Y SOCIETY - TRAVEL AT YOUR OWN PACE (Tres Records, 2007)

martedì 25 novembre 2008

Nella scorsa recensione ho accennato al fatto che Rise Up è da molti considerato la migliore uscita underground del 2007 e, indirettamente, ho spiegato che per me le cose non stanno così. Ciò dipende soprattutto dal fatto che gli album perfetti sono quelli capaci di essere ascoltati sia come semplice sottofondo che come oggetto di primario interesse, e il disco di cui sopra per me non rientra in questa categoria in quanto richiede giocoforza molta attenzione per essere veramente apprezzato. Certo, mi rendo conto che il concetto di "flow" di un disco sia tendenzialmente arbitrario, ma se guardo indietro nel tempo e faccio una lista dei cosiddetti classici non posso esimermi dal sottolineare che la stragrande maggioranza di essi possiede questa qualità: Low End Theory, Illmatic, Liquid Swords... vedete un po' voi. Ora, con quest'affermazione non voglio dire che Travel At Your Own Pace sia all'altezza di questi nomi, "semplicemente" che si tratta della migliore uscita del 2007 -e se consideriamo che quella è stata una delle annate più floride per il genere vi lascio volentieri trarre le debite conclusioni.
Ma perchè -direte voi- se Y Society è il capolavoro che io sostengo essere se n'è parlato così poco? Per due motivi, secondo me: il primo è il consueto deficit di promozione, che stavolta ha raggiunto livelli scandalosi in quanto la maggioranza della popolazione reppusa mondiale probabilmente ignora tout court che questo disco esista. Il secondo, invece, è che il sound si rifà all'estetica dei primissimi anni '90, in cui i campioni spesso erano presi dal jazz e dalla fusion ed erano sovrapposti, in brevi loop, a batterie abbastanza martellanti: non una musica facilmente apprezzabile, dunque, men che meno dopo che le nostre orecchie si sono ormai abituate a melodie ben più suadenti (tant'è vero che la stessa sorte la sta subendo un altro gran bel prodotto di quest'anno, e cioè State Of The Art del produttore Presto, per molti versi simile a TAYOP). Fatto sta che oramai, a distanza di più di un anno dalla sua pubblicazione, Travel resta un oggetto sostanzialmente per feticisti del genere e ciò che voglio fare mediante questa recensione è metterne invece in rilievo tutti quei pregi che lo rendono, mi piace ripeterlo, il più bel disco del 2007.
Innanzitutto va detto la chimica tra il produttore Damu The Fudgemunk e l'MC/produttore Insight è eccellente, tanto che il più delle volte si ha l'impressione che il primo risponda con suoni alle liriche del secondo; gli eventuali crescendo nell'esposizione di 'Sight vengono difatti sottolineati da altrettante variazioni ed intensificazioni delle scarne melodie, sovente chiudendosi con ritornelli costituiti da cut la cui quantità è paragonabile a quanto recentemente sentito con DJ Revolution. Soprattutto, è ulteriormente degna di nota la capacità di azzeccare la combinazione tra musiche e contenuti, in modo tale che l'una risulta propedeutica agli altri e viceversa, in un circolo virtuoso che alla fine dei conti si traduce in una godibilità ed in una longevità del prodotto fuori dal comune.
Ma tutto ciò non potrebbe bastare se il materiale a disposizione fosse meno che bello e, fortunatamente, l'unica critica che si possa muovere ai beat di TAYOP è quella di avere tutti la stessa matrice musicale. Tolto questo neo, ascrivibile volendo all'identità da produttore di Damu, le basi sono tanto di classe quanto efficaci. Di classe perchè da sole forniscono materiale a non finire a tutti coloro che volessero riconoscere i campioni originali (il che non prevedo essere una cosa molto semplice) -non solo delle melodie ma soprattutto delle batterie- ed efficaci perchè proprio queste ultime pestano come dio comanda e fanno di alcune tracce degli originali modi per spezzarsi il collo. Provate infatti ad ascoltare Good Communication: in essa Insight mette nero su bianco la storia della comunicazione orale ritmata a partire (ovviamente) dall'Africa, al che Damu fa la cosa più ovvia ma anche più difficile che ci si possa immaginare, e cioè costruisce un beat di oltre quattro minuti pressoché esclusivamente con batterie e nient'altro se non otto note di piano (messe lì esclusivamente per dar corpo al suono), e la cosa più incredibile è che lo fa con successo. Davvero, per rendervi conto della difficoltà dell'operazione pensate a quante canzoni abbiate sentito fatte in questo modo e pensate eventualmente a quante vi hanno asciugato dopo un minuto scarso. Ecco, appunto. Ovvio che, constatato anche solo grazie all'unica Good Communication che il Nostro con le batterie è un mostro, potrebbero permanere dei dubbi sulla sua capacità di non abusarne: ed anche qui le sorprese sono assai gradevoli nel senso che, per quanto le tracce abbiano tutte un tiro generalmente elevato, Damu sa quando abbassare i toni per lasciar maggior spazio ad una melodia che -attenzione- non per forza risulta orecchiabile in senso stretto. Un buon esempio di ciò è Never Off, che usa un campione di sarcazzocosa già sentito da qualche parte nel primo album di Sticky Fingaz; più tradizionale è invece This Advice, dalle vaghe reminescenze di Sometimes I Rhyme Slow e dunque di Tracy Chapman; mentre Scientists ricorda ad esempio di Word... Life di O.C., con tanto di campione di piano continuo ed ingresso di sax; altre invece sanno di Pete Rock (a cui difatti dedicano un pezzo) o Ali Shaheed Muhammad, ma comunque in nessun caso possiamo parlare nemmeno lontanamente di plagio. Le composizioni di Damu sono quindi una sintesi eccellente di tutto quanto di buono ha prodotto una certa cultura musicale agli inizi dei '90, ovviamente in versione rivista, corretta & aggiornata; il fatto che poi si indovini con scarso margine d'errore il periodo di riferimento ed alcuni dei suoi massimi esponenti non è per me un difetto, perchè la varietà e l'abilità dimostrata nel mettere insieme i vari beat dimostra ampiamente che il Nostro sa stare sulle proprie gambe. Aggiungo, a margine, che Damu pare essere uno dei pochi a capire che non si deve "sovraprodurre" nel senso di ripulire ogni suono e filtrarlo dieci volte per ottenere toni cristallini; anzi, visto e considerato lo stile ed i break che usa credo che, al di là di un mixaggio ragionato non abbia messo mano più che tanto ai filtri di Cubase che tanto vanno -purtroppo- proprio tra coloro che vorrebbero replicare questo tipo di sound e che perciò peccano quantomeno di coerenza stilistica.
Ma terminati gli elogi al produttore è il turno dell'MC; MC che conosco decisamente meglio in quanto suo estimatore fin dai tempi in cui pubblicava 12" con T-Ruckus e dei quali mi piace ricordare la generale ruvidità. Insight, difatti, è sempre stato uno abbastanza aggressivo in quanto a metrica e rappata in generale, cosa che si sposava molto bene con la stragrande maggioranza dei beat che si era finora sempre autoprodotto (secondo me con successo, i suoi dischi da solista sono per me molto validi ed in particolar modo Updated Software e Maysun Project). Il mio dubbio consisteva nel vederlo su basi create da esterni, ma per fortuna questo è stato completamente dissipato dal risultato finale raggiunto con TAYOP: l'estetica e lo stile di Damu sono infatti sufficentemente simili a quelli di 'Sight, cosicché pur non replicandoli non si ottiene una -magari anche gradevole- sensazione di déjà vu. Come dicevo prima, quindi, l'alchimia tra i due è eccellente e già questo è un ottimo punto di partenza; aggiungiamoci che per quest'occasione Insight pare aver affinato il proprio stile ed allargato il raggio dei temi trattati, ed ecco che così passiamo da una critica sociopolitica esplicitata a toni alterni allo storytelling, dalle tribolazioni della vita quotidiana a concept track, da pure esibizioni stilistiche a canzoni in cui esprime il suo amore nei confronti di una cultura che -cosa importante- sente tanto sua quanto necessitosa di una maggior divulgazione. Al di là dunque da una buona varietà di tematiche, reputo ancor più gradevole l'aver a che fare con una persona la cui spocchia non si spinge al di là di ciò che effettivamente sa fare e può dimostrare; oltre a ciò non ci sono particolari manifestazioni di vittimismo o éltarismo pur così tipiche tra i puristi, ed in tal senso questo è un modo di essere che si traduce (involontariamente, ne sono certo) in una maggiore autenticità del concetto di "throwback". Ascoltare Insight è come fare un tuffo nel passato, in cui gli artisti erano creatori prima che critici: era la loro stessa arte a criticare de facto quel che poteva non andar bene nei colleghi. Per semplificare questo concetto faccio un esempio: non c'è bisogno che gli AC/DC scrivano un pezzo contro i Tokio Hotel, è la loro stessa musica che inevitabilmente rinnega quella degli altri e la espone come fuffa -e occhio, perchè non è la stessa cosa del predicare al convertito.
Quindi, traendo le somme, vediamo di ripassare in breve Travel At Your Own Pace: beat di classe, potenti e soprattutto difficili/ostici -immagino infatti che non vi debba ricordare quanto sia difficile campionare del jazz (e più in particolare fusion prima maniera o bebop) senza cadere nel tranello della mattonata e/o della cosid. elevator muzak da Buddha Bar, no? Ecco. Poi, detto questo: emceeing di qualità, senza particolari trovate stilistiche ma contenutisiticamente intelligente, tematicamente interessante e secondo me capace di mantenere alta l'attenzione per l'intera durata del disco. Sommate le due cose e vi troverete come risultato un disco che, lo ripeto per l'ultima volta, è stato il miglior prodotto del 2007. Quattro microfonini e mezzo solo per onestà intellettuale, dovessi basarmi puramente sui miei gusti personali gliene affibbierei cinque. Comprare, assolutamente.




