BOOT CAMP CLIK - ADVANCED TRAINING (2009)

venerdì 29 maggio 2009

Se al ritorno dal lavoro ho un po' di tempo libero dedico al post in questione qualche riga in più; intanto dovreste arrivare da soli a notare che si tratta di un greatest hits della Boot Camp Clik comprendente tracce tratte dai loro ultimi tre lavori collettivi (da qui il titolo che si pone come seguito ideale del Basic Training, ovverosia il greatest hits ufficiale pubblicato nel 2000). Produzioni di Marco Polo, 9th Wonder, Coptic, Large Professor e altri - ho mantenuto il numero di pezzi al filo della soglia dell'essenzialità perchè così secondo me si rivela un ascolto praticamente inskippabile (e poi oh, comprateveli i dischi che meritano tutti abbastanza, specie The Last Stand). Nello zip troverete anche la grafica -fatta in quattro e quattr'otto questo pomeriggio- e come al solito vi raccomando di masterizzare senza mettere spazi vuoti tra le varie canzoni. Via di tracklist:

1. Here We Come
2. The Hustle
3. Welcome To bucktown U.S.A.
4. Let's Go
5. BK All Day
6. Trading Places
7. I Want Mine
8. Let's Get Down 2 Bizness
9. Worldwide
10. And So
11. He Gave His Life
12. The Chosen Few

Boot Camp Clik - Advanced Training

LORD FINESSE - THE AWAKENING (Penalty Recordings, 1995)

