D/R Period Remix) feat. D.V. Alias Khrist
17. 2004 feat. Obscure Disorder
18. The Full Monty (non segnata nella tracklist, chissà perchè)

Come si può vedere dalla pur lillipuziana scansione, 'sto CD ha fatto altrettanti viaggi quanto il suo fratello maggiore. Scopritene il perchè, casomai non conosceste a memoria tutti i pezzi, e gustatevi il video di 14 Years Of Rap (tra l'altro, gli Skeme Team mica erano gli odierni Brooklyn Academy? E, se sì, qualcuno li vede nel video?)

Non-Phixion - Black Helicopters

VIDEO: 14 YEARS OF RAP

PETEPHILLY AND PERQUISITE - MIND.STATE (Epitaph, 2005)

giovedì 5 marzo 2009

[Disclaimer: Alcune delle recensioni incluse in questo blog sono originariamente state pubblicate sul sito Hotmc.com. La ripubblicazione di questo materiale su Rugged Neva Smoove non è in alcun modo dipendente dalla volontà di Hotmc, che per politica editoriale desidera rimanere estranea alle attività di qualunque audioblog supporti il download illegale. La riproposizione degli articoli si riduce a una scelta personale dell'autore di questo blog, nonché autore delle recensioni, che si assume totalmente la responsabilità delle eventuali conseguenze]

E’ buffo: alle volte incappi in un disco quasi per caso e magari senza dargli un gran peso. Questo, almeno, succede a me. Nel dettaglio, qualche settimana fa sono entrato in un negozio di dischi usati per vedere se avevano qualcosa dei primi Soundgarden ed invece me ne sono uscito con questo Mind.State del duo olandese formato da PetePhilly (Mc) e Perquisite (produttore).
Non che i loro nomi mi suonassero nuovi: se n’era già parlato in abbondanza sia in rete che sulla carta stampata, ed i vocaboli più sentiti in quelle occasioni erano “avanti”, “geniale”, “sperimentale” e via dicendo, cosa che, al solito, ha fatto crescere in me sospetti di pacco al limite della paranoia. Dopo due settimane circa di ripetuti ascolti, il mio scetticismo è stato finalmente sconfitto e così posso dire che mi sbagliavo.
Tanto per cominciare, il disco si presenta bene: digipack a doppia antina, grafica molto stile “street art” (curata da TwoThings... Boghe?), booklet contenente tutti i testi e adesivo recante un elogio da parte di nientepopodimenoche Talib Kweli. Mica cazzi. Altra peculiarità: tutti i titoli dell’album corrispondono ad uno stato d’animo: gli anglofoni e/o gli intelligenti cominceranno dunque ad intuire che si potrebbe trattare di un concept album. Le loro doti di fini osservatori della realtà saranno premiate: è un concept album.
Svelato l’arcano, comincia l’ascolto: bella intro coi soliti scratchini, e poi subito la prima traccia: Relieved… toh, un inedito di Ali Shaheed Muhammad con su un Talib Kweli in erba, maddài, mica lo conoscevo… invece no. Ascoltando con un orecchio meno ottuso, si nota che Philly tira sì saltuariamente delle sucate al Talibbo (tenete presente che mi riferisco al T. Kweli dell’immediato post-Black Star), ma resta comunque abbastanza riconoscibile per via della metrica un po’ meno complessa e d’un approccio alle tematiche più diretto, teso molto verso lo storytelling. Storytelling, appunto, inquadrabile come elemento principale dell’album; i suoi tratti somatici sono l’uso di uno stile a metà tra il racconto vero e proprio e l’utilizzo di immagini, un ibrido ben riuscito che più di una volta evita di dar peso a rime in sé un po’ banalotte o non propriamente fresche. L’analogia che mi viene in mente lo collega per certi versi alla scrittura di Guru, per capirci. Rispetto a quest’ultimo, però, PetePhilly gioca molto sull’interpretazione (da che mondo è mondo, di king of monotone Mc's ce n'è uno), eccellendo in pezzi come Paranoid o Mellow.
Ovviamente, a determinare il successo finale dell’evocazione è l’alchimia tra i beat e le rime, e questa funziona praticamente sempre: ottimi esempi sono Eager ed il suo bel loop di piano; la già citata Paranoid (bellissimo il campione ed il bridge, valide le batterie che, a metà pezzo, vengono programmate in stile drum’n’ bass); la più classica Hope (che vede finalmente ‘sto benedetto featuring di Talib); infine, l’omonima Mindstate.
Di Perquisite s’è detto molto, e a ragione: la cultura musicale classica che ha alle spalle ha evidentemente influenzato la sua produzione, che risalta per i frequenti cambi di stile e melodia nei diversi pezzi, senza però danneggiarne la continuità. Anche l’elettronica si fa sentire e, a parte l’epilogo technuso di Motivated (un po’ troppo da Molella, per i miei gusti), non disturba.
In conclusione: il prodotto è ben pensato ed ottimamente realizzato, specie dal punto di vista musicale, tanto che se ne potrebbe tranquillamente fare un album di sole strumentali. PetePhilly, di suo, non scrive rime in sé perfette (anche se qualche virtuosismo c’è, cfr. la terza strofa in Hope, veramente bella), ma compensa il tutto tramite una buona abilità nel descrivere situazioni e stati d’animo ed una capacità di interpretarli in modo decisamente fuori dal comune –magari esagerando, in certi allunghi, ma sono inezie. L’unica critica che potrei muovere al tutto –ma è una questione privata- è che occasionalmente il disco, in tutta la sua pulizia e semiperfezione- risulta un po’ freddino.
In definitiva, questo Mind.State è un album che piacerà sicuramente a chi ha un orecchio piuttosto allenato e resta occasionalmente annoiato dalle “solite” uscite; tristemente, però, verrà impugnato anche dai soliti contadini che amano occuparsi di paragoni fatti alla carlona tra “la VERA musica” e “quelle cose tutte uguali che ascolti tu”. Triste ma inevitabile.
Sono però seriamente in crisi per quel che riguarda il voto finale: l’album, nella sua coesione, può risultare un po’ pesantuccio; del resto, è un problema tipico di qualsiasi concept album. Musicalmente ineccepibile, è un po’ più debole sul versante dell’Mc: ma si può dire che sia davvero un difetto e non una semplice smagliatura? Insomma, se gli omini a mia disposizione fossero cinque, gli darei un bel 4 e 1/2; disponendo però solo di quei quattro miseri cazzetti, arrotondo (con qualche esitazione) e gli do il voto più alto, aggiungendo un “buona fortuna” per quel che riguarda le vendite.