VIDEO: TRAVEL AT YOUR OWN PACE (VINYL MIX)

ZEPH & AZEEM - RISE UP (OM Records, 2007)

lunedì 24 novembre 2008

Una delle storie più note riguardanti la nascita dei generi musicali così come li conosciamo noi vuole che essi siano stati creati -più o meno a tavolino- per poter gestire l'archiviazione dei dischi lungo la catena distributiva. Non so quanto credito si possa dare a questa versione forse fin troppo orwelliana del fenomeno, però bisogna ammettere che ha un suo fascino; ed inoltre, a distanza di quasi cent'anni dall'epoca in cui avrebbe avuto inizio, fornisce materiale a iosa ai recensori professionisti per potersi dare un tono e sminuzzare in trentamila categorie questo o quello stile musicale basandosi perlopiù su differenze infinitesimali (i metallari in questo sono insuperabili, perchè oltre ai classici thrash-power-epic e checazzoteparemetal, si sono inventati pure il fottuto viking metal). Un po' da minchioni, no? Indubbiamente, ma anche chi sta dall'altra parte della barricata non è da meno: parlo ovviamente dei fricchettoni che sostengono che non ci sono differenze, che sempre musica è, che ci dobbiamo lasciare andare, che dobbiamo far sì che sia il nostro cuore a parlarci e altre lepidezze di questo genere.
Ora. L'esistenza stessa di queste "scuole di pensiero" non meriterebbe da parte mia più di uno sbadiglio, se non fosse che quando escono dischi "atipici" puntualmente gli apologeti dell'una e dell'altra corrente cominciano a sproloquiare per portare l'acqua al loro mulino (la logica che usano è comunque la stessa), e mentre gli uni si fanno vieppiù sempre più noiosamente scientifici, gli altri si perdono in pericolose derive semipoetiche ugualmente fastidiose. In ordine cronologico, l'ultimo lavoro che ha portato all'ennesimo scambio di fucileria di corbellerie è l'abbominevole 808's & Heartbreak -che i più definiscono saggiamente "stronzatona col botto"- ma ad un livello mediatico più basso anche questo Rise Up non ha mancato di destare sincera ilarità in chi scrive. Da un lato c'era chi impazziva a catalogarlo traccia per traccia, salvo trovarsi alla fine dei 51'34" di durata con quindici diversi generi musicali, e dall'altro stavano i gli epigoni dei fiji d'amor' ederno di verdoniana memoria che si accontentavano di dire che 'sta musica te faceva stare bbene. Tuttavia, tutti concordavano su un punto: che Rise Up rientrava tra le cinque migliori uscite del 2007, e da questo vorrei partire.
In effetti, raramente ho potuto ascoltare così tanta varietà in una botta sola; e non alludo a semplici influenze, perchè il produttore Zeph non ha problemi a passare dal boombap più puro di Come One Come All al dub di Time To Wake Up, dal funk di Make Your Brain Swing alla dancehall di Ten Steps Ahead. E questi sono solo esempi ai quali accostare incursioni in ciò che la mia ignoranza musicale spinge ad accomunare sotto il termine "ritmi latini", jazz ed electro. Unico denominatore comune di quest'abbondanza può essere dato dall'andamento oscillatorio della velocità delle batterie, ma al di là di ciò pare che l'unico collante tra un pezzo e l'altro sia l'approccio inusuale di Zeph al beatmaking. L'iniziale Rise Up, ad esempio, prende un loop di archi e lo incolla sul giro di sintetizzatore di Boyz 'N' The Hood di Eazy E, che a sua volta gira su batterie provenienti da un 808 e riesce a fondersi con un cantato giamaicano nel ritornello: vi assicuro che l'effetto finale supera decisamente la mia descrizione in quanto ad efficacia. Ad ogni modo, mentre la successiva Ten Steps Ahead viaggia che è un piacere grazie ad un bel riddim con tanto di effetto sirena, è Come One Come All la prima vera bomba del disco: le batterie campionate sono le stesse utilizzate in Put It In Your System della DITC ma con un tiro più veloce; ad esse poi va ad accompagnarsi un giro di piano che poi termina nel ritornello, che campiona il Sadat X di All For One mettendo così la cosiddetta ciliegina sulla torta e facendo apparire la canzone come qualcosa che potrebbe esser stato partorito dal miglior RJD2. Ma ecco che, giunti a questo punto in cui si sarebbe portati a pensare ad un proseguimento più tradizionalista in quanto ad atmosfere, Rise Up compie una sorta di inversione a U e decide di spingersi verso ritmi più uptempo e dal sapore vagamente centroamericano, i quali poi cedono il passo ad una maggiore lentezza che vede nella superba Time To Wake Up il suo apice. Questa traccia, a mio modo di vedere la migliore del disco, è uno stupendo dub fatto con tutti i crismi (tra cui strumenti suonati live, cosa che giova non poco) sul quale si alternano il vocalist roots Tony Moses, la cantante Joyo Velarde (scuderia Quannum, mi pare) e ovviamente Azeem; l'insieme risulta così perfetto che si giunge ai quasi 5 minuti di durata con la voglia di riascoltarla ancora una volta, e poi un'altra ancora -il che da me è effettivamente avvenuto un giorno in cui s'andava ai crotti ed in cui Time To Wake Up è stata loopata dall'uscita della Milano-Lecco fino all'arrivo a Chiavenna, vedete voi.
A questo punto è inevitabile che le impressioni destate dalle successive canzoni non siano così d'impatto, ma sarebbe sbagliato sottovalutare la caratura di una Alpha Zeta, di una Play The Drum (che però a me non entusiasma proprio perchè utilizza un coro di marmocchi nel ritornello) ma soprattutto della gran bella Everything's Different, che ci fa fare un tuffo nella New York di fine anni '80 con un beat ultraminimalista a metà tra 45 King e Marley Marl. Purtroppo l'album si chiude con qualche singulto e qualche skit di troppo, ma giunti a questo punto non si può nemmeno andare a cercare il pelo nell'uovo... che piaccia o meno soggettivamente, è fuor di dubbio che Rise Up goda dell'insieme di produzioni più interessante del 2007. La sperimentazione sta nell'assemblaggio del tutto più che nel singolo episodio e non si può che restare impressionati di fronte all'eclettismo di Zeph che, caso raro, non è fine a sè stesso ma va di pari passo con la sua competenza.
Ad accompagnarlo -è il caso di dirlo- c'è invece un MC poco conosciuto al di fuori della cerchia dei prodotti targati OM Records (lo si era già sentito qualche anno fa come ospite in West Oaktown di Colossus) ma che gode di una certa reputazione anche come artista dello spoken word: Azeem. Questa sua specialità appare evidente nel momento in cui decide di lavorare più sulla pronuncia e l'enfasi delle parole che sulla creazione di schemi metrici complessi, cosa che tra l'altro non significa che sia privo di tecnica ma anzi che ne fa sfoggio in un modo più vicino alla poesia lato sensu che non alla pura esibizione di stile. Questo inoltre lo "costringe" a scegliere con grande cura le parole, e se si considera che buona parte delle canzoni ha tematiche legate al sociale quest'attitudine giova enormemente alla sintesi ed alla chiarezza del discorso. Ovviamente non può mancare il buon vecchio wack-rapper-bashing, che però viene condotto con eleganza ed anche una relativa modestia (trad.: non dice "io sono meglio di te perchè sono un figo" bensì "tu sei una chiavica imbarazzante" -differenza minima ma comunque degna di nota); e se poi lo si associa ad un paio di canzoni più votate al cazzeggio puro e semplice non può non sovvenire un imprinting legato alla vecchia scuola dei De La Soul o Run DMC. Anche qui, insomma, pur non avendo gli sprazzi d'inventiva del partner ci troviamo tra le mani un MC singolare, carismatico e senz'altro facilmente distinguibile dalla massa.
Giunti alle conclusioni, insomma, parrebbe che mi tocchi dare il massimo dei voti a questo disco, ma non è così. In primo luogo perchè soggettivamente non tutte le tracce mi piacciono, e ciò perchè quasi inevitabilmente l'attingere a talmente tante sonorità può piacere ad un ascoltatore e far inorridire l'altro; in secondo luogo perchè trovo il suono generale un po' troppo pulito e patinato anche in quei casi dove invece avrebbe fatto bene una maggiore ruvidità (paradossalmente proprio nei pezzi migliori, cioè Come One Come All, Time To Wake Up, Ten Steps Ahead e Everything's Different); infine, e questo è l'ultimo motivo, perchè Azeem è valido ma forse un po' troppo regolare nel suo stile, che resta grossomodo invariato a prescindere che canti su un dub o su una roba electro. Da tutto ciò deriva un voto che io preferisco mantenere più sui quattro zainetti che non sulla media dei quattro e mezzo ricevuti in altre recensioni, delle quali preferisco mantenere intatto invece il concetto di base: scaricatelo, compratelo, rubatelo ma, assolutamente, ascoltatelo.