mercoledì 27 maggio 2009

Prosegue la settimana lavorativa hardcore e proseguono i tentativi da parte mia di mantenere aggiornato il blog senza eccedere in fesserie. Oggi tutto questo mi risulta facilitato dalla scelta di recensire il terzo album solista (a voler essere fiscali il secondo) di Lord Finesse, uscito ormai nel lontano 1995, che non solo conosco bene ma che ha la peculiarità di essere, in buona sostanza, un EP. Non lasciatevi infatti confondere dalla numerazione della tracklist: vi sono sì sedici nomi di pezzi, ma soltanto nove di essi corrispondono a canzoni vere e proprie.
Ma prima di addentrarmi anche in questo aspetto, un po' di sano ed inutile background: come ho conosciuto Lord Finesse? Diciamo per puro caso (tenete presente che nel '95-'96 ero tutto fuorchè l'enciclopedico pozzo di scienza che sono ora): durante il concerto dei Cypress hill del '96, infatti, gli organizzatori o chissa chi offrivano in omaggio un vecchio numero di Aelle, mi pare addirittura risalente all'ottobre dell'anno precedente, in cui tra le altre cose vi era un'intervista a Bassi Maestro. Bassi Maestro il quale, nel pieno della polemica su coloro che egli definiva gli estimatori, ad un certo punto citava The Awakening come esempio di disco riuscito benissimo nonostante non vi si esprimesse alcun tipo di concetto particolare. Ebbene, siccome erano ormai diveri mesi che vedevo questo album sugli scaffali dell'ormai defunto Virgin di piazza Duomo, decisi di dargli una chance. Del resto, le alternative per me papabili erano Mr. Smith e All Eyez On Me, che peraltro già avevo.
In tutta onestà il CD non mi piacque affatto, ad eccezione di un pezzo: lo straordinario remix di Brainstorm, che non a caso annovero ancor'oggi tra le mie venti canzoni preferite di sempre. Il resto, detto molto onestamente, mi pareva abbastanza una puzzetta e perciò lasciai l'opera a prendere polvere sugli scaffali per qualche tempo. Ma in breve il mio interesse per la D.I.T.C. cominciò a crescere e così concessi più e più opportunità d'ascolto a The Awakening fino a quando il mio giudizio non si formò completamente. Ve lo anticipo? Massì che ve lo anticipo: incredibilmente, confermo la mia opinione di neofita dicendo che Awakening è piuttosto una puzzetta. Ma attenzione: nel '96 lo pensai per via di una certa amelodia dei beat che mi rendeve il tutto indigesto, mentre oggi lo penso perchè conosco meglio l'opera e dunque le capacità di Finesse e pertanto, ciò che egli ci serve come portata, non mi sembra particolarmente ben riuscito; e per giunta il tutto risulta di una brevità -oltretutto danneggiata da continue interruzioni- secondo me difficilmente giustificabile. Ma entriamo nel dettaglio partendo dai momenti buoni.
Ecco: i momenti buoni, quando ci sono, sono tali che da un lato fanno cadere la mascella e dall'altro però portano a dubitare che chi ha creato una Speak Ya Peace possa essere la medesima persona autrice di una Gameplan. Prendiamo appunto Speak Ya Peace: tutta l'essenza del suono nuiorchese dell'epoca si può ritrovare nel taglio del sample vocale, nella linea di basso, nei campioni mescolati di sax e campane eoliche che vanno a conferire un'atmosfera claustrofobica al tutto e nei puntuali charleston serratissimi che accompagnano le solite cassa e rullante (un retaggio tipico del passato). Oppure anche il loop bitonale di basso che nella sua sola essenzialità, e nuovamente assistito solamente da una sporadica apparizione di tromba riverberata, riesce a mantenere in piedi la bellissima Actual Facts. Senza poi contare il modo in cui viene usato il campione dell'onnipresente Snow Creatures di Quincy Jones per Brainstorm: questo sarebbe infatti di per sè breve (nell'originale), ma viene tirato ad un punto tale che il risultato finale è a metà tra uno stridio di gesso sulla lavagna ed un lamento: incredibile. Insomma, senza voler star qui a fare la biopsia di tutti i beat, mi preme sottolineare -anche se non dovrebbe essere necessario- come Lord Finesse sia ampiamente capace di produrre autentiche perle del beatmaking capaci di durare nel tempo.