[Ah quanto si può sbagliare, una persona; persino io, che immodestamente sono un genio. Infatti, contando il fatto che negli anni passati dalla sua uscita ho riascoltato Mind State al massimo cinque volte, devo giungere a una conclusione: o sono io ad essere strano, oppure questo album è seriamente una mattonata sui coglioni. I beat, lo confermo, sono fatti bene ma viaggiano tutti sulla stessa lunghezza d'onda. Per quanto Perquisite dimostri senz'altro competenza e voglia di sperimentare, questo in fin dei conti non basta e se si prende l'album nella sua interezza non si può non risultarne annoiati. Diciamo dunque che una scrematura quantitativa avrebbe senz'altro giovato al prodotto. In più, PetePhilly non solo ha il difetto di assomigliare stilisticamente fin troppo a Kweli (fattore sul quale si potrebbe anche glissare), ma pecca di personalità. Ovverosia, né la sua scrittura, né le esperienze descritte nelle diverse tracce riescono a risultare un granché interessanti e, peggio ancora, le riflessioni su di esse spesso scivolano nella banalità tipica delle geremiadi da ubriaco. "Scialbo" è il termine che più gli s'addice, insomma, ed il suo cosid. self righteousness non fa altro che peggiorare ulteriormente le cose. Ne consegue che Mind State può essere apprezzato in piccole dosi, ma certamente non per i quasi settanta minuti di durata del tutto; come concept album in sè e per sè è anche pensato abbastanza bene, ma francamente non riesce a trasmettere molto e la sua freddezza mescolata ad una certa pretenziosità lo fa apparire un degno epigone dei lavori di Emerson, Lake & Palmer. Impossibile quindi dargli quattro -men che meno quattro e mezzo- però non me la sento di scendere sotto i tre zainetti abbondanti. Aggiungetegli mezzo, se volete, ma a vostro rischio e pericolo]




VIDEO: PARANOID