VIDEO: DISCUSSING RISE UP

EL DA SENSEI - THE UNUSUAL (Fat Beats, 2006)

venerdì 21 novembre 2008

[Disclaimer: Alcune delle recensioni incluse in questo blog sono originariamente state pubblicate sul sito Hotmc.com. La ripubblicazione di questo materiale su Rugged Neva Smoove non è in alcun modo dipendente dalla volontà di Hotmc, che per politica editoriale desidera rimanere estranea alle attività di qualunque audioblog supporti il download illegale. La riproposizione degli articoli si riduce a una scelta personale dell'autore di questo blog, nonché autore delle recensioni, che si assume totalmente la responsabilità delle eventuali conseguenze]

Takin’ it back to ’88… non esattamente, ma lo spirito è quello.
Se state cercando qualcosa di nuovo o cosid. “fresco”, vi dico fin da subito che potete interrompere la lettura della recensione e dedicarvi ad altro, senza perdere tempo prezioso. Qualora doveste invece essere dei nostalgici senza speranza, o semplicemente vi accontentate del “good ol’ boom bap”, andrò a spiegarvi immediatamente perché questo disco è –da quest’ottica- uno dei prodotti più credibili ed interessanti usciti negli ultimi mesi.
1. El Da Sensei era una metà degli Artifacts, la cui carriera certamente non si può dire esser stata stellare. Escluso, naturalmente, il plauso dei cultori dell’underground dell’epoca. Nulla è cambiato da allora.
2. E’ certamente più credibile chi fa un disco sul genere throwback essendo sulla scena underground fin dai tempi ai quali si rifà, che non chi al tempo si esaltava coi Kriss Kross.
3. Chi sul proprio disco ospita K-Def e O.C., fa scratchare (ancora!) pezzi della strofa di Deck su C.R.E.A.M. e, infine, appare in foto con le Jordan VI è decisamente uno che ci crede davvero.
4. Se, a distanza di 10 anni, il tuo ultimo album ha pressappoco gli stessi difetti del tuo ultimo lavoro degli anni ’90 (e mi riferisco a That’s Them!), allora si può tranquillamente dire che il termine “conservatore” assume nuovi significati.
Ora, malgrado questa introduzione apparentemente critica nei confronti di El, non posso negare di aver trovato in questi quattro punti (più gli altri che verranno) un feticistico piacere. Non scordiamoci infatti che abbiamo comunque a che fare con un veterano, un MC esperto che si può definire in molti modi ma certamente non fiacco. Sottolineo peraltro come certi suoi coetanei (artisticamente parlando), al momento di pubblicare un album “al passo coi tempi”, hanno prodotto risultati discutibili: Large Professor ed il suo solista ufficiale, il Pete Rock di Soul Survivor II, Prince Po e, uno su tutti, Jeru e gli aborti dell'era post Premier.
Saggiamente, El ha deciso di percorrere una strada che conosce molto bene ed è, appunto, quella del ol’ boom bap unito a liriche che vogliono dimostrare la propria capacità al microfono e poco più. Un esempio? Natural Feel Good, che di certo non stonerebbe se ascoltata tra le vecchie Break It Down e Skwad Training. Differenze di mixaggio a parte, Illmind riproduce in maniera perfetta l’atmosfera dell’hip hop dello scorso decennio, mentre il Nostro dimostra che l’esperienza è la migliore maestra: una tecnica molto precisa e pulita (scordatevi gli adlib tracotanti di questi ultimi anni), unita ad un controllo di respirazione e voce fuori dal comune sono quello che differenziano gente come lui dall’invasione di rapper che si sforzano, anche genuinamente, di riprodurre il sapore di quell’epoca.
Lo stesso dicasi per Lights, Camera, Action (ci voleva davvero un originoo anzianotto per riesumare l’uso dell’urlo “Go! Go! Go!” in un ritornello: ricordate Off The Books? E’ lui!), What’s My Name, Hold On o Blow Shit Up -come possiamo vedere, anche i titoli dei pezzi non esplorano nuovi territori. Au contraire, qualche apertura al Nuovo, sempre inteso in termini molto relativi, lo si può trovare nel singolo Crowd Pleasa e relativo campione -tratto da una versione cantata di Exodus di Ernest Gold, già sentito altrove ma comunque piacevole; Live In The Flesh ha invece vaghe reminescenze delle produzioni presenti sull’ultimo dei De La Soul o dello stile di Jake One (che, invece, produce Gunblast); oppure, ancora, Nuttin’ To Lose, decisamente meno tipica nella scelta delle batterie, del campione, e nel taglio di quest’ultimo.
Insomma, per farla breve, si raggiungono dei livelli di throwbackismo (passatemi il neologismo) assoluto e, finalmente, davvero convincente. Tanto convincente che, come dicevo, anche i difetti sono più o meno gli stessi di That’s Them: tanto per cominciare, digerire 50 minuti di battle rap e sboronaggine assortita, per quanto nettamente superiori alla media, è abbastanza impegnativo; aggiungiamoci poi l’inclusione di qualche traccia skippabile o quantomeno piuttosto insignificante (That’s How It Goes soprattutto è una fetecchia) e, infine, un minimo di monotonia sia nei beat che nello stile di El che, per carità, straccia come e quando vuole una decina di MC aventi la sua stessa impostazione ma non basta da solo a reggere un disco intero (e dico solo 10 perché tendo a considerare gli affiliati alla Justus League come un insieme stilisticamente non meglio definito). Ecco, già avere un partner al microfono aiuta parecchio, ma visto che Tame One pare essere ancora infognato con la Eastern Conference, ci tocca abbandonarci ad una serena rassegnazione.
In conclusione, io sono comunque soddisfatto del tutto, con i suoi pregi ed i suoi difetti. Del resto, posso affermare senza vergognarmene di soffrire di una eccessiva partecipazione emotiva legata al risentire determinate sonorità, ragion per cui il mio parere è molto di parte. A momenti mi vien voglia di passare il disco su cassetta, vedete un po’ voi… Degenerazioni della sindrome di Peter Pan a parte (credo sia questo), The Unusual resta un onesto prodotto che ovviamente verrà apprezzato dai nostalgici ma che, credo, lascerà a bocca asciutta non solo chi si è votato anima e corpo ai suoni contemporanei, bensì anche chi è nel viaggione del throwback fuffa (senza offesa, davvero). Sia come sia, è comunque una parentesi ben riuscita nel panorama del rap contemporaneo.