Ed anche come emsì il Nostro è ormai da tempo sottovalutato, e questo benchè agli inizi degli anni '90 si fosse piazzato secondo al MC Superbowl perdendo contro nientepopòdimeno che Supernatural. Beh, nel caso, i suoi dischi sono il miglior memento del suo talento di battle rapper. Infatti, tolte un paio di eccezioni irrilevanti ai fini della regola (S.K.I.T.S., per dirne una), Finesse è sempre stato uno che ha posto la punchline sopra a tutto. Un approccio, questo, che potrebbe venire a noia ma che grazie ad un indiscutibile sense of humor ed una innegabile fantasia riesce quasi sempre a convincere anche se a distanza di così tanti anni alcune appaiono quasi ingenue ("I'm on the rise like afros in the 70s"). Oltre a ciò, la sua tecnica fortemente radicata nello stile della Grande Mela e la sua voce nasale contribuiscono a rendere l'intero "pacchetto" di indubbia godibilità per qualsiasi appassionato del genere come del resto dimostrano anche alcune tracce soliste qui presenti (su tutte Flip Da Style).
Purtroppo, però -e qui cominciano i difetti- la prima cosa che balza all'occhio è l'abbondare di featuring di vario genere. Intendiamoci: sono pure di qualità (O.C., KRS One, Large Pro, Sadat X e Grand Puba cacciano strofe da applausi) ma oltre a "bruciare" il protagonista principale fanno sorgere la domanda se si stia ascoltando un solista o una compilation. In fondo, se compro Lord Finesse è perchè vorrei sentire Lord Finesse, giusto? Tutto il resto è grasso che cola, ma qui il rapporto è di 50 a 50 su un numero complessivo di tracce davvero basso. E, come a peggiorare le cose, sono proprio i pezzi solisti a soffrire maggiormente di beat relativamente scadenti o anonimi: Flip Da Style, ad esempio, sfoggia un campione di xilofono non esattamente memorabile, mentre True And Livin' e Food For Thought sembrano due versioni lievemente modificate della stessa idea. Meglio va con Hip 2 Da Game, che è perlomeno "memorabile" nell'accezione più stretta del termine, ma che comunque appare manieristica nell'approccio pimpalicious non a caso già sentito e risentito in quegli anni (O.C., Mic Geronimo, AZ, Ill Al Skratch eccetera eccetera) e che pure liricamente lascia il tempo che trova (cfr. Gameplan).
Last but not least, l'orgia di skittini allunga il brodo con le cazzate in un modo francamente imperdonabile. A chi importa sentire Doo Wop o MC Lyte dire coglionate random tra un pezzo e l'altro? Peggio ancora, poi, se ad accompagnare i deliri degli "ospiti" ci sono basi contenenti idee ben più interessanti di quelle poi effettivamente realizzate e trasformate in canzoni vere e proprie.
Insomma, come dicevo all'inizio, rispetto agli standard di Finesse questo Awakening è una puzzetta. Spiace dirlo, ma è così. Certi errori e certe altre facilonerie, del resto assenti nei suoi lavori precedenti, risultano onestamente incomprensibili e davvero contribuiscono in maniera determinante ad affossare quel che di buono c'è nell'opera la quale. Insomma, malgrado vi siano tre pezzi da 90 come Brainstorm, Speak Ya Peace e Actual Facts (traccia bonus per la sola edizione su CD) e malgrado l'emceeing sia sempre su buoni livelli, non posso dare più di tre zainetti al tutto.




