GROUP HOME - LIVIN' PROOF (Payday/FFRR, 1995)

mercoledì 30 settembre 2009

In Italia la meritocrazia, si sa, non è una delle virtù più diffuse e rispettate né dal popolo, né men che meno dalla classe dirigente. Ogni giorno però si sente qualcuno lamentarsi di questa situazione ingiusta, indice di una nazione al suo tramonto eccetera eccetera; come sempre avviene nel Belpaese, stando a sentire le discussioni nei bar, è puntualmente il prossimo ad essere un corrotto/un tirapiedi/ un incompetente e via dicendo e quindi che morte lo colga. Ciò che però secondo me non si tiene in considerazione è che fare strada essendo privi di qualità non è per nulla facile e sovente richiede secondo me più sacrifici che sbattendosi avendo a disposizione solo il proprio cervello. Un esempio su tutti: Noemi Letizia, per presentarsi al festival di Venezia assieme ad una sorta di becero magnaccia cocainomane con la maglia di Jack lo squartatore, ha probabilmente dovuto spompinare (pardon: "essere carina") un ultrasettantenne bavoso, lubrico, rozzo e pieno di sè. Personalmente, per fare ciò reputo che ci voglia molto più fegato che seguire un corso di laurea decennale in medicina. Ecco, analogamente, nell'hip hop capita che per finire su un album della celebrità di turno si debba fare persino di peggio: nel caso dei Group Home, per dirne una, uno era un pugile di strada e l'altro un nano cattivissimo ed entrambi svolgevano le veci di guardiaspalle non ufficiali di Guru. Sarà mica una bella vita, quella?
Ora, Guru, non essendo nemmeno consigliere comunale, chiaramente non poteva premiare Melachi The Nutcracker e Lil' Dap "all'italiana", e pertanto probabilmente ecco cos'è successo: non nuotando nell'oro, e stufatosi di avere il duo tra i piedi, avrà preso da parte Primo dicendogli che urgeva trovare qualcosa da fare a quei due scoppiati. Un bel disco era la cosa più logica, ma il problema è che dei due uno sapeva a malapena stare a tempo e l'altro come rapper valeva ben poco. Che fare? Ma è molto semplice: dargli una raccolta di beat pressochè perfetta e far sì che questi riuscissero nell'ardimentosa impresa di coprire le abissali lacune liriche di Dap e Melachi. Ebbene, io credo che chiunque si sarebbe tirato indietro di fronte ad una fatica simile, ma il Premier di quegli anni di certo non temeva le grandi sfide e così si buttò a capofitto sul campionatore, regalandoci così uno dei dischi meglio prodotti e peggio rappati di tutti gli anni '90. In questi quasi quindici anni, quindi, Livin' Proof è ormai diventato il paradigma di questo genere di prodotto, nonchè la dimostrazione definitiva che anche nel rap il ruolo coperto dalla musica è infinitamente superiore a quello dei testi.
E ciò diventa lampante fin dalle prime battute di Inna Citi Life: mentre la produzione è nella sua apparente semplicità assolutamente geniale (quei charleston, dio mio, quei charleston...), le prestazioni dei due variano dall'appena passabile di Dap allo scandaloso di Melachi, che ci regala piccole perle di liricismo come questa: "Ayyo nigga I flip, and jump I shift/ For shooting a nigga in the face for I shoot to give, check it/ Swing the mic live in trife do what you like/ I hit your moms in the head with a metal pipe". Imbarazzante, vero? A momenti il campione vocale di nas usato da Primo riesce a dare la paga a tutt'e due, figuratevi; e esattamente lo stesso avviene per la title track, in cui una cut di Inspectah Deck tratto da C.R.E.A.M. va a coronare uno dei beat più uptempo ed al contempo più sinistri di Primo e fa sperare a noi ascoltatori che da quella semplice barra possa nascere una strofa intera. Purtroppo così non è, e alla fine dobbiamo arrivare fino al gioiello nascosto dell'album, cioè Suspended In Time, per sentire delle rappate accettabili: queste naturalmente impreziosiscono l'insieme, ma resta comunque il beat a fare la parte del leone, con quel campione di vibrafono (almeno così pare) che, nella vena di quello di Come Clean, sa riproporre le atmosfere d'una metropoli sotto la pioggia con rara efficacia.
Purtroppo, però, sparse per le tredici tracce ci sono anche alcune produzioni inferiori all'eccellenza, come per esempio Sacrifice, Baby Pa o 2 Thousand, che se date in mano ad un Jeru sarebbero passate come comunque belle ma che, in balìa del nano e del tamarro, affondano miseramente in quanto incapaci di sostenere oltre un certo peso d'incompetenza. Nulla di grave: basta poi riprendere l'ascolto con le due ottime versioni di Up Against The Wall (dopo attenti ascolti preferisco il Getaway Car Mix, se vi può interessare) oppure il singolone Supa Star e ci si riprende come con un'iniezione d'adrenalina, però la macchia rimane. Per fortuna comunque qualche featuring c'è, e anche se non si può certo dire che nessuno di questi sia di alto livello (a parte Guru), un po' di diversità aiuta enormemente e così facendo salva Serious Rap Shit dallo scadere in puzzetta, mentre per quel che riguarda The Realness la inserisce per direttissima tra i pezzi da 90 di tutto Livin' Proof.
Tutto qui? Sì tutto qui: Livin' Proof è un disco che bene o male tutti conoscono ma che, e qui mi rivolgo ai pochi rimasti che ne ignorano l'esistenza, va assolutamente comprato. Perchè se da un lato è vero che gli do un generoso tre e mezzo, dovuto più che altro a questioni di stretta matematica (i beat son da 4 e 1/2, l'emceeing lasciamo stare che è meglio), è anche vero che malgrado tutto si lascia ascoltare da capo a fondo senza alcun tipo di problema. Dap e Melachi fanno cagare a spruzzo? Certo, ma a chi importa? Con basi come quella di Supa Star, Supspended In Time o Inna Citi Life a qualcuno importa ancora qualcosa?




VIDEO: SUSPENDED IN TIME

SLAUGHTERHOUSE - SLAUGHTERHOUSE (Koch, 2009)

martedì 29 settembre 2009

Vediamo di giocare a carte scoperte fin dall'inizio: se state leggendo questa recensione in questo blog è solo perchè una sorta di etica da giornalista m'impone di scriverla. Mi spiego: se un omosessuale riuscisse a partorire, anche l'Osservatore Romano sarebbe costretto a parlarne -magari in una spalla o un trafiletto in corpo 4, ma ne parlerebbe- in quanto trattasi oggettivamente una notizia. E così farò io, per quanto, piuttosto che scrivere di questo disco, preferirei prendermi a fucilate nelle rotule.
Che quest'album abbia infatti un valore che prescinde dalla musica è innegabile, e ciò si deve principalmente all'attezione ricevuta ben prima dell'uscita ufficiale: credo infatti che chiunque, non appena saputo che il quartetto di Royce The 5'9'', Joell Ortiz, Joe Budden e Crooked I avrebbe pubblicato un disco insieme, si sia fatto una sega pregustando una sorta di classico. Su internet i digiuni di liriche sbavavano copiosamente aspettandosi risultati all'altezza dei nomi dei quattro, e quando poi sono usciti i nomi di alcuni dei produttori coinvolti (Alchemist, Mr. Porter, DJ Khalil) mancava poco che la blogosfera implodesse sotto i colpi degli aggettivi iperbolici che si riuscivano a trovare per quest'opera. Poi però il disco è uscito, e in una settimana ha floppato così clamorosamente (18000 copie, non sui livelli degli MOP ma comunque un risultato deludente) che alcuni hanno ribattezzato l'intero progetto "Laughterhouse".
Personalmente, al di là del trovare divertente il gioco di parole, non sono rimasto colpito da questo fatto e, soprattutto, delle vendite non me ne potrebbe fregare di meno. In fondo, pur trattandosi davvero di un risultato deludente la cosa non mi tangerebbe minimamente ed in fondo credo di possedere più dischi detentori della targa d'alluminio che non bestseller. Oltretutto, il fenomeno del leaking ha oramai raggiunto proporzioni gargantuesche e sebbene ancora fatichi a capire dove si possa trovare il problema quando questo avviene pochi giorni prima del lancio ufficiale, pare che molte pubblicazioni ne risentano. O, per meglio dire, ne risentono le pubblicazioni che, come si usa dire in slang, «non beccano un cazzo». Con questo intendo dire che se un album merita, il leaking di breve termine può addirittura funzionare da pubblicità (vedi Raekwon), mentre se si tratta di un prodotto di qualità media questo ha il 50% di possibilità di influenzare le vendite; di conseguenza, se il prodotto è invece debole è ovvio che nell'immediato ne risulterà danneggiato. E questo è secondo me esattamente ciò che è successo con Slaughterhouse, che malgrado tutte le promesse di liricismo portato agli estremi livelli e blablabla alla fin fine è un dischetto che conferma il teorema che vuole il concetto di supergruppo come potenzialmente fallimentare.
Contrariamente a quanto ho sempre fatto con le mie recensioni, ovverosia entrare nel dettaglio pezzo per pezzo per tracciare infine un quadro complessivo, stavolta preferirei restare più sui generis e menzionare casomai le canzoni a mo' di esempio. Questo perchè Slaughterhouse presenta dei difetti ricorrenti così madornali che procedere in senso inverso comporterebbe una ridondanza noiosa forse più del disco stesso.
Veniamo al dunque: in teoria, un supergruppo dovrebbe consistere di svariati personaggi altamente competenti nelle loro diverse aree di specializzazione oppure ugualmente eccelenti nella medesima categoria. La prima opzione avviene solitamente in generi musicali come il rock o, in senso più ampio, nel jazz, dove servono più persone per craere un pezzo completo; la seconda invece trova la sua concretizzazione in tutti quei generi dove per creare la base musicale basta un unico individuo. In ogni caso, gli scopi principali sono gli stessi: in primo luogo cercare di riassumere la crème de la crème dei vari talenti coinvolti in un unicum, ed in secondo quello di spingere la competitività dei vari membri mentre al contempo dovrebbero di fatto essere obbligati a spingersi al di fuori del loro solito ambito di competenza. Ebbene, nel caso di Slaughterhouse si può anche essere d'accordo sul raggiungimento del primo obiettivo, mentre sul secondo non è posibile non ravvisare un fallimento su tutta la linea.
Io difatti non vedo un briciolo di alchimia concreta in alcuna di queste quindici canzoni, così come non vedo nessun tipo di voglia di provare a spingersi al di fuori di terreni già esplorati. L'unica cosa che c'è è la competizione interna -ed è meglio di niente, d'accordo- ma per il resto ognuna delle varie strofe potrebbe tranquillamente venire spostata sui rispettivi album senza alcun tipo di incongruenza; peggio ancora, non ci sarebbero problemi a vampirizzare, che so, tre strofe di Crooked I da tre diverse canzoni e riassumerle in un pezzo unico. Sarebbe pure facile, visto che comunque si spartiscono gli spazi in maniera regolare e prevedibile -16 barre a testa e avanti il prossimo- per cui... Ora, mi si potrà opporre che in realtà qualche pezzo un po' più strutturato che il semplice battle rap ci sia: The One, Pray o Rain Drops, ma trovo che sia un po' poco, nel senso che persino l'album della Firm era, pur nella sua bruttezza, un pochino più arguto in tal senso.
Altra cosa: il problema di questa gente è che persino all'interno del battle rap l'impostazione è sostanzialmente identica. In pratica ognuno di loro intende l'autocelebrazione allo stesso modo, e persino la logica delle loro punchline è fondamentalmente la stessa; ovviamente questo comporta un'omogeneità tale da essere accettabile per una o magari due posse cuts, ma per un disco intero? No. Ed infine, last but not least, a parte una minima di originalità nella scrittura mostrata in The One (in cui fanno giochi di parole, rime ecc. usando i nomi di gruppi rock), non vediamo nulla di tecnicamente più avanzato della forma "rima-rima-rima-punchline" o giù di lì. Cosa che in fin dei conti ti fa giungere alla fine dell'album -se uno ha la pazienza di farlo, s'intende- con addosso un velo di indifferenza che, nel momento in cui finalmente i quattro si aprono un po', ti fa dire "ma chemmifrega del vostro struggle, andate a fare nel culo!"
Ora, ammetto che forse sono un po' crudele, ma cosa ci volete fare? Alla fin fine l'ho pure comprato 'sto sottotazza ed ho tutto il diritto di smontarlo in tanti pezzi quanti sono gli euro che m'è costato. E se lo smonto con questa ferocia non è solo perchè il quartetto ha ampiamente dimostrato di non sapere da dove cominciare per fare un album a più mani, preferendo il pilota automatico "ché tanto sono bravo a rappare", ma anche perchè persino in quest'ottica miope non sono stati capaci di usare beat di qualche valore. Alla fin fine quelli che salvo, ma solo perchè per una volta tanto si prestano bene alle rappate, sono: Lyrical Murderers di tale Focus (semplice nota di piano, cupo, dal tono marziale); Microphone di Alchemist (batterie spezzate, giro di synth sinistro e campione di Rakim a far da ciliegina sulla torta); e, infine, Salute di Mr. Porter (il taglio blues del campione gli conferisce una certa sobria personalità). Stop. Per il resto vaghiamo o nel reame dell'anonimità oppure della cagata pura e semplice, con DJ Khalil che sorprendentemente svetta in questa disciplina (!): le sue The One e Cuckoo fanno incredibilmente pena, sia per la loro ripetitività che per la scelta dei campioni che, soprattutto, per la loro stupida fracassoneria fine a sè stessa. Non molto meglio va per Emile, anch'egli evidentemente rimasto intrappolato nel maelstrom della genricità che inghiotte tutto l'album; e se le sue Onslaught e Killaz sarebbero perlomeno passabili su un mixtape di uno scemo random di New York, spero di non sentire mai più le robe di Streetrunner se non su dischi di Juelz Santana o Smitty -tanto non li compro e almeno mi risparmio questo brodo di carenza d'orecchio, mancanza di gusto e personalità insulsa. E il resto? Passabile e basta, riempitivi che sarebbero accettabili in altri casi ma che qui non fanno nulla per risollevare le sorti di questa specie di mostro di Frankenstein musicale.
Insomma, per una volta tanto sono d'accordo con gli esiti commerciali: se Slaughterhouse non vende una sega nonostante il tam-tam mediatico è perchè è sostanzialmente un disco fatto male sotto pressoché tutti i punti di vista e che, personalmente, sconsiglio fortemente a chiunque abbia a cuore la salute delle proprie orecchie ma soprattutto dei propri testicoli. Tolte tre canzoni -di cui in realtà solo una mi piace davvero- il fallimento è pressoché totale, seppur in termini relativi. E sottolineo "relativi" per un motivo: perchè dopotutto, il minimo che si possa dire è che i quattro sanno rappare. Non c'è dubbio. Solo che non sanno fare canzoni e men che meno dischi, almeno come gruppo -paradossalmente, Bodega Chronicles o un Mood Muzik a caso si rigirano 'sta patacca come e quando vogliono, pur non essendo questi dei capolavori. Insomma, è solo per questa loro bravura tecnica che, in nome dell'oggettività, affibbio a Slaughterhouse un tre scarso; come esercizio di stile passa e si salva in zona Cesarini, ma come oggetto d'intrattenimento la sua unica fortuna è di avere una forma circolare e di poter perciò essere usato come frisbee al parco.