[Cosa devo aggiungere? Al di là di una certa mia soddisfazione nel constatare che nel giudicare The Unusual ci avevo preso, posso solamente notare come la longevità del tutto non sia risultata tutto 'sto granché (ovverosia: negli ultimi due anni non penso di avero ripreso in mano più di dieci volte). Questo dipende certamente dall'album in sé, ma soprattutto -secondo me- dal fatto che di dischi così ne escono molti ogni anno. Quante volte, infatti, mi tocca ribadire la solita roba, e cioè che la qualità è buona, l'MC è competente, le atmosfere sanno di nostalgia e blablabla? Ecco allora che in un simile contesto cose come The Unusual difficilmente possono farmi avere erezioni dalla gioia. All'epoca gli avevo dato 3 e 1/2, ma alla luce dei difetti e della scarsa longevità mi vedo costretto a tirargli giù mezzo punto, per quanto tre zainetti gli stiano stretti]





VIDEO: CROWD PLEASA

HAZE PRESENTS: NEW YORK REALITY CHECK 101 - MIXED BY DJ PREMIER (Payday/FFRR, 1997)

mercoledì 19 novembre 2008

Siccome in questi giorni il lavoro mi sta ammazzando, stamane ho preferito ripiegare su una compilation la cui qualità è difficilmente discutibile. Parlo ovviamente del mixtape par excellence di Premier, e cioè New York Reality Check 101. In esso, contrariamente a quanto credano diversi gnurànt presenti su Amazon, il leggendario produttore dei Gangstarr si "limita" a mixare 18 tracce scelte da Mr. Dave, all'epoca A/R della Payday, che rappresentano quanto di meglio avesse prodotto l'underground della costa atlantica fino al '97.
che dire? La scelta artistica è francamente impeccabile ed include diverse canzone oggigiorno ritenute dei classici a tutti gli effetti: Braggin' Writes, 8 Steps To Perfection, Metal Thangz, Properties Of Steel, Inner City Blues, Off Balance, Change... la lista è troppo lunga, e francamente faccio prima a dirvi quali non sono reputati oggigiorno -a torto o a ragione- delle pietre miliari: Too Complex di L Da Headtoucha, Mixmaster dei Brainsick Mob e Feel The High di Finsta Bundy. Tutte le altre verrebbero invece menzionate da qualsiasi appassionato di hip hop, non c'è dubbio; e non solo quando si va a parlare della discografia dei singoli artisti ma in termini assoluti.
Ne consegue, evidentemente, che il mixtape stesso è letteralmente entrato a far parte della storia: non solo però perchè non esiste un-pezzo-uno che non sia potente, ma anche perchè la visione stantevi dietro era (forse inconsciamente) tale da consegnare ai posteri una fotografia nitidissima ed emblematica di quel periodo. Glissando sulla correttezza di suddetta impressione -che reputo fallace perché occorrerebbe anche ricordarsi di quante cacatielle uscissero all'epoca- è inevitabile provare nostalgia man mano che si procede nell'ascolto; persino quando abbiamo Primo che taglia, interrompe e ferma i pezzi -cosa che finora ho sempre odiato ma che la morte del mixtape, inteso nella sua forma originaria, mi ha fatto scordare. Ad onestà del vero, poi, bisogna dire che i vari trick eseguiti dal nostro risultano sempre precisi (almeno alle orecchie di un non-diggèi) e perciò ben poco gli si può dire; continuo a pensare che anche se non facesse tornare indietro l'attacco di un pezzo novanta volte nessuno se ne lamenterebbe, ma anche così l'eventuale fastidio che si potrebbe provare è decisamente inferiore a quanto ci si aspetterebbe.
In conclusione, pur non dandogli un voto in quanto mixtape, non esito nel dire che chiunque si professi amante del rap dovrebbe quantomeno ascoltarsi perbenino questa raccolta. Il materiale qui presente è composto da classici, l'assemblamento è ineccepibile e l'insieme riesce ad immortalare in maniera esemplare uno dei periodi più rosei per l'hip hop... che volete di più?

VIDEO: 8 STEPS TO PERFECTION

MIGHTY JOSEPH - EMPIRE STATE (Urchin Studios, 2008)