VIDEO: ACTUAL FACTS

GZA/GENIUS - BENEATH THE SURFACE (MCA, 1999)

martedì 26 maggio 2009

Sono molto dispiaciuto ('na roba) nel dirvi che, come del resto avrete già notato da soli, malgrado abbiate espresso delle preferenze per questa settimana io me ne impipperò. Il motivo di questa scelta è dato un po' dall'aria che si respira in politica, ma soprattutto dal fatto che è una settimana pesantissima in termini di lavoro e che, pertanto, se voglio recensire qualcosa, questo qualcosa deve soddisfare due fondamentali criteri: a) lo devo conoscere bene, b) deve farmi venir voglia di scriverne. Labcabincalifornia purtroppo non risponde a nessuno di questi due criteri e, siccome ieri l'ho riascoltato e m'ha fatto cadere le braccia -non so, si vede che non ero dell'umore giusto, non mi pare una buona idea dedicargli il mio tempo. Abbiate dunque comprensione.
Un disco che invece corrisponde alle sopracitate prerogative è l'ottimo Beneath The Surface di GZA, passato ovviamente in sordina in quanto sequel di Liquid Swords, ma comunque capace di resistere al logoramento del tempo quasi quanto il predecessore. Infatti, pur non essendo privo di scivoloni in un certo senso "gratuiti" (mi spiegherò meglio più avanti), esso ha l'inconsueta peculiarità di mantenere gli stessi pregi e gli stessi difetti a dieci anni di distanza: le canzoni belle quelle sono, i beat brutti quelli sono, punto e basta. Un disco in bianco e nero, dunque, dove le scale di grigi sono secondo me ben poco utilizzate.
Vogliamo farla semplice? Benissimo, allora: Beneath The Surface, Breaker Breaker, High Price Small Reward, 1112 e Mic Trippin' sono i pezzi (quale più e quale meno) definibili come "belli". Per converso, Hip Hop Fury, Crash your Crew, Stringplay e Feel Like An Enemy sono quelli brutti e, infine, Amplified Sample e Victim sono quelli a cui manca qualcosa per ottenere un giudizio positivo. È poi quasi sottinteso (ma non si sa mai) che la bruttezza di alcune creazioni è da considerarsi relativa, visto che abbiamo a che fare con GZA e non Gucci Mane, ma preferisco comunque parlarne in simili termini giusto per non confondere le acque e perchè, in fondo, quando si ascolta un album di Gary grice il metro di giudizio è tarato sulle sue potenzialità e non su quelle di un mammalucco qualsiasi.
Ciò detto, cominciamo a scendere nei dettagli di un album atteso al varco con una certa trepidazione e in generale delle attese fuori dal comune. Quando agli inizi dell'estate '99 venne pubblicato Beneath The Surface, infatti, esso dovette relazionarsi a due problemi: il primo era ovviamente lo scomodo paragone col classico che lo aveva preceduto; il secondo invece riguardava più in generale lo sfascio qualitativo del Wu-Tang nel suo complesso, che dal pubblicare Cuban Linx e Liquid Swords in un anno era passato a promuovere prodotti infinitamente inferiori specialmente per quel che riguardava i duemila suoi affiliati. Considerate le circostanze, quindi, il pubblico (incluso il sottoscritto) sperava che il buon GZA riuscisse a raddrizzare la rotta mediante un album quantomeno ineccepibile e, in tutta onestà, l'assaggio dato dal singolo Publicity b/w Breaker Breaker aveva lasciato ben sperare. La prima canzone, prodotta magistralmente da Mathematics, segue la falsariga di Labels spostandosi stavolta nel campo delle riviste: inutile dire che il carisma, la voce e la tecnica di GZA sono eccelse perchè è quasi scontato. Sorprendono di più la bellezza del campione e l'efficacia con la quale questo si sposi da un lato con Grice stesso, e dall'altro con delle batterie la cui complessità è giustamente mantenuta su bassi livelli per favorire invece il suono, effettivamente imponente (persino la breve durata del tutto non danneggia affatto la canzone). Promossa con lode. Breaker Breaker, invece, gode di atmosfere più leggere e di un sample meno cupo; ciò nondimeno "funziona" altrettanto bene grazie ad un'orecchiabilità che va di pari passo con la negazione di qualsiasi sconto alla faciloneria "da singolo": nuovamente, ringraziamo sia GZA che Arabian Knight, un altro dei discepoli di RZA che in quest'album riescono a sopperire più che bene alla pressoché totale assenza dell'abate.