VIDEO: THE ONE

MIC GERONIMO - THE NATURAL (Blunt/TVT, 1995)

lunedì 28 settembre 2009

Tanto per abbandonare un po' le atmosfere più raffinate degli anni duemila, per l'occasione vorrei tornare a parlare del glorioso '95: ma non per scrivere di Liquid Swords, Cuban Linx, Infamous o altri (anche se so che prima o poi mi toccherà farlo), bensì di uno di quei dischi che pochi ricordano pur avendo vissuto in prima persona il periodo in questione. La scelta sarebbe potenzialmente vasta, ma siccome vorrei proporvi qualcosa che abbia pure un motivo d'interesse superiore alla media, credo che ripiegare su The Natural possa avere un senso, essendo questo oltretutto il contenitore di una delle canzoni più potenti di quell'anno, ovverosia Masta I.C.
Mic Geronimo, che oramai s'è distrutto da solo la propria (non sfavillante) carriera con due dischi francamente atroci, quattordici anni or sono era invece sulla bocca di molta gente proprio grazie al sopracitato singolo: in quel lontano autunno sembrava infatti che egli potesse essere un'altra di quelle nuove leve che avevano riportato in auge New York ed il suo suono negli anni immediatamente precedenti, e ciò grazie anche all'assistenza al campionatore di Buckwild e dei Beatminerz, ossia alcuni degli autori più affermati della Grande Mela. Come si suol dire, il Nostro aveva le carte in regola; ricordo del resto quando vidi la pubblicità di The Natural su una Source dell'epoca, e ricordo anche che persino io -nella mia allora abissale ignoranza- ero molto incuriosito da quel tale.
Inutile dire che, date le mie scarse risorse economiche dell'epoca, non ebbi modo di ascoltare The Natural in tempo reale; ma con solo un paio d'anni di ritardo sul periodo posso dire tranquillamente che ne feci l'esperienza in linea con lo Zeitgeist dell'epoca e questo, forse più di qualsiasi altro filtro culturale, può farmi dire con ragionevole certezza che la suddetta opera, a conti fatti, è caruccia ma nulla più. I difetti principali sono l'eccessiva similitudine tra Mic G e Nas, soprattutto come stile ma anche in parte come voce, e poi come beat: non che siano mosci o che, semplicemente s'assomigliano troppo l'uno con latro. Ecco, in breve questo è The Natural: un disco per una ristretta cerchia di appassionati, al di fuori della quale posso solo suggerire di dare un ascolto en passant, onde vampirizzare quelle tre o quattro canzoni capaci di risaltare in mezzo a tutti quei specimen di suono dell'underground nuiorchese di metà anni '90. Nella fattispecie, le tracce capaci di rientrare nella definizione di "particolare" sono senz'ombra di dubbio Masta I.C., Shit's Real, Time To Build ed infine Men VS. Many. Al di fuori di queste, il nulla. O, più esattamente, un insieme di pezzi legati l'uno con l'altro da strutture esageratamente semplici, consistenti fondamentalmente in campioni brevissimi, batterie quadrate e linee di basso esageratamente corpose che avvolgono il tutto come se fossero del Domopak.
In realtà, poi, l'inizio pare promettente: la title track ha un bel attacco in cui un campione überminimale abbastanza piacevole è accompagnato da scratch, e la performance di Mic G porta a pensare che ci troviamo di fronte ad un MC come minimo competente, se non addirittura bravo. Tuttavia, con Lifecheck cominciano a sorgere i primi dubbi inerenti la caratura del disco: che si possa trattare di una mattonata nei coglioni? Parrebbe proprio di sì, perchè la produzione dei Beatminerz è esageratamente semplice e a livello lirico nulla riesce ad attirare l'attenzione (eccetto il fatto che la seconda strofa pare scritta da Nas stesso); e non meglio va con la successiva Wherever You Are, che coi suoi quattro minuti di durata sferra un colpo semiletale al basso ventre.
Poi, finalmente, arriva il punto focale di The Natural: Masta I.C. Prodotta da Buckwild, questa è una delle sue migliori produzioni dell'epoca, in quanto pur usando quattro elementi (basso, batterie, campione principale di vibrafono e secondario di trombe) egli li unisce facendo sembrare il tutto infinitamente complesso; inoltre, qui Geronimo fa scorrere la sua voce melliflua e le sue rime multisillabiche in maniera tale da farle letteralmente fondere con il beat. Capolavoro? Sì.
Ma prima di passare ad un'altra delle "sveglie" di The Natural ci tocca sorbirci la passabile Man Of My Own -materiale standard da '95- più un'odiosa outro parlata di quasi un minuto; perchè, sì, non ve l'avevo ancora detto ma secondo Mic G apporre degli appendici parlati/recitati della durata minima di 30 secondi a quasi ogni canzone è una brillante idea. Geniale. Per fortuna, però, come attacca Time To Build la storia cambia: sulla produzione in assoluto più movimentata di The Natural, il Nostro scambia strofe con DMX, Ja Rule e Jay-Z. Il beat inizialmente sembrerebbe essere cucito su misura per gli stili già allora molto simili di Ja e Earl Simmons, ma alla fine chi ruba lo show è un Jay-Z che rispetto a solamente un anno prima fa numeri con il flow veramente da applausi. Oggi come oggi un pezzo simile suonerà senz'altro datato, ma ciò nonostante lo reputo davvero solido e, se si sorvola sull'ironia che la sorte ha riservato all'ospite (che ha ospitato tre future superstar senza venir mai ricambiato), merita senz'altro una menzione tra le canzoni più degne di tutta la sua carriera. Idem per Shit's Real, fondamentalmente il primo vero singolo di Mic G che poi gli ha permesso di ottenere un contratto discografico: ciò non stupisce, in quanto questo aveva le potenzialità di un crossover grazie al campione di Free di Deneice Williams (lo stesso usato l'anno successivo dai Twinz per Eastside LB) e, nuovamente, la rappata lasciva ed al contempo tecnica di Geronimo riusciva a nobilitare un pezzo che all'epoca sarebbe facilmente potuto passare per, ullallà, "commerciale".
Una tentazione, questa di aprirsi alle radio, che il Nostro evidentemente ha seguito una volta sola: perchè per il resto The Natural prosegue sulla via dell'hardcore più puro. E se può far storcere il naso il fatto che Three Stories High sia quasi un plagio di Come Clean in termini di beat (ben riuscito, per carità, però davvero sfacciato), Men VS Many ha una dignità intoccabile: sia per la base, curata da dei Beatminerz stavolta in piena forma (bel giro di basso, bel campione, belle batterie... materiale di prima scelta, insomma), sia soprattutto per l'unione di Mic Geronimo, il compare Royal Flush e l'inossidabile O.C. Questo terzetto, che già sulla carta piace, non si accontenta semplicemente di suddividersi le canoniche tre strofe di cui è composto il 99% delle canzoni rap ma si lascia andare a continui scambi di microfono, eseguiti con una perizia e con un tempismo perfetti. Personalmente reputo questa la canzone migliore del disco a fianco di Masta I.C. nonché uno dei pochi validi motivi per cui vale la pena di ascoltare quest'album.
L'altro motivo valido potrebbe essere semplicemente un interesse storico -che sarebbe poi il motivo per cui in via del tutto ipotetica ancor'oggi mi comprerei una copia del disco. Ma, appunto, tolti questi due non c'è molto; infatti, dopo Men VS. Many l'interesse precipita per assestarsi attorno allo zero e questo, associato al fatto che non è l'unico momento fiacco dell'album, compromette l'ascolto nel suo complesso in maniera pressoché irreparabile. La poca originalità di Mic G come rapper e la genericità di troppe basi affossano il piacere potenziale che si potrebbe provare e quindi, benché l'album sia indubbiamente il migliore mai inciso dal Nostro, e malgrado contenga alcune cose indubbiamente valide, non me la sento di consigliarlo più che tanto. Ma se siete fanatici, un ascolto dateglielo.