lunedì 17 novembre 2008

Signori, sono letteralmente senza parole: ho ordinato tre dischi venerdì pomeriggio e già stamane m'erano stati recapitati a domicilio. Il mio stupore e la mia meraviglia non derivano però unicamente dalla velocità della spedizione -maggiore, ricordo, della pur costosa raccomandata r/r- ma anche dal fatto che due dei suddetti dischi erano stati da me relegati nella sezione "miti & leggende", non essendo mai riuscito a reperirli tramite i consueti canali fisici. Da ciò deriva dunque una mia immensa soddisfazione ed un personale consiglio a provare Amazon (e sì, lo so che è una banalità, ma magari di dinosauri che come me hanno finora rimbalzato l'acquisto online ce ne sono ancora).
Ciò detto, arriviamo al punto. Non ho bisogno di dire quanto io storicamente abbia sempre più o meno detestato Vast Aire, mi limito a confessare che l'odio era dovuto solo in parte al suo stile ultrascandito e sovraenunciato (del tipo "impara l'inglese con Vast"); in realtà, a fare i maggiori danni alla mia sensibilità erano i beat che aveva usato per i suoi due album da solista. Ma quando nel gennaio di quest'anno lessi di una sua pubblicazione a quattro mani con tal Karniege, devo dire che la mia disponibilità all'ascolto crebbe; e se poi crebbe ancor più quando scoprii che alle macchine c'erano dei perfetti sconosciuti, dall'altro ammetto che il comunicato stampa mi fece decidere definitivamente per un ricco download e per l'azzeramento (temporaneo, quantomeno) dei miei solitamente inossidabili pregiudizi.
In particolare, a destare in me un'enorme curiosità furono queste parole: "[...] Empire State was shaped over a three year period, it unravels a unique perspective, documenting [...] the changes in the streets of New York City. From Poverty, to the September 11th attacks, to the abuse of Hip Hop culture in general, Empire State stands strong as a snapshot of the city." Ecco: pur non essendo né un nuiorchese né tantomeno un gran conoscitore della città, so per esperienza che le opere che riescono a mantenere la promessa (anche non esplicita) di ricreare istantanee della Grande Mela non solo mi piacciono in termini meramente musicali, ma s'imprimono a fuoco nella mia memoria oltreché nelle mie orecchie. E nel caso di Empire State direi che il cappello vada tolto non solo di fronte a Karniege e Vast, ma anche all'autore del centratissimo comunicato stampa. Il disco in questione riesce difatti a riproporre in chiave aggiornata, e dunque senza far ricorso a scorciatoie di matrice nostalgica- l'efficacia di diversi album degli anni '90 che, almeno per quanto mi riguarda, non solo ascoltavo in quanto musicalmente potenti ma soprattutto perchè capaci di restituire in musica dterminati scorci urbani altrimenti privi di particolare significato (banalmente: traffico, metropolitana, pozzanghere, freddo ecc.). E se ciò gli riesce benissimo è perchè, paradossalmente, non vuole essere universale ma anzi si focalizza su New York lasciando a noi ascoltatori il compito (e lo spazio) di farci le proprie relative seghe mentali.
In un alternarsi tra pestoni quadrati quasi privi di melodie e dalle batterie incessanti (The Uprising, Pandora's Box, The Dark Ages, Blood Sport) ed altre composizioni più "lievi" e mirate al malinconico (Kidz, Blurr, Anything Can Happen), bene o male tutta la gamma del suono "urban" (nella vecchia accezione, non quella attuale e metrosessuale) viene coperta egregiamente senza, salvo qualche svista, repentini e fastidiosi imbizzarrimenti fuori luogo. In più, come dicevo, questo processo non viene svolto mediante smaccati richiami a sonorità del passato, bensì reinterpretando la "formula" -che in verità non può essere definita tale in quanto non artefatta- ed equilibrandola egregiamente tra quello che alcuni considerano rap d'avanguardia ed un approccio più tradizionalista legato ai primi anni '90. I curatori di quest'operazione sono principalmente tre: l'ormai giustamente elogiato Melodious Monk, Karniege stesso e tal Aerz Nights ("Me neither", ©Byron Crawford); oltre ad essi, vanno segnalati anche Madlib ed il defunto Camu Tao, i quali pur non aggiungendo nulla di enormemente significativo riescono ad inserirsi molto bene nell'atmosfera generale. E se particolar menzione meritano senz'altro The Uprising, Anything Can Happen, Kidz e la triviale ma efficace Pandora's Box (dalle forti reminescenze dell'indie di fine anni '90, vedi alla voce Collude/Intrude), devo dire che il resto oscilla sempre tra il medio ed il medioalto, con come uniche eccezioni le noiosette e manieristiche Rock-It-Science e General Stripes, oltre che la cacofonica e realmente insopportabile Night Life, unico vero neo di Empire State.
Quanto agli MC, la combo Vast-Karniege risulta piuttosto efficace nel suo alternare le bizzarrie del primo con la linearità del secondo. In pratica, quando Vast comincia a perdere il filo e ad esagerare col flusso di coscienza (chiamiamolo così), subentra Karniege e rimette la canzone sui binari; viceverasa, quando Karniege comincia ad asciugare nella sua non trascendentale personalità, è il turno del panzone di riaggiustare le cose. E se entrambi dimostrano una buona capacità come battle rapper (non sto ad elencare, ma di carne al fuoco ce n'è), devo dire che gli episodi più felici di Empire State sono invece rappresentati dagli storytelling (Criminal Tales o Anything Can Happen) ma soprattutto dall'eccellente Kidz, che riesce ad unire note autobiografiche del passato, denuncia della diffusa povertà e del crimine a immagini del loro quotidiano, e che vede Karniege scrivere e rappare la miglior strofa del disco: ascoltare per credere. Certo, non sempre l'alchimia tra i due funziona -spesso a scapito di Karniege- ed alle volte questa manca anche in quanto al rapporto col beat, ma fortunatamente questi scivoloni capitano guardacaso sulle basi meno riuscite, quasi che gli autori stessi si fossero resi conto di trovarsi per mano del materiale incapace di suscitare grande inventiva. Ultimo capitolo, gli ospiti: Qualche membro della Stronghold (il per me insopportabile Poison Pen, Swave Sevah), un paio di "star" che effettivamente non deludono (Murs e Vordul) e dei relativi sconosciuti le cui prestazioni vanno dal buono (Genesis) al mediocre (Access Immortal), passando per il bizzarro (sono solo io a pensare che Double A.B. rappi con la stessa identica metrica di Cam'Ron?).
In conclusione, mi rammarica notare come il pur buon Deuces Wild abbia fatto scivolare in sordina questo Empire State (complice forse una distribuzione globale a chiazza di leopardo); personalmente poi ritengo che i paragoni, per quanto comprensibili a causa dell'analogia del sound, non abbiano senso. E se proprio uno li volesse fare, allora potrebbe dire che Deuces Wild è più rifinito e più focalizzato/rifinito nel suo insieme, così come Empire State riesce a preservare quell'aura di ruvidità e odore di hardcore che all'altro manca. Sia come sia, reputo ambedue le opere tra le migliori cose uscite nel 2008 e, in virtù della longevità dimostrata nei fatti da Empire State (mai cancellato da un Ipod da 4GB), gli affibbio quattro ricchi zainetti a dispetto della sue lacune. Toh.


SABAC RED - THE RITUAL (Psychological Records, 2008)