Ricapitolando, dunque: sia il singolo che la b-side (curiosamente divenuta il video di lancio) si pongono su livelli oggettivamente molto elevati, anche e soprattutto considerando che sono fatti da un maestro come il Nostro. Ebbene, dopo poco tempo dall'uscita di questi finalmente esce l'album vero ed è ovvio che a questo punto ci si aspetti una bomba come dio comanda. Beh, scandalo degli scandali, non è così: Beneath the Surface è "solo" un bel disco. Ma a cosa è dovuta questa semi défaillance? A GZA? Ai beat? Agli ospiti? A cosa?
Sgomberiamo il campo dai dubbi: Gary Grice è come sempre un mostro di bravura sia che scriva storytelling, sia che si lasci andare all'autoesaltazione e sia che partorisca concept track. Non si discute: tutto il suo talento, del quale ho abbondantemente scritto in precedenza e che perciò non descriverò nuovamente, è onnipresente sia in una Mic Trippin' che in una Beneath The Surface. Se ho mai visto un MC capace di dare prove di bravura così costanti quello può essere Nas, e scusate se è poco; insomma, come liriche "ci siamo". Per quel che riguarda gli ospiti, anche se il livello non è ugualmente alto, direi che non ci si può lamentare più di tanto. Assodato che non è Liquid Swords dove ogni featuring era una bomba, in BTS c'è molto Killah Priest (e a casa mia questo è un bene), qualcun altro dei Sunz Of Man e dei Royal Fam (e passi), qualcheduno del Wu (ODB, Masta Killa, Meth) che pur non facendo miracoli se la cava più che bene (ma scordatevi le strofone di Deck o Ghostface) ed infine la sconosciuta Njeri: onestamente è quest'ultima la rivelazione del disco, dato che sia in 1112 che Victim fa dei numeri eccezionali e, alla luce di ciò, risulta incomprensibile il motivo della sua pressoché fulminea scomparsa dalla scena. Ma tant'è.
Insomma, per esclusione si può giungere alla conclusione che i motivi per i quali Beneath The Surface non riesce a bissare il successo sono fondamentalmente i beat. Crash Your Crew è il primo fallimento in cui ci imbattiamo ed il suo stanco e fracassone loop riesce a venire a noia nell'arco di circa trenta secondi; aggiungamoci che è del tutto privo di un qualsiasi tipo di melodia ed ecco che il tasto Fast Forward può essere usato per la prima volta. Hip Hop Fury è un po' meno peggio, ma nuovamente la pigrizia nel loopare e pitchare un amelodico campione di pianoforte ad libitum senza alcun tipo di variazione (eccetto un irrilevante sample di archi in levare ogni quattro misure) affossa un'altrimenti discreto pezzo; ma la delusione maggiore viene da Stringplay, lasciatemelo dire. Quella che poteva essere una seconda Shadowboxin' viene massacrata da una merda di base in cui un suono a metà tra l'arpeggio e dei synth da tastiera Bontempi impera per ben tre minuti e qualcosa, ed il fastidio che esso genera è tale che molti comprensibilmente nemmeno riusciranno a giungere fino al termine della canzone. Infine, volendo chiudere il tour nella galleria degli orrori con una nota semipositiva, c'è Feel Like An Enemy che più brutta pare un po' generica e fondamentalmente pacchiana (sapete, c'è tutto un casino di archi che va in sottofondo e non è che lasci impressionati) ma che quantomeno gode di un bel bridge sui cui, oltretutto, c'è un attacco di strofa ("Vocal imbalance, a code of silence converses violent...") da applausi.
Quanto ai due pezzi "nì" i problemi sono semplicissimi: Victim ha un ritornello cantato che francamente si potevano risparmiare, mentre Amplified Sample vede un'inspiegabile ripetizione della prima strofa forse non fastidisossima ma comunque priva di qualsiasi motivo. Tolti i rispettivi difetti va detto che le canzoni in sè e per sè sono pure belle (specialmente Victim), per cui a uno gira un po' il culo che siano state danneggiate da due svistine simili, peraltro facilmente evitabili.
Ma nel complesso -e a distanza di dieci anni- reputo che Beneath the Surface sia decisamente un buon album. Naturale: poteva essere meglio. Indiscutibile. Tuttavia la serie di pezzi belli (e qui oltre a rimarcare la bellezza della finora non citata title track vorrei aggiungere la purtroppo breve Outro) è di una caratura tale da far dimenticare certi errori e orrori relativi alla fase del beatmaking. In fin dei conti tutti i pezzi sono rappati bene e, ad eccezione delle tremende Crash Your Crew e Stringplay, volendo si può anche glissare sulle relative basi. Insomma, non quello che i fan del Wu si aspettavano all'epoca ma indubbiamente un'opera valida anche nel 2009.