VIDEO: MASTA I.C.

KEV BROWN - I DO WHAT I DO (Up Above, 2005)

venerdì 25 settembre 2009

Diversamente dalle mie abitudini, stasera mi trovo esiliato in cucina mentre la mia ragazza dà il definitivo addio ai suoi neuroni guardando una qualche serie televisiva americana in cui un gruppo di persone, la cui composizione socioculturale è più prevedibile che nel Grande Fratello, finge di vedere una missione superiore nello svolgere mansioni assolutamente normali come per esempio biopsie, indagini criminali o autopsie. Impossibile non tracciare una linea diretta tra questa immensa presa per il culo e l'atteggiamento egocentrico della stragrande maggioranza dei rapper, che evidentemente credono che senza di loro il mondo non sarebbe più lo stesso. Poi, per carità, il fatto che loro probabilmente ci credano e si sforzino di darlo a vedere rende il tutto irresistibile, contrariamente al palpabile cinismo dei telefilm, ma che dire? Ogni tanto un po' più di modestia non guasterebbe. Benvenuti allora nel mondo di Kev Brown, un uomo che non si vergogna di dire che fa i beat nella sua cameretta e che gode di sufficiente autostima da potersi permettere di registrarli alla RIAA sotto il nome di Low Budget Productions.
I Do What I Do è, se non sbaglio (non ho internet, sul portatile), il suo disco d'esordio e malgrado la sua modestia il risultato fa pensare a tutto fuorchè ad un budget basso. Volendo infatti partire da questioni differenti dal solito rapporto beat/liriche, i risultati di Kev al campionatore e al tavolo di mixaggio sono sorprendenti: per il sottogenere di cui IDWID fa parte, è una delle cose mixate meglio che abbia mai sentito. Rullanti, casse e quant'altro suonano belli secchi ma comunque corposi pur avendo un quid di "sporcizia", mentre i campioni sono sì puliti ma si fondono divinamente in alcune delle linee di basso più gorde che abbia sentito negli ultimi anni. Non a caso, il paragone classico -stavolta azzeccato- vuole che Kev Brown sia uno dei pochi capaci di riprendere in mano l'eredità del Pete Rock circa '94-'96, quello che, per intenderci, spesso si concedeva a beat sui 95bpm dove il sound cosiddetto "organico" andava a sostituire la richiesta ruvidezza ed aggressività dell'epoca. A dire il vero, certe di queste basi sono così derivative che si potrebbe essere portati a pensare che Kev Brown ritenga Pete Rock non un artista, bensì un genere musicale, ma insomma... mi parrebbe ingiusto condannare che si ispira a produzioni molto difficili da replicare con successo se si glissa su altri che scopiazzano in modi ben più evidente formule meno complicate.
E poi, a differenza di Pietrino Roccia, il Nostro sa rappare in maniera egregia: nulla per cui valga la pena di stracciarsi le vesti, s'intende, ma comunque la sua voce baritonale e la sua tecnica semplice ma pulita bene s'accompagnano a beat lenti, intrisi di fusion e soul fino al midollo (anche se qualche timido accenno di funk nella scelta dei campioni si trova). Le tematiche, al contrario, sono ultrageneriche e grossomodo parlano tanto di hip hop in maniera indiretta -a tal proposito fa sorridere che il Nostro nel booklet si sia premurato di spiegare nel dettaglio i vari concetti. A quando Twin Gambino?- ma ciò, se si è amanti del genere (e per conoscere Kev Brown lo si dev'essere per forza) non nuoce affatto all'ascolto. Inoltre, la scelta di chiamare a sè amici che sappiano rappare meglio di lui, come Grap Luva, Kenn Starr, Cy Young e Phonte, aiuta nel proseguo dell'ascolto pur essendo tutti fatti sostanzialmente della stessa pasta da presibbene. In breve: senza infamia e con qualche lode.
Au contraire, sul versante del beatmaking le lodi si sprecano: come già detto, il maggior talento di Kev consiste nel saper creare beat organici con rara efficacia, riuscendo a scegliere campioni in sè molto brevi che sovente vanno però a sovrapporsi l'uno con l'altro. L'origine di questi pare essere grossomodo sempre la stessa, ovverosia fusion e soul (scusate la ripetizione), e se dico "grossomodo" è perchè dal mio basso trovo le sue scelte piuttosto originali. Il lavoro compiuto rende difficile tracciare le origini dei sample e, quando il risultato finale funziona, questo è per me ulteriore motivo di plauso. Ma a colpire più d'ogni altra cosa è la ricchezza del suono, che copre praticamente tutto lo spettro sonoro e dove ci viene data la possibiltà di sentire alcuni giri di basso che definire strepitosi è poco. Ora: se ci avete caso, non ho fatto nomi; la qualità è infatti piuttosto omogenea, e tuttavia trovo che alcune di queste tracce abbiano semplicemente una qualche marcia in più. Personalmente, trovo che a brillare particolarmente siano Say Sumthin' (il loop di piano è fantastico), Outside Lookin' In (la scala di basso regge tutto il pezzo, e scusate se è poco), Struggla's Theme, Albany e la prima delle due ghost track. Ma ovviamente questi sono quasi più gusti personali che apprezzamenti fondati su basi quanto più possibile oggettive...
Cosa? Il valore di un pezzo dipende più dal gusto dell'ascoltatore? L'ho davvero scritto? Ebbene sì: diciamo infatti che l'omogenea qualità è in questo caso il maggior difetto dell'opera. Detta altrimenti, la questione è che molti beat sono fondamentalmente identici nella loro essenza; se si vuol essere molto critici, si potrebbe quasi dire che, più che un insieme di quindici canzoni diverse, I Do What I Do sia un'unica canzone suddivisa in quindici segmenti solo lievemente diversi. E non lo dico per superficialità: in fin dei conti conosco questo disco fin dal momento della sua uscita e ammetto senza problemi che sia un ascolto impegnativo, al quale si deve dedicare tempo ed attenzione per poterlo apprezzare nelle sue sfumature (che certamente ci sono), ma basta che lo si ascolti con un minimo deficit d'attenzione per confondersi e pensare -salvo tre o quattro eccezioni- "ma questa è Outside Looking In oppure Beats And Rhymes?". Eccessivamente omogeneo, ecco qual è l'unico vero problema di IDWID e l'unico versante in cui KB mostra una certa immaturità.
Per il resto non me la sento proprio di criticare più che tanto quest'album; sicuramente, il Nostro è dotato di talento (anche se nei lavori successivi è spesso scaduto nella più becera autocitazione) ed il suo stile di produzione vintage è malgrado tutto particolare. Ciò nonostante, non me la sento di consigliare I Do What I Do a persone che non siano estremamente benevolenti nei confronti del Pete Rock di Caramel City, perchè è bene che sappiate che qui troverete fondamentalmente 15 variazioni sul tema. Sarebbe un tre e mezzo, ma sia per incoraggiare il Nostro, sia per valorizzare la mia stessa esperienza d'ascolto (oh, la musica non invecchia tanto che me lo sono comporato originale con ben 4 anni di ritardo) gli regalo quel mezzo voto in più. Non per tutti, ma da provare.



TRIFE DIESEL - BETTER LATE THAN NEVER (Traffic Ent., 2009)