giovedì 13 novembre 2008

Ci sono molti comportamenti, pensieri, stili di vita eccetera propri della cultura hip hop (nella sua accezione più vasta) che risultano del tutto avulsi da quella che è la mia vita e, presumo, quelle di diversi altri ascoltatori. Alcune di queste differenze sono incolmabili e tutto sommato degne di rispetto, ma ve ne sono altre del tutto incredibili -nel senso più streeto della parola- che non possono essere spiegate se non come il risultato di un'ibridazione tra il malcompreso rispetto dell'altrui libertà e la stupidità individuale. Tra di esse, la mia preferita è "I don't want to sound preachy", affermazione che sovente fa capolino nelle interviste, specie se si tratta di rispondere ad una domanda come "Quali sono gli argomenti che tratti nel tuo album?"; visto che nel 90% dei casi le tematiche sono delle boiate, il rapper di turno svolta la domanda con la paraculaggine tipica del "io potrei risolvere i problemi del mondo, se lo volessi, ma...".
Ora, al di là del fatto che non si sente praticamente mai nessuno dire "I don't want to sound dumb", non aspettatevi da Sabac nessuna delle scappatoie di cui sopra. Fin dai tempi dei primi Non Phixion (4W's, Refuse To Lose, Legacy) John Fuentes aveva sempre dato un taglio più "conscious" e sobrio alle sue strofe, tanto che questo l'aveva forse penalizzato rispetto ai suoi compagni, visto che con tutta la buona volontà è difficile far risaltare un'attitudine militante in sole sedici misure (semprechè non la si voglia sparare grossa, è ovvio) di una canzone la cui scelta del tema forse non rispecchia la propria personalità al 100%. Fatto sta che dei tre MC dei Non Phixion, 'Bac è sempore stato il meno seguito benché oggettivamente non gli si potesse contestare dilettantismo o altro. Ciò ha purtroppo comportato un relativo disinteresse verso il suo esordio, Sabacolypse, che benché presentasse alcune fiaccate era meritevole di uno o più ascolti; invece, tracce come Speak Militant, Fight Until The End, Sabacolypse, The Scientist o Organize vennero gettate nel dimenticatoio assieme all'acqua sporca. Ora, a distanza di quattro anni abbondanti, la situazione mediatica evidentemente non è migliorata per il Nostro, tant'è che l'uscita di The Ritual è passata completamente in sordina. Ma mentre gli altri dormono, il genio mantiene vigile l'attenzione ed ecco quindi che decido di spendere quattro parole su questo disco che -già lo so- si cagheranno di striscio a malapena in cinque. Certo, non aiuta il fatto che la Psychological Records non sia più quella di cinque anni fa; certo, il fatto che Necro sia completamente assente dal campionatore nemmeno; e men che meno facilita le cose il fatto che in contemporanea sia uscito The Hour Of Reprisal di Ill Bill -una sorta di Michael jackson dei Non Phixion.
Eppure i motivi per dargli una chance ci sono. Primo fra tutti l'impegno e l'onestà da parte di Sabac sia nello scrivere le rime che nello scegliere le tematiche e nel saperle esporre: ennesimo figlio dello stile multisillabico, egli lo usa come semplice mezzo per portarci in un mondo fatto di ingiustizie sociali (America's A Business), visioni apocalittiche (When The Lights Go Out), autodisciplina (The Commitment), amore per la propria gente (Viva Boricua) e -non scontato- note direttamente o indirettamente rivelatrici della sua personalità (The Life I Live, As Children Cry, The Ritual). L'insieme dei testi riesce a fornire una visione piuttosto completa -almeno, suppongo- di John Fuentes e di ciò in cui crede, e la cosa più interessante è che pur senza apparire una mezza cartuccia e men che meno un frikkettone l'immagine che ne viene fuori è senz'altro positiva. Inevitabilmente, questo mi porta a provare simpatia nei suoi confronti, il che mi fa glissare forse troppo sulle smagliature liriche che The Ritual contiene (Reality Tell-A-Vision è di fatto un collage degli altri testi, Breaking Through è un po' legnosetta nella metrica), ma non credo di peccare di soggettività se dico che l'unica vera critica che si possa muovere a Sabac è quella di non essere dotato di grande carisma e/o colpi di genio. Tolto questo, non solo The Ritual è interessante da ascoltare ma va anche rilevato che nel complesso risulta più focalizzato del precedente Sabacolypse: promosso con la lode, quindi? No, ma con un voto ben oltre la sufficienza sì.
Il discorso si fa invece un po' diverso quando andiamo a parlare dei beat. Come ho già scritto, di Necro nemmeno l'ombra; a sostituirlo c'è perlopiù il prolifico duo di nome Blue Sky Black Death -trovati finora invero noiosetti-, Skammadix (già sentito sull'ultimo degli Army Of The Pharaohs), Sicknature (idem) ed altri in ordine sparso (Ill Bill, Krohme, Snowgoons, Cimer Armor e Undefined Beats). Vi confesso che sulla carta la suddetta lista non mi aveva emozionato un granché; temendo io un mix letale di robetta para-wutanghesca e pistolottoni ultraepici, sono giunto al punto che sentendo i pur non brillanti risultati la mia impressione è stata inizialmente esageratamente positiva. A mente fredda, invece, posso dire che un po' di cose belle ci sono ma che nella maggior parte dei casi è 'Bac a reggere le tracce. Ma quando la combinazione scatta, non si può non restare con un sorriso stampato in faccia: The Ritual, ad esempio, pur non godendo di grandi batterie fa la sua porca figura grazie alla bella melodia che sa tremendamente di spaghetti western (se qualcuno ha voglia di cercare il campione originale, prego); Death And Destiny campiona o comunque plagia spudoratamente il giro di chitarra di Wasting Love degli Iron Maiden -purtroppo omettendo il bridge- con risultati estremamente gradevoli e adatti all'atmosfera da storia triste di natale del pezzo; America's A Business segue sempre il filone del melodico cupo, mentre a riportare un po' di sano hardcore ci pensano Open Book Policy e l'ottima Darkness Deepens (già sentita su nonricordopiùquale mixtape di Ill Bill). Tolte queste, ripeto, si viaggia purtroppo lungo un sentiero di "carineria" francamente delittuoso se si pensa al potenziale sprecato; e ancor più viene da strapparsi i capelli quando ci tocca sucare un flow a tempo raddoppiato che viaggia su una cacofonia ambulante -mi riferisco a Empty V- oppure la solita menata latina con le chitarrine da film di Pieraccioni (indovinate un po' di che canzone si tratta). Del resto non è che la melensaggine di As Children Cry sia molto meglio, ed inoltre avrei anche un suggerimento da dare a Skammadix su cosa fare del becero campione di flauto di Reality Tell-A-Vision, -e, davvero, non riesco più ad ascoltare il loop di campanelline usato per Breaking Through: d'accordo, è bellino e tutto quanto, ma è tipo la terza volta che l'odo in sei mesi!
Insomma, siamo alle solite... rappusi, sceglieteveli meglio 'sticazzo di beat! Perchè altrimenti persino la persona più bendisposta nei vostri confronti potrebbe giungere alla noia, e questo non solo è oggettivamente grave in quanto fatto a sè stante, ma lo è ancor di più se si pensa che in casi come quello di Sabac potyremmo perderci parte del messaggio che voi tanto tenete -e si vede e vi fa onore- a trasmettere. Ergo: con una selezione più accurata ed una maggiore varietà avremmo potuto avere di fronte un disco eccellente, mentre così resterà un oggetto per pochi appassionati. Peccato.

P.S. Chapeau per la copertina, anche se starebbe meglio su un singolo dei Tool, rispetto alla cialtronata di Sabacolypse siamo su un altro mondo; discretamente realizzato il DVD incluso nella confezione (anche se la lezione sugli alberi da far piantare ai bambini è da vedere per credere da tanto che asciuga).





VIDEO: THE COMMITMENT

DJ REVOLUTION - KING OF THE DECKS (Duck Down, 2008)