VIDEO: BREAKER, BREAKER

FINALE - A PIPE DREAM AND A PROMISE (IM Culture, 2009)

lunedì 25 maggio 2009


[Tanto per essere chiari: dopo aver ascoltato il suddetto album anche ieri mentre facevo le pulizie in casa, mi son detto: col cazzone che seguo la vox populi, per cui beccateve Finale e statevene buoni]

Nella sezione dei commenti di Funcrusher Plus un commento recita così: "se poi ci si infossa sempre sulla prima metà degli anni novanta si mummifica l'hip hop". D'accordo, in quel contesto m'è parso un po' buttato lì, ma la validità dell'argomento è innegabile. È però altrettanto innegabile che il rapporto quantità/qualità odierno impallidisce di fronte a quello del sopracitato periodo e perciò spesso si è portati ad una nostalgia secondo me comprensibile; del resto basta vedere lo stato comatoso in cui versa l'hip hop underground in questo 2009 (del mainstream m'importa assai poco, lo sapete) che, mi piace ripeterlo, è un anno di stanca come non si vedeva da almeno sette anni.
Ma grazie a dio persino noialtri che stiamo vegliando sul comatoso ogni tanto riceviamo un piccolo segno di vita e, nell'anno corrente, il primo (in ordine cronologico) è secondo me questo Pipe Dream And A Promise. Nuovamente è Detroit a presentare un cocktail che, nella migliore tradizione afroamericana, è caratterizzato da un profondo sincretismo capace di prendere alcuni elementi del passato e riattualizzarli suonando fresco anche alle orecchie di un criticone quale il sottoscritto. Del resto, avendo a disposizione beat di Dilla, Black Milk, Flying Lotus, Wajeed dei Triple Pied Pipers e altri ancora, la cosa non dovrebbe stupire. Ebbene sì, di nuovo sono i produttori a dare una marcia in più ad un MC che altrimenti sarebbe solamente bravo. Sempre a proposito di questo aspetto vorrei fin da ora sostenere che, contrariamente all'opinione espressa da Antonio nell'ultimo numero di Superfly, che lo definisce solo "competente", io trovo che in realtà il Nostro dimostri un'abilità tecnica ed un approccio nella scrittura sicuramente superiore alla media; per esempio, paragonato a Phat Kat (che apprezzo, sia ben chiaro), Finale è infinitamente più bravo, Lo dimostrano facilmente pezzi come Issues o Jumper Cables, in cui si nota la pulizia dell'esecuzione mescolata ad intrecci sillabici che però, diversamente dall'uso classico à la Kool G Rap, vengono ibridati con pause ad effetto, stiracchiamenti delle parole, enfasi nell'enunciazione e complessivamente tutto un armamentario di trovate stilistiche decisamente contemporaneo. Vogliamo poi aggiungere che è sua abitudine variare frequentemente lo schema metrico senza alcun problema né per lui e men che meno per l'ascoltatore, come ad esempio in One Man Show? Ecco: al lordo di queste considerazioni posso dire che il risultato non sarà magari originale, questo no, ma sicuramente è godibilissimo specie alla luce di come questo riesce a fondersi col mood delle basi.
Non aspettatevi però la creatività di un Elzhi, perchè Finale in fondo è contenutisticamente abbastanza nella norma: esperienze personali, un po' di sana introspezione, amore per l'hip hop, lo struggle di ogni giorno... insomma, nulla per cui valga la pena di sperticarsi in elogi, tuttavia l'esecuzione è abbondantemente precisa per relegare in secondo piano questa (paradossale?) carenza di carisma. Promosso, quindi; non con la lode, ma pur sempre con un voto alto.
Dove invece sarei pronto a regalare cattedre è nel versante dei beat. Come già detto, Detroit nuovamente stupisce nella sua capacità di essere eterogenea ed al contempo di mantenere un'identità immediatamente riconoscibile. Poco importa poi se un Nottz è della Virginia o un M-Phazes australiano, sia per loro sforzo personale che per la visione artistica espressa con grande maturità da Finale, il suono di Pipe Dream è Motor City al cento per cento. Del resto, lo stesso alfiere di questo sound -parlo ovviamente di Dilla- sapeva muoversi con destrezza tra lento e veloce, tra ruvido e soave, per cui non si fa fatica a ricondurre alla città i synth sporchi di Black Milk come il leggero campione di piano e sax (che onestamente fa un po' colonna sonora da soft porno, va detto) di Oddissee. E, al di là della diversità delle atmosfere conferite da ciascuno dei produttori coinvolti nel progetto, la chiave della eterogeneità dell'insieme sta nella -purtroppo spesso sottovalutata- programmazione delle batterie, sempre diversa e quasi mai scontata.
Prendiamo ad esempio il rullante quasi inutilizzato del primo beat di Arrival & Departure, al quale viene favorito un utilizzo del basso come se facesse parte della sezione delle percussioni, e paragoniamolo all'uso più tradizionale fattone in Jumper Cables: due mondi completamente diversi. Basterebbe questo a rendere godibile l'ascolto. Ma poi, in aggiunta a ciò, ci sono anche i campioni, che possono includere synth e suoni elettronici in generale così come campioni soul e funk (Pay Attention è una bomba e ricorda il miglior RJD2, non dico altro) senza per questo dare un'idea di schizofrenia acustica al tutto. Insomma, non chiedetemi come, ma l'incastro finale tra traccia e traccia è di una perfezione tale da consentire l'ascolto in loop di tutto l'album, soprattuttto perchè non esiste, ma davvero non esiste un pezzo che sia meno che bello.
Difetti? Uno solo: i milioni di interludi sparsi dentro alle tracce, che francamente spaccano i coglioni più del lecito già al secondo ascolto, sia perchè poco ce ne po' frega' del "cosign" Prince Whipper Whip ma soprattutto perchè questi spesso sono "strategicamente" inseriti a metà canzone. WTF!?!
Ma a parte questa balzana idea, ammetto di essere in tutto per tutto entusiasta di fronte a Pipe Dream: veramente, veramente molto bello. Se non gli do un quattro e mezzo è solo perchè ho la coda di paglia (so cioè di essere un tantinello fanatico del sottogenere) e poi perchè l'unica cosa a cui non ha ancora risposto è stato la questione inerente la longevità, fondamentale per raggiungere lo status di eccezionalità. Le premesse comunque ci sono: casomai ci riaggirneremo tra qualche tempo. Nell'attesa, non fatevi sfuggire quest'opera per nessun motivo. Non ci sono scuse. E con questo intendo dire che ci dovete investire dei soldi; se non si spendono per gente simile allora può solo significare che gentaglia come Wayne ce la meritiamo.