giovedì 24 settembre 2009

Talvolta mi risulta impossibile riuscire ad esprimere fino in fondo il mio giudizio o, più modestamente e correttamente, la mia opinione su un disco, specialmente se questo non possiede qualità tali da poterlo definire un classico a tutti gli effetti. I problemi sorgono insomma quando mi trovo per le mani un concentrato di beat e liriche che, pur nella sua palese imperfezione, inspiegabilmente riesce a competere sullo stesso livello di dischi fatti meglio: nella fattispecie, qualcuno sa suggerirmi un motivo per cui in quest'ultimo periodo mi trovo ad ascoltare Better Late Than Never con la stessa frequenza di quel capolavoro che è Cuban Linx II? È l'aria? Sto rincoglionendo? Oppure può essere che abbiamo tra le mani un gioiellino? Calma.
Cominciamo col dire che l'affiliazione di Trife a Ghostfazza gli è valsa un'iniziale spinta di popolarità ma, alla lunga, gli ha recato ingenti danni in termini di riconoscimento. Vedete, la linea tra l'essere un "protetto di" ed un "portaborse di" è molto sottile, e tanto più cresce lo spazio temporale in cui non si dimostra inequivocabilmente la propria specificità, tanto più ci si trasforma da "interessante promessa" a "insulso weed carrier". Di conseguenza, diventa anche più difficile convincere i pochi interessati rimasti che si vale qualcosa; ecco, la carriera di Trife è una cartina di tornasole per questo teorema.
Egli infatti bazzica dalle parti di Tony Starks fin dal lontano 2001 e, per quanto in realtà sia assorto agli onori della cronaca solamente nel 2004, principalmente grazie alla sua eccezionale strofa in Biscuits, questo è già un considerevole periodo temporale; aggiungiamoci poi che, malgrado ottime prestazioni ovunque si fosse presentato, sembrava che di suo non dovesse uscire più nulla ed ecco che viene incisa nella pietra della storia la seguente massima: non puoi essere una promessa per più di due anni. Tuttavia, è anche vero che in realtà qualche lavoro più completo l'ha anche fatto (gli LP con la Theodore Unit ed il disco "alla romana" con Ghost), ma di solista in questi non c'era nulla e quindi torniamo al punto di partenza. Vi confesso che persino io, che non avevo mai cambiato la mia opinione su di lui, ad un certo punto mi son detto "vabeh un altro balordo" ed avevo smesso d'interessarmi alla sua opera.
È stato solo per omaggio ai suoi trascorsi -ed alle mie passate opinioni- che ho deciso di spendere un po' del mio tempo per ascoltare il suo esordio solista ufficiale e per dargli quindi una chance. Alla fine il titolo Better Late Than Never aveva riscosso in me una certa simpatia e la recensione che lessi su HipHopDx, anche se non confortante, qualche curiosità me l'aveva instillata. Vai di Rapidshare, quindi: al primo ascolto m'era parso insignificante come beat, carino come liriche; al secondo qualcosa avevo trovato ma non tanto da farmi dire "bello"; il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto invece ebbero luogo mentre passavo il mocio in casa [no homo, ci passerete anche voi e comunque ora s'è presa la donna delle pulizie] e in quell'altrimenti infausta situazione mi son reso conto che, fanculo, 'sto Better Late Than Never non era mica malaccio. Bene: salto ovviamente gli altri ascolti e giungo direttamente alle conclusioni, ossia la recensione e la valutazione.
Sappiate innanzitutto che in BLTN non troverete particolari estri o sperimentazioni di alcun genere ma solamente del rap fatto nel modo più classico possibile, ovverosia beat quadrati midtempo su cui una persona rappa stando fisso sui 4/4. Ma prima di storcere magari il naso, calcolate che per quanto possa essere difficile trovare nuovi stili e renderli efficaci senza alienare l'ascoltatore, anche buttarsi sul classico non è così facile, essendoci talmente tanta roba in giro che per svettare bisogna raggiungere un grado di raffinatezza fuori dal comune. Per usare una metafora scema delle mie, diciamo che persino dopo più di trecento anni di esperienze, i posti dove si può mangiare un buon risotto a Milano sono pochi (BTW: uno di questi, e dove non si viene derubati, è la Taverna Moriggi. Casomai v'interessasse). Ecco, Trife ha qui cucinato un risotto non eccellente ma gustoso e abbondante. Poco più di un'ora di durata per sedici brani e nessuno skit, featuring mediamente azzeccati (Ghost, ovviamente, ma anche Freeway, Termanology, Royce The 5'9'' e purtroppo qualche amichetto di troppo) ed una enorme iniezione di note autobiografiche che vanno a diluire positivamente un album in cui si può trovare anche dello storytelling, delle riflessioni mai abbastanza ripetute sull'hip hop e chiaramente la tradizionale strìt laif. La versatilità dimostrata nella scelta degli argomenti si riflette per fortuna anche nell'esecuzione materiale del tutto e così, fatte salve un paio di tracce ghettuse secondo me piuttosto generiche, ascoltare quest'album è interessante oltre che piacevole. La sensazione che Trife stia abbaiando salta fuori solo nei pezzi più orientati alla spacconeria di grana grossa, e questo in fondo non dovrebbe stupire nessuno.
Ma vediamo nel dettaglio cosa cuoce in pentola e vediamo se quest'album sa essere, nel suo complesso, un'opera personale oppure la solita robetta da emergente fallito. Prima di tutto affronterei la questione dei pezzi ghettus-generici, e comincio col lamentarmi del fatto che su troppi di questi figurano due personaggi che coi microfoni dovrebbero aver poco a che fare: Kryme Life e Tommy Whispers. Quest'ultimo, in particolare, ha uno "stile" che si pone a metà tra 60 Sec Assassin dei Sunz Of Man e Islord dei Killarmy, quindi non è esattamente bravo; non a caso, quasi ovunque egli appaia, la canzone del caso subisce una tremenda battuta d'arresto. Questo è il caso di Prey VS Predator, in cui si potrebbe anche perdonare un beat generico e delle strofe non proprio ispirate, ma che diventa una cacatiella da cestinare non appena attacca il suddetto Tommaso Sussurri: fiacco, fiacco, fiacco. Idem come sopra per Listen Carefully, analogamente moscietta come beat ma con come "marcia in più" prestazioni imbarazzanti addirittura da parte di entrambi i soggetti. Queste sono senz'ombra di dubbio le tracce peggiori di BLTN e già al primo ascolto appare chiaro che Trife dev'essere molto amico dei due, perchè oltre all'amicizia non c'è motivo per cui questi due dovrebbero trovarsi insieme sulla stessa traccia.
E dico "sulla stessa traccia" perchè, per dinamiche a me del tutto incomprensibili, quando li separi i risultati improvvisamente diventano nettamente migliori: è il caso di Direct From The Ghetto e Stronger Man, due canzoni nient'affatto malvagie dove oltre a delle performance immensamente più dignitose si assiste ad un minimo di direzione concettuale. Certo, continuano ad impallidire di fronte a Trife, ma rispetto agli echi di disgusto provocati in precedenza parrebbe quasi di sognare. Ovviamente, però, avrei lo stesso preferito o più tracce soliste oppure più featuring azzeccati, anche perchè è lì che il protagonista dà il suo meglio: contrariamente alle previsioni, infatti, Ghostface non riesce a stracciare il suo alunno, che anzi, in Respectfully sgancia due strofe eccezionali con giochi di parole ed una lunga alliterazione che a momenti fanno scordare l'esistenza di Tony Starks. Lo stesso avviene in Project Leaders, dove fa letteralmente a pezzi Termanology (uno che tra l'abuso del namedropping e lo stile semisussurrato fa cagare ogni giorno sempre di più), e solamente un ispirato Freeway ci blocca dal pensare che forse sarebbe stata meglio una maggiore lunghezza a disposizione del solo Trife. Già: alla fine della storia l'unico capace di dare la paga a Trife è Royce The 5'9'' -autore di una strofa eccezionale in Powerful Minds- mentre per il resto devo dire che raramente ho visto un esordiente comportarsi così bene.
Ma oltre a queste tracce, la cosa più interessante è la passione che il Nostro sa mettere nei pezzi. Lo storytelling di Blind Man non solo è fatto bene nella prima parte, ma anche l'omaggio che egli fa a Ray Charles, Stevie Wonder ed altri nella seconda risulta sentito; un analogo pathos lo si trova ovviamente nella dedica a mammà, com'è ovvio, ma anche in pezzi meno intimisti come per esempio la FAQ per aspiranti rapper che è Wanna Be A Rapper. Ma non è finita qui: critica sociopolitica la si trova in World Today, ed il risultato è ammirevole specie se si considera che lui non è esattamente specializzato in questo genere di cose, così come ammirevole è l'autocritica e lo scambio di vedute tra lui e tale Slash (una MC, contrariamente a quanto farebbe pensare il nome); siamo lontani mille miglia dal machismo tipico del genere, e trovo che per uno come sembra essere Trife mettersi così in gioco meriti un giusto plauso.
Mi rendo ora conto che la recensione sta assumendo le dimensioni d'una enciclica papale, per cui la smetto con 'aspetto lirico, del quale posso dirmi più che soddisfatto, e vado ad occuparmi dei beat. Questi sono curati da gente a me completamente sconosciuta, come DJ Snips, Lee Bannon, Noize Thievery... boh, non ho punti di pragaone con eventuali opere, perciò mi limiterò allo stretto essenziale. La parte del leone la fa tale Blunt, che con cinque produzioni da lui curate è indubbiamente il beatmaker prominente dell'album; fortemente influenzato dal soul, le sue opere riflettono quest'ispirazioni e anche se la formula appare ormai un po' abusata egli riesce lo stesso ad esibire pregevoli tappeti musicali come ad esempio Blind Man (ottimo il loop di piano), Project Leaders e Direct From The Ghetto. Le sue atmosfere ci trasportano direttamente nella New York di Superfly, ma fortunatamente questo taglio vintage viene alleggerito da altri contribuenti come appunto Snips, decisamente più orientato al pestone e autore fra l'altro dell'ottima We Get It In, oppure Animal House, autori della suggestiva Stronger Man ed invece assai influenzati dal miglior Kanye West (vedi ad esempio la struttura delle batterie). Questi pezzi sopraelencati non sono gli unici degni d'una menzione, ma per farla breve, ad eccezione di due colpi andati a vuoto -fortunatamente le canzoni con su quei due mentecatti, così perlomeno la merda si concentra in due latrine anzichè venir sparsa per tutto l'accampamento- il resto di Better Late Than Never è assai ben prodotto. Non si può forse parlare di originalità, ma è fuor di discussione che oscilliamo piacevolmente tra atmosfere ruvide e l'eleganza di alcuni tocchi, con un risultato finale ch reputo ben più che semplicemente soddifacente.
Alla luce di queste considerazioni vi esorto quindi a non commettere l'errore di bollare Trife come una merdina, perchè il ragazzo si è sforzato sotto ogni punto di vista ed il risultato è davvero molto, molto buono. Contrariamente a Termanology, che nel suo album ha tradito praticamente tutte le aspettative, e contrariamente a Saigon, che ha fatto perdere la pazienza pure ad un monaco benedettino, il Nostro ha compreso perfettamente che se voleva tornare ad essere "il" nome da tenere d'occhio doveva pubblicare qualcosa di superiore alla bontà. E così ha fatto, ed ora spetta solo a voi dargli questa chance - come già detto, l'unica sua sfortuna è la quasi concomitanza con Rae ma, vi garantisco, non è che arranchi di molto dietro all'opera dello Chef.



SHOW & AG - FULL SCALE LP (Fat Beats, 2000[?])

mercoledì 23 settembre 2009

Scusatemi per il ritardo nell'aggiornare il blog, ma stamattina la situazione lavorativa è stata infuocata; inoltre, avevo già preparato la recensione di Trife (che mi sarebbe dovuto arrivare assieme a Cuban Linx II già ieri) e che però per motivi tecnici ha dovuto essere posticipata a domani. Poco male; per sdebitarmi vi propongo allora un disco realmente imperdibile, ovverosia il Full Scale LP di Show & AG. Ma prima di addentrarmi in una descrizione maggiormente dettagliata, un po' di storia.
Quando nel 1998 venne pubblicato l'omonimo EP, io avevo già sentito Q&A via internet e ne ero rimasto talmente entusiasta che la sola presenza di quella traccia mi spinse ad acquistare per l'occasione un giradischi, oltre ovviamente al vinile: non era infatti prevista, o quantomeno disponibile, una versione in CD. A questa mancanza provai a supplire io, trasferendo le tracce su CD; ma siccome non è che fossi proprio un genio dell'elettrotecnica, non ero riuscito a risolvere un banale problema di messa a terra che andava a concretizzarsi nel tipico ronzio sui 50hz e che, ancora più concretamente, rovinava in modo non indifferente il piacere dell'ascolto. Fortunatamente, un mio amico più esperto mi aiutò a collegare correttamente il piatto all'amplificatore e così finalmente potei avere delle versioni degne d'ascolto su CD. Tuttavia, quando nel 2001 feci il mio viaggio negli Stati Uniti e, ovviamente, andai in pellegrinaggio al Fat Beats, vidi questo LP ed immediatamente sborsai le du' lire che erano richieste per l'acquisto.
Il motivo di quest'azione si può ravvisare senz'altro nel mio collezionismo compulsivo, ma soprattutto nel fatto che quello che si presenta come un'estensione del precedente EP altro non è che una raccolta su CD di svariati 12" pubblicati dal '98 al 2000 [*] in cui era coinvolto il duo del Bronx, oltre naturalmente alle cinque tracce originali. Accanto quindi alle varie Q&A, Spit eccetera, potremo trovare Themes Dreams & Schemes, Dignified Soldiers, Weekend Nights (qui elencata come Spit Remix) e persino il primo singolo ufficiale dei Ghetto Dwellas, con tanto di b-side e annessi e connessi. Ne consegue che se da un lato il titolo è fuorviante e truffaldino, dall'altro si ha la possibilità di mettere mano su alcune delle cose migliori della DITC ad un costo esiguo e con il vantaggio di una qualità sonora impeccabile.