martedì 11 novembre 2008

DJ Revolution stesso ha spiegato cosa lo ha portato a creare il suo primo album in veste di produttore "tradizionale" (chi ha sentito il precedente In 12's We Trust capirà meglio cosa intendo): riallacciare il rapporto tra MC e DJ, cioè due figure un tempo saldamente interconnesse ma che ora sono di fatto separate in casa. In effetti, per dargli ragione, io che ho sempre considerato diggèi solamente chi è capace di scratchare, mixare tramite vari trick ed ha una considerevole conoscenza musicale, m'ero chiesto cosa fosse questa pletora di aspiranti tali che negli ultimi anni hanno contribuito enormemente a saturare il mercato dei mixtape e a rendere indigeribile pressoché qualsiasi cosa sui cui apparivano.
Non trovando però risposta al fondamentale quesito, e vedendo i DJ "classici" rifugiarsi sempre più nel mercato di nicchia degli aficionados del genere, alla fine m'ero rassegnato a non rivedere più uno dei quattro pilastri dell'hip hopcosì come l'avevo conosciuto. E invece eccoci qua davanti a questo King Of The Decks, e scemo io a non aver pensato a Rev come ultimo rifugio per i frustratoni quali il sottoscritto; infatti, il Nostro non solo è resident DJ allo storico Wakeup Show, ma negli anni ha prestato i suoi talenti sia nel campo delle produzioni che in quello degli scratch, riuscendovi peraltro molto bene. Chissà: sarà il suo gusto per i pestoni ed i suoni belli pieni in caratteristico stile nuiorchese, saranno i suoi scratch sempre precisi e di molti passi oltre il classico cut da ritornello: ma bene o male ogni volta che in passato ho letto il suo nome tra i crediti di una canzone non sono mai rimasto deluso. Naturale dunque correre a prenotare KOTD senza perdere troppo tempo a scaricare il solito leak; dopotutto, se qualcuno negli anni s'è guadagnato la mia fiducia questo è proprio Revolution. Aggiungiamoci che il biglietto da visita è stato Damage -un'autentica bomba con due cinghiali di spicco quali Poet e Bumpy Knucks- ed ecco che una settimana e qualcosa fa sono tornato dalla mia missione per pistonare seduta stante il CD nel caddy del computer. Senza volerla far lunga, vi dico subito che per una metà questo è il disco più bello dell'anno. Per l'altra, è robetta superflua e nulla più.
Incredibile, vero? Eppure è così, con tanto di spartiacque: infatti fino alla tredicesima traccia (inclusa), guardacaso proprio la sopracitata Damage, è tutto un fiorir di bombe o robe comunque parecchio degne. Da lì in poi -così, su due piedi- si scende invece nel regno della stronzatona col botto o, più eufemisticamente, in quello della pigrizia. E non solo come beat ma anche come ospiti, i quali o nascono dal principio come mezzi aborti (la sempiterna scarsa Strong Arm Steady Crew) oppure deludono oltre il limite consentito (Planet Asia).
Ma procediamo con ordine: subito dopo l'introduzione e la relativa benedizione di Jazzy Jeff (a proprosito: ci sono tantissimi skit e francamente non ho voglia di commentarli tutti) le danze si aprono grazie ad una performance di Sean Price (puntualmente bravo seppur senza particolari sprazzi di genio) ed il redivivo Tash, alias colui che avrei voluto sempre osannare come MC ma che grazie alle sue scelte di beat m'ha puntualmente fatto crollare i coglioni. Per fortuna, in questo caso la base è più che solida, sia grazie al campione funkettone, tagliato in più loop sovvrapponentisi, che alle batterie in pieno stile Revolution: bassi pieni, cassa secca e rullante un po' ammorbidito (tanto che l'insieme fa correre il pensiero alla stupenda The Radar di Marco Polo in cui, guardacaso, Rev si occupava degli scratch). Dal canto loro, Tash e SciooonPiii non deludono e anzi, il primo regala una delle sue prestazioni migliori dai tempi della strofa di Heavy Rotation (2001). A coronare il tutto ci pensano poi i ritornelli scratchati più la lunga routine finale, in cui l'autore del disco taglia e cuce le voci di duemila personaggi -Guru, Inspectah Deck, Run DMC, Nas, Jigga, Capone 'N' Noreaga, Rakim solo per citarne alcuni- senza peraltro copiaincollare nulla, come ad imperitura dimostrazione della serietà con la quale prende il suo lavoro.
Segue un altro di coloro che ci eravamo persi per strada, cioè quel KRS One che tante cagate ha prodotto negli ultimi anni e che qui invece è in piena forma, il quale con la sua The DJ tiene un corso accelerato su cosa significhi essere un vero diggèi scristonando addosso a chi, a dir suo, è un impostore. Al solito: qualcuno sarà infastidito dal suo sentenziare, ma è anche vero che tutti i punti che elenca sono difficilmente opinabili. Alcuni di questi, poi, andrebbero incisi a fuoco nelle carni di molta gente, come se questa fosse composta da grassi vitelli: il più significativo della lunga lista è secondo me "just because you could scratch doesn't mean you should", dato che va a colpire gli estremisti dal proprio lato della barricata. Ma sono convinto che anche dopo ripetuti ascolti chiunque potrà trovare qualcosa da ricordarsi e che senz'altro farà correre il pensiero a questo o a quell'altro "artista". Abbandonate le velleità anni '70, questa volta il beat tende all'orchestrale e secondo me rende meno di altri, ma non si può nascondere che sia più che sufficiente a non danneggiare il veterano del Bronx, che anzi dimostra carisma in abbondanza e riesce a gestirselo come meglio gli pare.
Ma è per la mia maggior soddisfazione che con Do My Thing si torna ai loop funkettoni, e stavolta è il turno di Royce The 5'9'' di distruggere il microfono e, spero involontariamente, umiliare un pur prestante [no homo] Guilty Simpson: la sua strofa non solo fa a pezzi il povero concittadino, ma da la paga a qualsiasi sua cosa sentitasi di recente, e scusate se è poco. No, sul serio, che fosse bravo non l'avevo mai messo in dubbio ma qui è spettacolare, ed il fatto di avere come supporto una base finalmente bella non fa altro che aumentare la mia soddisfazione. Chapeau, insomma: strofa migliore di tutto King Of The Decks e chi s'è visto s'è visto. Salto invece a pie' pari la pur meritevole Funky Piano -bello il beat, inaspettatamente valido Bishop Lamont ed eccezionale la routine di chiusura- per giungere ad una delle mie tracce preferite di tutto il disco: The Big Top. Ci sarà qualcuno che non mi capirà, ma sta di fatto che sentire i Special Teamz "funzionare" come dio comanda -dopo il deludente Stereotypez- non può non riempirmi di gioia. Non solo Jaysaun, Slaine e l'immenso EdO.G fanno a gara nel clown-rapper-bashing, ma sia l'approccio alle strofe che l'intro e, naturalmente, il beat vero e proprio centrano il punto e danno forza ad un concetto in sè e per sè abusato fino alla noia. Quando poi Rev mette insieme il Royce di Boom ("Rap now is a circus of clowns") ed il Kool G Rap di Ill Street Blues ("Cause I don't play clown!") mentre sullo sfondo gira in loop un campione di campanellini da giostra del luna park, il backpacker che è in me non riesce a smettere di fare headnodding e fare le cornine con la mano destra.
Il successivo mezzo passo falso del pezzo con l'intera Boot Camp Clik -beat troppo rilassato, peccato- viene volentieri scordato grazie alla collabo tra Joell Ortiz ed il prezzemolino Termanology, che da soli tirano su un beat non troppo riuscito nel suo voler essere latinoamericano. Nulla di trascendentale nel complesso, ma di certo materiale che aiuterebbe KOTD ad entrare nella top ten dei dischi dell'anno; e se anche questa non dovesse bastare, ecco che arriva Iriscience e l'ottima Casualties Of Tour. Non vi nasconderò che in primo luogo lui mi pare decisamente meno noioso dello standard, ma soprattutto che, tra la bella base (l'unica prodotta da un esterno, Marco Polo) ed il tema di respiro un po' più ampio del binomio "io sono figo/ w la doppia acca", al momento giusto giunge un po' di varietà. Varietà, questa, che viene poi ulteriormente espansa grazie a due dei pochi che fanno effettivamente brutto: Blaq Poet e Bumpy Knuckles terronizzano il beat più smaccatamente Premierano, grattandosene altamente del ruolo del diggèi, dell'hip hop ed anzi mettendo in chiaro che: a) sono lì pronti a romperti il culo, b) dopo averti sfondato la tana ti rapineranno e c) dopo averti rapinato ti romperanno il culo di nuovo, tanto per essere sicuri che ti ricorderai di loro. Nulla di nuovo sotto il sole, eh, ma ammettetelo: sentire Poet e Bumpy fare i delinquenti è come sentire Einstein insegnare fisica... c'è chi può e chi no, e loro possono.
Purtroppo, come dicevo, da qui in poi il disco subisce come uno choc; inspiegabilmente, man mano che si prosegue nell'ascolto la qualità cala. Intanto salta fuori tal Styliztik Jones, che di fronte ad una metrica discreta ed una buona scrittura sfodera però una delle voci più letargiche degli ultimi tempi; e questo giusto in tempo per far entrare in scena una sorta di MiniMe sotto elio che risponde al nome di KBimean, il quale affossa definitvamente la canzone al punto che stavolta non ci sono scratch che tengano. Segue a ruota Blow Da Spot e, as usual, la Strong Arm Steady fa sprofondare i miei timpani verso un terrore innominabile (per dire: "My whole objective is to sell records like Master P" è il massimo d'inventiva che questi campioni sono capaci di regalarci, e glissiamo pure su quanto sia datato il riferimento), mentre Planet Asia non solo non si da abbastanza da fare, ma risulta pure handicappato da un beat monotono e fiacchissimo, forse il peggiore dell'intero pacchetto. Defari non lo commento nemmeno *YAWN* ma almeno aiuta Evidence a sembrare interessante anche se oramai evidentemente scrive sullo stesso beat da tre anni. Chiudiamo in disgrazia con un ritorno del già nominato KBimean, che senza volerlo ci fa venire in mente quanti mestieri una persona potrebbe fare al di fuori del rapper.
Insomma, è come se una madre incinta di Keira Knightley decidesse a metà gravidanza di fumarsi ottocento pipette di crack finché, PUF, ecco che senza un perchè ti salta fuori Antonella Elia. Ovvio che se tu le avessi pagato l'ospedale e le cure un po' i coglioni ti girerebbero... insomma, cos'è successo? Cosa ha fatto scattare la molla di follia nella testa di DJ Revolution? E' per caso un virus, magari lo stesso che ha portato Spike Lee a delirare dalla metà di Miracolo A Sant'Anna in poi per giungere ad uno dei finali più involontariamente comici che la storia del cinema ricordi negli ultimi trent'anni? Chissà. Il punto è che sono per metà esterrefatto e per metà deluso. Ma attenzione: non lasciamo che la seconda metà del disco (in verità avente meno canzoni) oscuri le chicche contenute in King Of The Decks. Solo ricordatevi che, una volta giunti alla fine di Damage, dovete premere stop o rewind. Una delle due.





VIDEO: BIG TOP

EAST COAST AVENGERS - PRISON PLANET (Brick, 2008)

venerdì 7 novembre 2008

Scusate l'assenza ma negli ultimi due giorni son stato un po' alle cozze, per cui la settimana è risultata davvero magra. Tuttavia, non volendo chiudere questa prima settimana di novembre con un nulla di fatto, mi piacerebbe far coincidere la vittoria di Obama e le razioni da essa sucitate con un disco piuttosto particolare: Prison Planet.
La firma che porta è quella dei East Coast Avengers, un nome nuovo che riconduce a tre personalità relativamente note della scena underground bostoniana: Esoteric, Trademarc e D.C. the Midi Alien. Il primo è senz'altro il più celebre del trio, avendo alle spalle almeno dieci anni di pubblicazioni regolari sia a quattro mani con il suo socio 7L, sia come solista, sia infine come ospite occasionale o membro fisso di altri collettivi (gli ormai sciolti God Complex e Demigodz, e naturalmente gli Army Of The Pharaohs); lo segue a ruota il misconosciuto Trademarc, che i più ricorderanno per l'assistenza fornita nel disco di suo cuggino John Cena e che pertanto tra i tre fa ingiustamente la figura dello scrondo raccomandato di turno; infine, c'è il produttore D.C., che si è coperto di onore -ma purtroppo non di gloria- per l'ottima opera svolta sul primo disco di Termanology (che, mi piace ricordarlo, è superiore a Politics As Usual). Insomma, non possiamo certo parlare di personalità di spicco dell'ambiente, ma questo grazie a dio non ha mai compromesso effettivamente la bontà della musica e per fortuna non crea un precedente in quest'occasione.
Ma di cosa si tratta, che cos'è Prison Planet, come va inquadrato? Attenzione: la domanda non è superflua, perchè fin dal primo ascolto completo ci si rende conto in qualche modo che quello che ci troviamo tra le mani non è chiaramente definibile né come un disco di forte stampo politico, né come una raccolta di sboronate in omaggio alla costa atlantica; più correttamente, diciamo che in esso gli MC rappano in stile smaccatamente nuiorchese su beat che traggono chiara ispirazione dal sound della New York di fine anni '90, lanciandosi spesso in commenti sociopolitici che altrettanto sovente sfociano in una voluta esagerazione oppure in uno storytelling perlopiù allegorico. Ora, detto questo non ci vuole un grande sforzo d'immaginazione per sospettare che, onde ottenere un risultato positivo avendo simili ambizioni, ci devono essere talento e creatività in egual misura, ed è proprio qui che l'ago della bilancia oscilla più rapidamente.
Tanto per cominciare, ce n'è per tutti i gusti: dal viaggione cinematografico à la Kool G Rap incontra i Public Enemy (almeno nelle intenzioni) di Kill Bill O' Reilly o The Trouble With Motorcades si passa disinvoltamente a tracce più concettuali -sia stilisticamente (Vengeance) che contenutisticamente (A Valiant Effort)- per poi spostarsi alla pura e autocompiaciuta tamarraggine (East Coast Overdose, Let It Knock), senza naturalmente scordarsi dell'aspetto più serio e di critica esplicita, di cui Hey America e Lady Liberty sono forse gli esempi migliori. Per converso, la varietà delle atmosfere musicali non è altrettanto ampia ed è quindi facile terminare l'ascolto del disco con una sensazione di ridondanza solo parzialmente alleviata dagli sforzi degli MC: in nove casi su dieci non si sfugge al campione di archi oscillante tra il malinconico e l'epico, tanto che quando D.C. decide di spostarsi in campo più pestone si è quasi portati a pensare a parole come "innovazione", anche se naturalmente non è così.
Tuttavia, benchè l'eccessiva omogeneità musicale resti un difetto oggettivo, non nutro dubbi sul fatto che gli estimatori del rap più classico potranno comunque apprezzare alcune perle quali East Coast Overdose -premierana al 100% ma comunque davvero ben fatta- così come l'ottima Hey America, che combina sapientemente maracas, pianoforte, un riff di chitarra graziaddio non troppo enfatizzato ed una batteria quadrata ed incessante che consente a Eso e Trademarc di dare il meglio di sè. Di matrice decisamente cinematografica è invece il campione di Prison Planet (credo sia tratto da quella ficata di Avalon, a cui già attinse Stoupe per Poet Laureate II), che precede la vivaldeggiante Show & Prove e va ad inserirsi nel filone più roboantemente epico del disco assieme a Lady Liberty e Clean Conscience. Ma non tutto Prison Planet gira secondo la logica "più forte è, meglio è", e così sono stati saggiamente scelti alcuni beat più "leggeri" seppur sempre molto caduchi: Riot Act utilizza ad esempio un canto femminile che ricorda parecchio Sangue & Filigrana dei Dogo; Too Much To Ask opta nuovamente per dei violini (che, tra parentesi, suonano bene ma a metà disco cominciano a rompere un po' i coglioni) mentre Win/Win Situation oscilla con gusto tra poche note di piano combinate con altrettante di xilofono; A Valiant Effort, infine, risulta la canzone più azzeccata del gruppo in quanto l'accoppiata tra il coro femminile e la chitarra acustica funziona sorprendentemente bene e, soprattutto, si accompagna decisamente bene al tema della canzone.
Ecco, già che ci siamo: ma a testi come siamo messi? Beh direi piuttosto bene. Ad esempio, la sopracitata Valiant Effort vede Trademarc ed Eso ricoprire i ruoli di un suicida e dell'ispettore di polizia che ne scopre il cadavere e, per quanto il tema non sia nuovissimo (cfr. Suicidal Thoughts) bisogna ammettere che il taglio datovi per l'occasione rende il tutto degno di più ascolti. Lo stesso dicasi per Win/Win Situation, che ricalca Anatomy Of A School Shooting fino a rasentare forse il plagio concettuale, mentre va detto che The Trouble With Motorcades sarebbe degna di una vera e propria rappresentazione su pellicola -e la sceneggiatura non avrebbe bisogno di ritocchi da tanto che il testo riesce a proiettare immagini dettagliate o evocative.
Tolti questi storytelling, la carne al fuoco è comunque tanta: come già detto, fatte salve un paio d'eccezioni i Nostri riescono sempre ad inserire della critica sociale nei vari pezzi, e per quanto questa non raggiunga né la chiarezza né l'originalità dei modi di Immortal Technique, è di certo più focalizzata della media. Casomai potrebbe far storcere il naso il fatto che alle volte le loro opinioni vengano espresse in maniera un po' tanto bombastica e volendo adolescenziale (vedi Kill Bill O'Reilly o Lady Liberty), però bisogna ricordarsi che siamo di fronte a della musica e non a un libro di Chomsky, pertanto li si può anche perdonare. E del resto sono gli stessi ECA a cercare di raggiungere la sintesi tra tecnica e contenuti, tanto che alle volte è il pezzo "tematico" a risultare anche stilisticamente superiore alla controparte cazzona: è solo uno dei possibili esempi, ma basti pensare alla prima strofa di Hey America, che manda a casa l'intera (e peraltro inutilissima) Torture Rack in un niente. Buone infine le ospitate: da un redivivo Bumpy Knuckles -che per una volta tanto non vi minaccia di pestarvi come l'uva- all'ormai campione della cazzatona col botto Celph Titled, da Termanology ad un incredibile Apathy, nessuno delude e francamente aiutano non poco a creare un po' di varietà.
In conclusione, diciamo che Prison Planet è per pochi e richiede tutta una serie di premesse. La prima e la più ovvia è che i suoni classici vi piacciano, e parecchio; la seconda è che da un lato siate interessati a contenuti e discorsi più articolati della media reppusa (cosa che mi auguro per voi, principalmente) ma che dall'altro non siate nemmeno eccessivamente bacchettoni; il terzo, infine, che riusciate a sopportare la voce e la pronuncia di Trademarc: non l'avevo ancora detto, ma per quanto tecnicamente competente, il suo modo di arrotolare le erre ed il tono nasale lo rendono spesso un po' pesantuccio. Detto questo, e denunciate l'unica vera cagata(Torture Rack) ed un paio di tracce di troppo (Clean Conscience, Too Much To Ask), resta solo il mio consiglio di prestare attenzione al disco perchè certo, siamo d'accordo che non sia Illmatic, ma certamente si merita un posto tra gli album meglio riusciti del 2008.




VIDEO: KILL BILL O'REILLY