[*] Andando su Discogs potrebbe sorgere un po' di confusione, in quanto quest'album viene datato al 1998 e non essendoci alcun tipo d'indicazione sul disco stesso non c'è modo di fare una verifica inconfutabile. Io però trovo che questa datazione sia erronea, principalmente per tre motivi: il primo è che il 90% dei pezzi che reputo essere degli extra sono usciti come singoli e b-side degli stesso (Themes Dreams & Schemes, Time To Get This Money, Get it Dirty, Hidden Crates, Who's The Dirtiest), ed una simile logica non avrebbe alcun senso se la loro origine fosse una sola; il secondo, che diversi di questi risalgono al '99 e per giunta tutti per etichette diverse, il che sarebbe impossibile se la paternità fosse una sola; il terzo, infine, che questi appunto non figurano mai come prodotti di Show & AG bensì come roba della DITC, dei Ghetto Dwellas, di Giant... insomma, per me sia Discogs che Wikipedia hanno preso un abbaglio. Ergo, devo dedurre che in realtà il Full Scale LP sia del 2000 e non del 1999, men che meno del '98, visto che non avrebbe molto senso fornire una raccolta di canzoni nell'anno stesso in cui queste sono state pubblicate in altri formati. Chiusa parentesi.

Cominciamo quindi a magnificare quel che dev'essere magnificato, partendo proprio dall'EP originale. Come già detto, e com'è ovvio, qui ritroverete tutti i pezzi presenti nella versione del '98 ad eccezione delle strumentali; la tracklist non è identica ma poco importa, dato che nel corso dell'ascolto ci si potrà imbattere in Drop It Heavy, Raw As Ever, Q&A, Spit e la stessa Full Scale. Di questi cinque pezzi non so davvero cosa dire, nel senso che sono tutti delle chicche indiscutibili. I beat rientrano nella miglior tradizione della scuola DITC, suonando minimalisti e potenti allo stesso tempo, con poche o nessune concessioni all'orecchiabilità; da questa prospettiva spiccano soprattutto Spit, autentico capolavoro di beatmaking, e l'altrettanto fantastica Q&A, che recentemente ha visto una rivisitazione non ufficiale da parte di Marco Polo e Torae nell'ottima Lifetime (il campione è lo stesso e l'effetto finale pure). Come liriche anche qui ci siamo, nel senso che AG in quel periodo era secondo me all'apice del proprio percorso creativo, il che comporta un equilibrio tra la sua particolare enunciazione (che era molto forte in Goodfellas) e la complessità della metrica. Pur non spingendosi al di fuori dei confini del meta-rap, è impossibile non restare affascinati dalle sue strofe ed alla fine gli unici capaci di distogliere la nostra attenzione dal suddetto sono nientemeno che KRS One e Big Pun, che contribuiscono ad aggiungere Drop It Heavy alla lista delle canzoni migliori dell'insieme. Insomma, come nota a margine (ma nemmeno troppo) vorrei puntualizzare che non solo conferirei il massimo dei voti all'EP, ma aggiungo anche che esso è secondo me uno dei tre migliori extended playing di sempre.
Venendo invece ora al resto del materiale, la qualità in questo caso diviene più ondivaga restando pur sempre in fascia alta. Dignified Soldiers (sia remix che originale), Time To Get This Money e Weekend Nights sono ad esempio eccezionali, mentre invece Hidden Crates, Put It In Your System, Who's The Dirtiest e Themes Dreams & Schemes lo sono meno. Questo dipende sia dai beat, che magari colpiscono meno oppure rischiano di scivolare nella ripetitività, sia dagli ospiti: in effetti, per quanto mi piacciano i Ghetto Dwellas non si può certo dire che siano dei mostri del microfono, e se Party Arty riesce a compensare le sue lacune grazie alla voce ed al carisma, D-Flow non ha grandi appigli che gli consentano di uscirsene a testa alta in un confronto con AG. E ciò diventa deleterio le poche volte in cui la base non è molto solida, com'è il caso di Get Dirty, indubbiamente il pezzo meno valido dell'insieme assieme a Hold Mines: quest'ultima è infatti retta dall'abilità di AG e così riesce a salvarsi in corner, mentra la prima presenta un beat fiacchetto in cui il duo d'ignoranti francamente dimostra di non avere abbastanza forza per reggere da solo una canzone.
Ma vogliamo star qui a spaccare il capello in quattro? No: poche balle, Full Scale è un quasi-capolavoro che deve, sottolineo il deve, trovarsi in ogni collezione di rap che si rispetti. E, contrariamente a quanto pensavo di fare inizialmente, mi spingo oltre il quattro e mezzo e gli affibbio lo status di classico. Eccheccazzo.



BIG L - LIFESTYLEZ OV DA POOR & DANGEROUS (Columbia, 1995)

lunedì 21 settembre 2009

Chissà perchè ero convinto che Lifestylez Ov Da Poor & Dangerous fosse del '94! In metrò avevo dunque cominciato a buttar giù due idee su come scrivere un'introduzione d'impatto, atta eventualmente a far scordare le sciocchezze che l'avrebbero seguita, e invece ora mi trovo con in mano un pugno di mosche. Pazienza: fatto sta che all'epoca dell'uscita la Columbia lo promuovette come la chiesa può pubblicizzare la pedofilia tra i preti, con la prevedibile conseguenza che le vendite furono quantomeno deludenti malgrado il buon successo di critica che ricevette (salvo ovviamente Rolling Stone, che puntualmente dimostrò un'ennesima volta di non capire assolutamente nulla di rap). Dal canto mio, ammetto che rimasi all'oscuro dell'esistenza di quest'album finchè un giorno, nel lontano '98, dopo aver sentito Ebonics da un mio amico, scorsi il CD tra gli scaffali del defunto TimeOut e decisi di comprarlo.
Ebbene: benché all'epoca non avessi ancora il fiuto sopraffino che oggi mi contraddistingue, ben feci a spendere quelle (circa) quarantamila lire: LODPAD rimase in assidua rotazione su cassetta per i successivi due anni, facendosi apprezzare prima per i pezzi più orecchiabili ed in seguito per quelli un po' più ostici, lasciandosi infine alle spalle solamente un due-tre canzonette passabili ma nulla più. Sono inoltre abbastanza contento di averlo sentito prima del postumo The Big Picture, in quanto quest'ultimo, non entusasmandomi, difficilmente m'avrebbe portato a spendere dei soldi su altri prodotti di Lamont Coleman. Così, invece, non solo ho avuto poi modo di seguirlo con maggore interesse per il breve periodo in cui era ancora in vita, ma soprattutto ho avuto modo di gustarmi un bel disco della DITC praticamente in tempo reale e senza farmi influenzare dall'idolatria che puntualmente segue l'eventuale morte di un artista.
Il punto infatti qual è: è che Lifestylez è indubbiamente un buon album -anche se posto nel florido contesto dell'epoca- ma privo comunque della stoffa necessaria per renderlo un classico come Word Life o quantomeno un'opera impeccabile. E questi difetti si manifestano non tanto nell'MC, che già allora era bravissimo, quanto nei beat, molti dei quali possono essere al limite essere definiti "ok" o poco più. Ciò detto, che poi il sound datato del disco possa piacere è fuor di dubbio, ma nel momento in cui certe produzioni mostrano segni di debolezza non appena le si contestualizza correttamente ecco che ci si allontana dal voto pieno, che pure in molti vorrebbero dare a quest'opera.
Lo ammetto, per carità, da un lato io li capisco pure: Put It On, MVP, All Black, Danger Zone, Street Struck e Let 'Em Have It L sono sei pezzoni cha vanno dal molto bello al fichissimo e, ragionevolmente, si può pensare che se sei tracce su dodici sono così valide, allora è fatta. E invece no, perchè purtroppo vi sono casi relativamente gravi dove è il beat ad essere a dir poco obsoleto (No Endz No Skinz sembra del '91) o insipido (I Don't Understand It, Fed Up With The Bullshit), oppure dove gli ospiti del caso sono troppi (8 Is Enuff, nomen est omen) mentre quand'anche il numero giusto, allora è la strofa in quanto tale a far cagare (e quella di Jay-Z in Da Graveyard se la gioca con quella di tale Microphone Nut). Per un verso o per l'altro, insomma, non è molto chiaro come mai beatmaker solitamente eccelsi come Showbiz abbiano potuto passare a L delle semifetecchie, così com'è ancora meno chiaro il motivo per cui quest'ultimo abbia ritenuto fondamentale invitare a rappare tutta la gente che si vede sulla copertina (praticamente il suo condominio) -seriamente, dei featuring salvo solo Finesse, Grand Daddy I.U. e per certi versi tutta la cricca di 8 Iz Enuff, visto che rappano allo stesso modo caratteristico del periodo (non so se possa essere un complimento, però). Insomma, la prossima volta che sento o leggo qualcuno descrivere Lifestylez come un classico alla pari di Infamous o Illmatic io lo investo sette o otto volte con una ruspa.
In fondo non c'è bisogno di idolatrare alcunché: LODPAD regge benissimo sulle sue gambe, grazie soprattutto ad un MC per certi versi ancora immaturo ma che già in quel '95 dimostrava di poter pisciare in testa all'80% della scena. La sua tecnica non solo era pulitissima e da un punto di vista oggettivo impeccabile -in cui considero il controllo del respiro, l'uso della voce e delle pause ecc.- ma era anche caratterizzata da uno humor nero che, misto a sarcasmo ed arroganza (ed un'ottima immaginazione, va detto), rendevano L ammirabile e divertente allo stesso tempo. Le citazioni si potrebbero sprecare, ma che senso avrebbe? Il punto è che Lamont Coleman era capace di riassumere in sè quelle qualità fondamentali che rendono potente un MC e che, in fondo, definiscono l'hip hop. Non a caso, pur non allontanandosi di un'orma dalle tematiche più classiche del genere (viulenza, droga, fica, vitadimerda ecc.) questo suo esordio è godibile dall'inizio alla fine puramente per l'aspetto estetico, quello della forma. E per quanto io solitamente non disdegni ascoltare temi più impegnati, non posso negare che questo èuno dei (nemmeno poi troppo) pochi casi in cui si può dire che nel tempo è la forma a vincere sui contenuti.
Di conseguenza, benchè vi siano, come ho detto, beat più che discutibili, alla fin fine Lifestylez gira che è un piacere. E poi non scordiamo che le perle ci sono: sia che si ascoltino le trombe col delay di Street Struck che il classico campione dei DeBarge di MVP, alla fin fine quello che ci si trova in mano è uno di quei curiosi esperimenti di quell'epoca, dove persino gente con la fama degli alfieri dell'hardcore come Finesse o Buckwild riescono a dare un taglio più commerciabile alle loro produzioni. MVP, appunto, ne è l'esempio migliore; ma da questo punto di vista anche Put It On o la stessa Street Struck hanno il loro potenziale di orecchiabilità. Tuttavia non dovete temere: non solo all'epoca anche le cose più "aperte", diciamo, avevano una loro dignità (cfr. Juicy, il remix di All I Need, I Got 5 on It... hai voglia), ma oltretutto qualsiasi fanatico del minimalismo nuiorchese quà dovrebbe trovare pane per i suoi denti. All Black ha un campione che definire ossessivo/angosciante è dir poco; le batterie di Let 'Em Have It L, col solito sax nel ritornello, portano alla frattura del collo entro la fine della prima strofa; e anche Da Graveyard non si difende male, e rende parecchio a patto che sia su un MC degno di questo nome (a tal proposito: la strofa iniziale di L è da applausi).
Ma questi sono solo alcuni esempi degli aspetti positivi di questo disco; a quei pochi che non lo dovessero avere mai ascoltato posso solo dire che sembra un gioco di scatole cinesi, dove prima noti le cose più evidenti e poi scendi sempre più nel dettaglio, via via scoprendo elementi positivi dove fino ad una settimana prima pensavi non ci potesse essere nulla. Tuttavia, malgrado tutti i sopracitati pregi, è anche vero che un paio di beat fuori posto, abbinati ad una logica di featuring completamente sballata, rovinano LODPAD quel tanto che basta per sgargli via un intero zainetto. Ma non azzardatevi ad ignorarlo.




VIDEO: PUT IT ON

JERU THE DAMAJA - THE SUN RISES IN THE EAST (Payday/FFRR, 1994)

venerdì 18 settembre 2009

Dacché ho aperto il blog ho recensito album di ogni tipo ed il lettore affezionato potrà ormai essersi fatto un'idea di quelli che sono i miei gusti (posto che gliene importi qualcosa in primo luogo); egli saprà quindi che per me un certo tipo di grezzume ricopre un cospicuo valore nel mio indice di gradimento, ma per convesso saprà anche che non disdegno artisti più inclini alla positività ed alla coscienziosità. Il problema è però che questi ultimi sono facilmente soggetti alla pesantezza, salvo naturalmente che non si tratti di veri e propri campioni del genere come per esempio i De La Soul; e questo perchè i temi che trattano sono senz'altro condivisibili ma non particolarmente attraenti, e quando li si esprime in modo coerente, "pacifico", appunto, talvolta pare di trovarsi catapultati in una sorta di oratorio musicale.
Ecco perchè amo incondizionatamente artisti come Jeru: non è che predichino idee poi tanto diverse dalle loro controparti più hippie ma lo fanno con vigore e livore. Livore verso chi si comporta in maniera antisociale o comunque egoista, il quale verrà puntualmente accusato di essere ignorante, superficiale, pigro e quant'altro: in poche parole, una merda umana. Ora, certamente dubito che quest'atteggiamento da Savonarola possa scuotere le coscienze dei soggetti di tali attacchi, ma preferisco che si parli chiaro e perciò condivido questo tipo di aggressività, ché qua mica siamo all'ONU. Ad esempio: sei una donna che va a letto con qualcuno per ottenere vantaggi? Non sei una escort, sei una puttana. Oppure: quando vai al supermercato risparmi sul cibo per poterti comprare un vestito alla moda? Prima di essere una vittima del consumismo sei un coglione puro e semplice. E via così: trattandosi di musica e non di un trattato socio-psicologico, questo approccio sanguigno mi piace.
Ecco perchè The Sun Rises In The East riceve da parte mia almeno un ascolto completo al mese: perchè a distanza di 15 anni dalla sua pubblicazione il messaggio non ha perso forza e, anzi, forse ne ha addirittura guadagnata. Ma tutto ciò non basterebbe se non ci fosse il genio di Premier dietro alla produzione musicale, il quale si dimostra capace di fornire un'artiglieria acustica che calza a pennello allo stile stile di Jeru nonché all'atmosfera generale di cui TSRITE è permeato.
La sua ruvidità non consiste solamente nell'inflessibilità del pensiero dell'autore principale, bensì anche nel minimalismo dei beat che, congiuntamente ad altri contemporanei, sono di tale forza che riescono a far scordare le atmosfere soleggiate della costa californiana. Qui tutto sa di New York o più in generale di una metropoli in inverno, i cui unici rumori sono dati dai motori delle macchine e dallo sferragliare delle metropolitane mentre i vapori fuoriuscenti dai tombini azzerano la visibilità, col baluginio dei fari e dei lampioni che si riflettono sull'asfalto bagnato. Perdonate quest'attimo di lirismo da supermercato, ma la capacità suggestiva di certe musiche è innegabile e ciascuno la descrive come può.
Ma volendo abbandonare il pathos poetico prima che sia troppo tardi, veniamo al succo della faccenda: esclusa forse Statik non c'è una canzone brutta che sia una. Non scherzo: quale più, quale meno, sono tutte delle bombe, a partire dalla classica Come Clean. Uscita come singolo l'anno precedente, questa aveva lasciato giustamente a bocca aperta persino chi aveva ravvisato nella strofa di Jeru su I'm Da Man una promessa: tra l'inimitabile beat, in cui un bizzarro campione che può ricordare lo sgocciolìio d'acqua nelle tubature (!!!) s'appoggia a delle batterie impressionanti, e le liriche, iperrealistiche nel loro smascherare i parrucconi che già allora infestavano l'hip hop, non c'è una cosa fuori posto e a coronoare la grandiosità del pezzo sta un cut degli Onyx. E se penso che a me inizialmente non piaceva...
Beh, anche allora avevo le mie brave alternative: personalmente colloco alla pari della precedente la straordinaria My Mind Spray: figuratevi che ad oggi mantengo l'opinione che sia uno dei casi in cui l'utilizzo del campione di Nautilus sia riuscito meglio, e se pensiamo alla quantità di artisti che hanno campionato il pezzo di Bob James allora l'affermazione si fa rivelatrice. Non da meno, poi, sono la storica Da Bichez (che batterie, signori, l'uso dei charleston è da applausi), il duetto con l'allora passabile Afu-Ra intitolato Mental Stamina, e la solenne Ain't The Devil Happy - un richiamo dai toni apocalittici che Jeru fa alla propria gente per non cadere in gesti e comportamenti autolesivi, sia sul piano concreto che quello spirituale. Certo, andrebbe poi anche menzionato il tipo di campionamento jazz tipico del Premier di quegli anni, che sapeva conferire un taglio ruvido ai pezzi usando brevi sample di piano, sax e quant'altro: vedi la già citata da Bichez così come D.Original e, naturalmente, Come Clean.
Insomma, con questi beat il disco sarebbe stato una bomba persino con Melachi The Nutcracker come MC principale. Ma vivaddio non solo non ci troviamo tra i piedi una schiappa, ma addirittura ci viene fatto dono, per così dire, di un rapper coi controcoglioni. Come diceva uno dei suoi sponsor principali, "it's mostly the voice" e 'Ru qui lo dimostra ampiamente: bassa ma non cavernosa, sprizzante carisma, esige e ottiene l'attenzione dell'ascoltatore. Uniamola ad una tecnica impeccabile sotto ogni punto di vista e ad una prospettiva sempre originale sia nell'aspetto stilistico che in quello contenutistico (e qui l'ampio vocabolario aiuta in ambedue i casi), ed ecco che francamente non si può chiedere nulla di più a questo MC. La sua battaglia contro l'ignoranza in tutte le sue forme e dimensioni viene suddivis aper tredici tracce e ciascuna gode di un taglio così particolare che, pur rifacendosi ad un unico punto di vista, non risulta mai ripetitiva. Non sto a fare esempi con citazioni troppo lunghe, preferisco piuttosto citarvi qualche titolo che mi fa avere ragione con relativa semplicità: ascoltate -nella sequenza preferita- da Bichez, Come Clean, You Can't Stop The Prophet e Ain't the Devil Happy; scoprirete che non solo vien facile capire che sono state scritte dalla stessa persona, ma anche che fanno parte dello stesso album, dello stesso insieme.
Boh francamente non so che dirvi... classico lo è senz'altro, non so se dargli quattro e mezzo o cinque. Ma direi che, viste le proteste del volgo ai miei 4 e 1/2 agli Smif 'N' Wessun, meglio andare a colpo sicuro. [edit: m'ero dimenticato d'augurarvi il consueto buon fine settimana. A lunedì]




VIDEO: D ORIGINAL

MOS DEF - THE ECSTATIC (Downtown Music, 2009)

giovedì 17 settembre 2009

Il passo tra "ambizioso" e "megalomane" solitamente è molto breve e generalmente può avvenire quando manca almeno uno dei seguenti fattori: intelligenza e contatto con la realtà. Fare paragoni con la politica moderna e contemporanea è fin troppo facile, specialmente quando a palazzo Chigi siede una persona che difetta di ambedue, per cui mi limiterò al casus belli: Mos Def. Dante Smith, questo il suo nome, ha avuto un inizio di carriera abbastanza normale per l'epoca che però successivamente si è trasformato in un proseguo a detta di molti eccellente: il progetto Black Star ed il suo esordio solista Black On Both Sides sono considerati dalla magioranza degli ascoltatori di rap delle pietre miliari del genere (mi permetto di dissentire), degne di proiettare Mos nel firmamento dei Grandi dell'hip hop e soprattutto punti di riferimento per un'intera generazione di MC aventi come guida artistica la scuola dei Native Tongues.
Si può dissentire ma questa è la percezione generale; peccato però che tra i tanti dimostratisi incapaci di mettere il culo correttamente in carreggiata vi sia proprio Mos Def, ed il mio personale sospetto è che ciò sia avvenuto non a casua di scarsa intelligenza, bensì per pochi contatti con la realtà. Infatti, nell'arco di pochi anni è passato dall'essere un MC relativamente conosciuto al venire idolatrato come faro spirituale capace di guidarci nella notte; il suo talento d'artista è stato magnificato e a momenti ci scappava il paragone tra le sue inesistenti doti canore con quello di un Thom Yorke; non per ultimo, l'aver intrapreso una carriera cinematografica, mostrando lì sì discrete qualità recitative, deve aver contribuito a dare il colpo finale ai suoi collegamenti con la realtà. I risultati concreti di questa lievitazione eteroindotta dell'ego li conosciamo bene: due album, uno più brutto dell'altro, dove anziché seguire l'unica disciplina in cui davvero eccelle ha preferito virare in territori che sarebbe stato meglio gli venissero preclusi da una fatwa o da qualche divinità pagana, meglio se incazzosa. New Danger era una sonora cagata ma un briciolo di dignità traspirava quà e là, mentre True Magic era completamente incircolabile.
Simili svarioni sarebbero dovuti bastare per sbriciolare la carriera finora costruita, e invece eccoci qua con tra le mani il nuovo lavoro di Mos Def che, ne ero certo fin da quando era stato annunciato, che sarebbe stato una boiata. Beh, mi sbagliavo. Almeno in parte.
Cominciamo dalle buone notizie: Mos Def qui rappa di più, molto di più, rispetto ai precedenti lavori. È cosa buona: per quanto spesso inserisca ritornelli canticchiati, sono poche le canzoni in cui mantiene la convinzione di essere un grande cantante e perciò il tutto non suona più come una specie di Jovanotti di Brooklyn. Non solo: vivaddio i beat stavolta sono di qualità medio-alta con punte di ficaggine, e a curarli troviamo Madlib, Oh No, Dilla (figurarsi se no), il produttore francese Mr. Flash e, purtroppo, anche il tristemente noto Preservation.
Sta di fatto che talvolta mostra ampiamente di non essere il menoso hipster eclettico-wannabe che avevo ritenuto fosse, basandomi sui suoi ultimi dischi: Auditorium, con Slick Rick, da sola vale tutto l'album ed è in ultima analisi il motivo per cui ho deciso di comprare Ecstatic. Davvero. Come ho sentito quei flautini venir sostituiti da un'alternanza di organo elettrico e complesso d'archi, con sotto le tipiche combo di basso e rullante di Madlib, ero già praticamente venuto: talvolta mi chiedo come sia possibile uscirsene con pezzi così fighi, davvero non lo so. E sempre Madlib produce Wahid, che pure lei merita assai, così come Revelations e Pretty Dancer, il cui unico difetto è di avere sopra un Mos Def alle prese con la sua migliore interpretazione di MF Doom (in Revelations la cosa diventa sconvolgente, cambiategli voce e ufficialmente è Daniel Dumile).
Ma anche tale Mr. Flash non se la cava affatto male, e benché avrei molto da dire sul suo nom de plume, devo dire che i suoi tre beat dimostrano una buona versatilità nel saper conferire toni diversi di traccia in traccia: dall'elettonica ottantona di Life In Marvelous Times agli accenni di jazz/funk di Workers Comp fino al sapore d'India di Embassy, il beatmaker francese dimostra talento. E sempre validi si confermano essere Oh No e Dilla, che pur non regalandoci momenti spettacolari riescono a mantenere vivo l'interesse dell'ascoltatore. Insomma, per farla breve, come beat direi che piùo meno ci siamo: non tutto è rose e fiori (Quiet Dog Bite Hard, No Hay Hada Mas, Casa Bey lasciano molto a desiderare) e certamente bisogna accettare un'impostazione sommariamente poco ortodossa, ma diciamo che, a meno che non ci si aspetti robe da Finesse o Pete Rock, musicalmente Ecstatic è bello solido.
Purtroppo, ad un certo punto entrano in gioco l'ego e l'esageratamente alta autostima di Mos Def: così vediamolo mentre si lancia in spericolati ritornelli cantati capaci al massimo di rovinare la canzone se tirati troppo a lungo; peggio ancora, ci sono occasioni dove miagola lagnosamente tutto il tempo e, se nel casi Worker's Comp si può pensare ad una cacchina, in No Hay Nada Mas pare di ascoltare Jarabe De Palo in eroina. E con questo ho detto tutto.
Che poi, quando vuole, riesce anche a rappare e creare cose serie: peccato che lo faccia ancora troppo raramente, e che anche quando questo avviene, quasi sembra -l'ho già scritto- di trovarsi in un disco di Doom. E questo fatto, deprecabile in sè e per sè, lo diventa ancor più se si prendono le sue strofe di Auditorium e le si paragonano all'80% di ciò che resta. Come si suol dire, il ragazzo è intelligente ma non s'impegna.
Conclusione: come basi direi che Ecstatic è valido, specialmente nella prima parte; come liriche è invece già più debole, cosa che da Life In Marvelous Times in poi raggiunge talvolta vette di surrealismo e puro e semplice orrore. In altre parole, da un lato considererei questa sua opera come un passo avanti nella giusta direzione, ma dall'altro anche come una delusione: la sua convinzione di essere bravissimo a far altro che non sia rappare, unita ad una voglia di sperimentazione cieca che talvolta raggiunge picchi di velleitarietà imperdonabili, alla fin fine rovina l'ascolto nel suo complesso. Ciò nonostante l'album fila -non chiedetemi come- per cui diciamo che gli affibbio un tre e che non se ne parli più (sarebbe un quattro scarso se si fosse limitato alle prime 8 canzoni più un paio della seconda metà).



I SELF DEVINE - SELF DESTRUCTION (Rhymesayers, 2005)

lunedì 14 settembre 2009

Non mi ricordo l'esatto motivo per cui qualche mese fa decisi di comprare questo solista di I Self Devine (non è un refuso, si scrive con la "E"), probabilmente perchè l'avevo trovato nella solitamente cessosa cesta delle occasioni di Amazon che veniva via a du' lire, ma insomma, fatto sta che decisi di acquistarlo come corollario di un ordine più importante. Il mio scarso entusiasmo era dovuto al fatto che all'epoca felice delle mie lunghe domeniche passate su Soulseek alla ricerca di roba nuova m'ero imbattuto in questo album, che dal mio punto di vista presentava delle credenziali di tutto rispetto: produzioni di Jake One e Vitamin D -più Ant e Bean One, dei quali però poco me ne poteva frega'- ovverosia il duo che aveva contribuito in maniera determinante a farmi amare alla follia Layover di Encore. Senonché, come sovente avviene, dopo una serie di ascolti ripetuti m'ero reso conto che alla fin fine il prodotto era sì caruccio ma infinitamente inferiore alle mie aspettative. Che il tempo m'abbia portato a rivedere la mia opinione? Vediamo.
In primis: chi è I Self Devine? Beh, è un menbro dei Micranots. Questo è quello di cui sono a conoscenza e di più non so dirvi, nel senso che anche questo gruppo l'ho filato in via sempre molto tangenziale e ad oggi non ne conservo alcun tipo di ricordo. Ciò detto, la sua pagina di Wikipedia (palesemente redatta da qualcuno della sua cricca) m'informa sulle origini losangeline del nostro, che però ad un dato punto della sua vita s'è trasferito a Minneapolis, città che vedrà poi i suoi successi come MC. Bene, basta così con le note biografiche, anche se tutto sommato sono piuttosto interessanti e da tenere in considerazione quando si ascolterà per la prima volta questo Self Destruction.
Un disco, questo, che rientra a pieno titolo nella sottocategoria dello street conscious -à là Immortal Technique, per intenderci, senza però l'impostazione socialista- e che perciò implica da parte del Nostro una conoscenza sia degli aspetti più ghettusi della vita che di quelli teorici. Spesso le due cose s'intrecciano nelle liriche di Devine, e bisogna dire che malgrado un'impostazione talvolta eccessivamente didascalica, la chiarezza di vedute e d'opinioni non gli difetta di certo. Oltre tutto, certi argomenti come l'uso della parola "nigga" o il machismo imperante nel rap vengono affrontati con indubbia onestà e, perchè no, coraggio; un fattore determinante per la valutazione positiva del risultato nel suo complesso, perchè fa sì che si releghi la più pura creatività in secondo piano a favore dell'esposizione di temi in sè non originalissimi ma di certo non sufficientemente dibattuti.
Ciò detto, però, il problema che ho personalmente è con il suo stile e con il suo flow staccato: è infatti vero che questo tipo di rappata, se unita ad una voce piuttosto carismatica, risulta propedeutica all'attrazione dell'attenzione dell'ascoltatore. É però anche vero che -salvo un paio di punchline ben messe- l'ascolto non risulta particolarmente elettrizzante, al punto che spesso l'impressione è che beat e MC viaggino su due binari separati. Basta fare la controprova: prendete Getcha Money o Live For The Moment, in cui il connubio funziona benissimo, e paragonatele a una This Is It o una Feel My Pain; la differenza che si noterà è che nelle prime due lo stile e l'enunciazione di Devine s'incastrano bene nella trama del beat, mentre nel secondo caso fanno a pugni. E come ultima prova del nove direi di prendere Sex Sex Sex, in cui il Nostro smolla un po' la sua tecnica usuale favorendo maggiori incastri a dispetto dello sovraenunciazione di cui sopra e che, guardacaso, funziona a meraviglia. Insomma, non so che dire se non che è un peccato; fermo restando che lui non sarà mai Rakim, ci sono occasioni in cui dimostra di saperci fare -a prescindere che questo modo di rappare a me piaccia o meno- e, se aggiungiamo che contenutisticamente Self Destruction è piuttosto spesso, viene da chiedersi come mai non abbia saputo dimostrare maggior sensibilità nella scelta dei bet.
Beat che, come già dicevo, sono affidati a "sole" quattro persone: Jake One, Vitamin D, Ant degli Atmosphere e Bean One. Ebbene, benchè i nomi ci siano tutti, lasciate che riassuma il mio giudizio in due parole: "tutto qua"?. Già, il punto è che Self Destruction è ben prodotto, si vede che è gente che ci sa fare, ma... per l'occasione il tutto sa di manierismo. Sono davvero poche, pochissime le tracce capaci di restare nella memoria in quanto dotate di quel qualcosa di particolare: nella fattispecie si tratta di Getcha Money On ed il suo angosciante (in senso positivo) campione, Live In The Moment ed il bel passo che prende grazie a beat e note di piano, ed infine I Can't Say Nothing Wrong col suo sample di roots reggae che bene s'accompagna a batterie e rappata. Tolte queste, si viaggia nel regno della caruccierìa; e finchè si cerca un sottofondo mentre si è intenti a far altro la cosa può anche andare bene -chi mai si lamenterà di un po' di soul, un quid di funk e l'eventuale pestone?- ma nel momento in cui si dedica attenzione all'ascolto (e ovviamente Devine vuole che ciò avvenga) chiunque avente alle spalle anche solo cinque anni di esperienza di rap sarà facilmente portato allo sbadiglio. Non so come spiegarmi: in teoria va tutto bene, ma nella pratica si esce come dalla visione di un film onesto ma privo di grandi peculiarità.
E questa mancanza di "personalità sonora" danneggia molto un album che avrebbe potuto essere perlomeno valido -ottimo comunque no- e che presenta comunque alcuni pregi, primo fra tutti lo sforzo concettuale fatto dall'artista. Insomma, è noiosetto, e questo è quasi peggio che avere cinque tracce belle e cinque porcherie indegne. Dategli una chance se siete in vena di provare e anche perchè due-tre cose da inserire in un micsteip stagionale ci sono, ma sennò si può anche comodamente glissare.



CORMEGA - THE REALNESS (Legal Hustle/Landspeed, 2001)

venerdì 11 settembre 2009

E con Cormega eccoci anche oggi all'ormai quasi consueto appuntamento con il rinfrescamento della memoria: pur non avendo conosciuto il successo nel corso degli anni '90, egli è uno dei pochi artisti ai quali ancor'oggi faccio affidamento (come e più dei mostri sacri di quella decade) perchè so perfettamente che non se ne uscirà con cagate fatte tanto per fare. Il suo nuovo album uscirà il 20 ottobre e potete star certi che lo comprerò a scatola chiusa, vuoi anche solo per il suo curriculum artistico, che volentieri definisco ineccepibile. Con questo non voglio dire che abbia prodotto dei classici in senso stretto, ma che la sua consistenza nel sfornare ottimi dischi a tutto tondo senza intervallarli da inutili mixtape o orpelli di questo genere è pressoché unica. E in tutto questo getto anche la sua padronanza della scrittura che, mescolata ad un'onestà non comune e -pare- un'intelligenza non comune, lo rende uno dei pochissimi artisti che prendo sul serio e che ascolto con estrema attenzione.
Alla luce di questo è per me quasi scontato che abbia intitolato il suo esordio ufficiale The Realness, perchè per una volta tanto questo titolo roboante corrisponde a verità oltre che descrivere in genere ciò che si troverà nell'album. Album che, pur con le sue magagne e le sue imperfezioni, non esito a definire essenziale per chiunque nutra una passione per questo genere musicale e, più in generale, per buona musica a cui corrisponde personalità.
Liberiamo il campo dai dubbi: The Realness è secondo me lievemente inferiore al successivo The True Meaning, ma non per questo vale meno. A rendere possibile questa apparente contraddizione è 'Mega stesso, che nel corso di 50 minuti ci porta a braccetto nella sua realtà come solo i migliori affabulatori -e intendo questo termine nella sua accezione più positiva- sanno fare. A partire dall'intro fino a giungere a They Forced My Hand egli ci racconterà di compagni morti, di vita nel Queensbridge, di rivalità, di galera e in generale di tutto ciò che ha contribuito a renderlo la persona che è. Non mancheranno i momenti Amarcord, dai quali traparirà una evidente nostalgia anche quando narrerà degli eventi non esattamente edificanti che potevano aver luogo in un ghetto americano durante gli anni '80. Insomma, grossomodo la stessa formula (anche se è offensivo definirla tale) che affinerà poi in True Meaning, ma che già in questa versione "adolescente" risulta capace di coinvolgere l'ascoltatore.
Un coinvolgimento che avrà l'effetto secondario di far notare, oltre all'eccellente scrittura ed ampiezza di vocabolario, una tecnica buona anche se non immacolata. Qualche sbavatura quà e là la si trova, più che negli aspetti tecnici, però, in quelli strettamente legati all'esperienza; vale a dire che talvolta la pausa ad effetto c'è dove non ci dovrebbe essere e viceversa, oppure in un passaggio si dilunga troppo su certi aspetti tralasciandone altri, oppure ancora si ripete (non letteralmente, ovvio) in due canzoni. Sciocchezze, se vogliamo, ma di cui tenere conto se vogliamo giudicare la sua crecita artistica prima ancora che The Realness stesso.
Ciò comunque non inficia più che tanto l'ascolto dell'album dal versante lirico; a farlo sono casomai i beat che, analogamente a quanto avverrà nell'opera successiva, hanno fin troppo la tendenza a suonare di già sentito. E questa tendenza si manifesta nel modo più prevedibile possibile: molti campioni sono stranoti a chi ascolta rap da qualche tempo. Qualche esempio: Fallen Soldiers è Beggar's Song (It's Like That di Jay-Z); Unforgiven è Un Bon Son ecc. degli IAM; You Don't Want It è Alone In the Ring (Victory di Puff Daddy) e via dicendo. Ora, non per questo le suddette canzoni sono brutte o che; semplicemente suonano, diciamo, famigliari e questo comporta inevitabilmente una minore longevità. Peccato, perchè quelle che invece suonano freshe vengono a questo punto un po' penalizzate, nel senso che si fatica un po' più ad ascoltare il disco di filata; tuttavia, autentiche chicche come Thun & Kicko con Prodigy, They Forced My Hand con Tragedy (pezzo migliore, non c'è discussione), The Saga o la ghost track Killaz Theme Pt.II lasciano il marchio. Insomma, per quanto alcuni beatmaker si siano un po' impigriti, alla luce dei risultati direi che la media è medioalta/alta: pur non essendo nomi notissimi (J-Love, Spunk Bigga, Sha-Self, Ayatollah...) questi dimostrano buone capacità, tant'è che l'unico a fallire è Alchemist ed il suo remix di Fallen Soldiers, in sè e per sè non brutto ma incompatibile con tema e rappata di 'Mega.
Che altro dire? Come esordio direi che Realness è davvero molto buono ed in fondo dimostra quanto l'attesa necessaria per vedere pubblicato un disco di Cormega non sia stata vana; rispetto a Testament la crescita artistica è sostanziale e, pur non possedendo nè la ruvidità di quest'ultimo, nè la pulizia di The True Meaning, direi che non possederlo sarebbe quantomeno delittuoso. Oscilla insomma tra il tre e mezzo ed il quattro, ma voglio essere generoso. promosso.




VIDEO: R U MY NIGGA

M.O.P. - TO THE DEATH (Select Street, 1994)

giovedì 10 settembre 2009

In questi giorni sto cominciando a pensare di trovarmi, più che nel 2009, a metà degli anni '90; in effetti, l'autunno dell'anno corrente sarà ricordato come il momento in cui tre degli artisti -ciascuno a proprio modo- più rilevanti di quella decade hanno marcato una sorta di ritorno sulla scena. Sto parlando ovviamente di Jigga, Raekwon e, appunto, gli M.O.P.: pur con risultati diversi tra loro, le rispettive opere segneranno senz'altro il periodo e per quanto ci sia già chi grida al capolavoro ed al vincitore, è divertente osservare come nessuno di questi album sia ancora uscito ufficialmente. Perciò, ferme restando le mie preferenze (che vanno a Rae, casomai non l'aveste capito), preferisco attendere di avere in mano i supporti fisici ufficiali e, nell'attesa, celebrare in un qualche modo l'operato precedente dei suddetti artisti. Oggi è il turno degli M.O.P., come potete vedere.
To The Death lo comprai praticamente in contemporanea con First Family 4 Life, e mentre quest'ultimo mi lasciò alquanto deluso, il primo mi fece letteralmente sbracare. Innanzitutto perchè è prodotto al 95% da D/R Period, che avevo imparato ad apprezzare sull'album di Smoothe, e poi perchè in esso lo stile del duo di Brownsville è ancora a metà tra la rima serrata e l'urlo feroce. In pratica, è un po' più equilibrato, per così dire (altri lo definirebbero a ragione "acerbo"); e questo, nell'epoca in cui la gente svalvolava per il famoso "dead in the middle of Little Italy" di Big Pun tutto sommato incontrava i miei favori -tant'è vero che ho dato un nome a questo blog scegliendo la canzone dell'album che preferisco. Poi, per carità, col tempo ho ricalibrato i criteri di giudizio e perciò ad oggi non lo reputo più il loro miglior disco, ma ciò nonostante To The Death era e rimane un gran bel album oltreché quello forse più accessibile (assieme a Warriorz) di tutto il loro catalogo.
In teoria la recensione potrebbe anche finire qui, ma vale la pena spendere un paio di parole in più su pregi e difetti di quest'opera, partendo per l'occasione dai primi. Il primo è una certa ripetitività in termini di suono: D/R infatti ha qui un'evidente formula consistente in batterie quadrate ed accentuate secondo gli stilemi dell'epoca (il classico riverbero su cassa e rullante) sulle quali va ad appoggiarsi un campione perlopiù dagli echi jazzistici, o comunque dove risaltano spesso i fiati, in particolar modo nel ritornello. Ora, per quanto non tutti i beat seguano pedissequamente quest'impostazione, c'è da dire che nessuno di essi è privo perlomeno di alcuni dei sopracitati elementi; e a quel punto, non appena il duo non si sforza abbastanza, è facile che un pezzo -per quanto d'impatto se preso singolarmente- nel contesto della scaletta vada a perdersi (cfr. Heistmasters, Top Of The Line, Drama Lord).
Secondo: pur non essendo lecito aspettarsi dagli M.O.P. altro che hardcore nelle sue forme più ghettuse, in questo disco le loro famose hood tales mescolate alla passione per qualsiasi tipo di arma da fuoco -Freud avrebbe molto da dire- non sono sorrette dagli estri d'inventiva che si sarebbero manifestati più avanti nel corso della loro carriera. Sto parlando naturalmente, oltre agli adlib urlati, dell'onomatopeizzazione dei rumori connessi al carrello, all'armamento del cane, allo sparo eccetera eccetera. Cagate infantili, dite? Ennò, perchè non è che vengano usati a cazzo, tanto per fare rumore: spesso e volentieri fanno parte integrante della costruzione della strofa e, basandosi sull'energia prima che sulla tecnica, nel momento in cui questi sono assenti la tensione cala. L'esempio più eclatante in tal senso è To The Death, peraltro aggravata da un beat in cui spadroneggiano i sintetizzatori e che contribuisce a renderla la traccia più debole dell'insieme.
Terzo: i ritornelli sono nella maggior parte dei casi semplicemente asinini. E fin qui in teoria può anche starci, senonché sovente manca l'energia necessaria per rendere una fondamentale cretinata in un qualcosa da urlare ad un concerto. Personalmente, cose come "Ring ding, ring ding/ Ring ding, ring ding, Ring ding motherfuckers ring ding" non le sussurrerei nemmeno nella solitudine del cesso di casa mia.
Last but not least, cinque skit, peraltro abbastanza inutili (fuorchè l'intro, magari troppo lunga ma sicuramente evocativa), mi sembrano fuori luogo in un album breve come questo e dove qualsiasi interruzione spezza decisamente il climax d'aggressività generale.
Ciò detto, vorrei comunque ricordare che stiamo sempre parlando degli M.O.P., e per quanto all'epoca pesassero 23kg ciascuno (Billy Danze fa spavento, al confronto paio un lottatore di sumo) i due non si risparmiano ed anzi sovente riescono a mostrare caratteristiche del loro stile che negli album successivi sarebbero divenute il lor marchio di fabbrica. How About Some Hardcore ne è un ottimo esempio, e nemmeno l'indiscutibile orecchiabilità della base riesce a rendere meno d'impatto le loro prestazioni; non parliamo poi di Rugged Neva Smoove o Blue Steel, in cui Fame e Danze danno il meglio di sè su due beat capaci di farti venir voglia di prendere a scarpate in bocca animalini indifesi dagli occhi rotondi e tenerosi. Niente male anche Ring Ding e F.A.G., senz'altro più vicine alle loro successive prestazione ed all'evoluzione del suono che imprimerà Premier con Firing Squad.
Poi, per carità, il duo non entrerà mai nel pantheon degli MC tecnicamente più abili del pianeta, men che meno di quelli più versatili. Ma di questo non dovrebbe fregare niente a nessuno, men che meno a loro: e difatti si vede che, contrariamente agli Onyx (indubbiamente più sofisticati), Fame e Danze puntano esclusivamente sul coinvolgimento direi "emotivo" dell'ascoltatore. E, lo ripeto, pur non avendo qui affinato il loro stile, ci riescono sorprendentemente bene anche su disco -un risultato che pochi possono dire di aver conseguito, anche al di fuori del ristretto campo del rap.
Il risultato è quindi un album viscerale, forse un po' immaturo per certi aspetti e ripetitivo per altri, ma che ciò nondimeno rappresenta un buon biglietto da visita per lo stile personalissimo ed oggettivamente inimitabile degli M.O.P. E pur non essendo la loro opera migliore, ne consiglio l'acquisto a tutti perchè -pur restando valide le mie critiche- con un minimo di scrematura fila via che è un piacere.




VIDEO: HOW ABOUT SOME HARDCORE