COMPANY FLOW - FUNCRUSHER PLUS (Rawkus/Official Recordings, 1997)

venerdì 22 maggio 2009

[Ieri vi dicevo di questo mio amico che s'era offerto di scrivere una recensione, ricordate? Beh, eccolo qua, finalmente. Ora, questo mio amico lo chiamerò Slint (per comodità mia, più che altro) e vi consiglio -anzi, vi intimo- di passare dal suo blog bislaccamente nominato Formica Fuego. Ciò detto, due mie parole sul disco: innanzitutto che non ce l'ho e sia il rip che la scansione li ho fatti solo dopo essermi visto col suddetto Slint. Ebbene sì, Funcrusher Plus non l'ho mai comprato, che ci crediate o no. Lo farò adesso, però, in quanto è stato recentemente rimasterizzato e ristampato (anche se senza alcun tipo di bonus, una cosa francamente incomprensibile) visto che i miei ardori da purista di stucazzu novantasettiani sono fortunatamente un ricordo del passato. Non aggiungo altro e vi lascio alla lettura]

Anni fa, io e il titolare di questo blog avevamo un progetto che si chiamava Slept On Classics: l’idea era di raccogliere, in una serie di CD dal packaging di “lusso” -da vendere poi a prezzo politico (quando si dice il senso per gli affari…) - gemme dimenticate del rap tra il 94 e il 98. Vista da oggi, era una trovata abbastanza “avanti”, se mi passate il termine. Il digging in the crates via web stava appena nascendo negli States ma in Italia non c’era ancora niente di paragonabile a dei blog come RuggedNevaSmoove. Comunque sia, “a una certa” ci trovammo tra le mani qualcosa come 60 canzoni tra b-sides, remix, semi-inediti, tracce di gente scomparsa dopo un solo singolo e pezzi passati inopinatamente inosservati all’interno di album magari anche celebri. Il progetto non vide mai la luce perché, per quanto fosse molto nobile droppare tutto quel knowledge a prezzi stracciati non volevamo nemmeno smenarci troppo. Anche il fatto che ne parlassimo sempre dopo la quarta o quinta birra deve aver avuto il suo peso…
Sia come sia, mi è recentemente capitato di buttare uno sguardo alle tracce che avevamo selezionato e ho notato una cosa che, col senno di poi, mi sembra abbastanza bizzarra. Ed è la seguente: non c’era nemmeno un pezzo dei Company Flow! Come cazzo è stato possibile? Intendo, né io né Reiser siamo mai stati dei Def Jukies della prima ora, però, all’epoca di Slept On Classics, era già passato abbastanza tempo per poterci rendere conto, senza darsi toni da abstract-avantgardisti, che Funcrusher Plus era stata una delle uscite fondamentali del periodo che volevamo coprire. Questo per dire che, almeno secondo me, poi magari Reiser non sarà d’accordo, stavamo facendo una cappella grossa quanto Bumpy Knucles. Vediamo perché, scendendo nei particolari del disco a cominciare dal suo contesto storico.
Se siete lettori di questo blog non c’è bisogno di dirvi quanto incredibilmente alta fosse la qualità del rap newyorchese nel periodo 95-97: il Wu Tang Clan, il QB, i vari D.I.T.C. il Boot Camp (et alias ancora) erano tutti al top del loro gioco (quanto mi piace tradurre questa espressione). Farsi notare lì in mezzo, per dei newcomers, era bella dura, a meno che non si avesse qualcosa di originale da far ascoltare e una solida promozione alle spalle. Due cose che, a un certo punto, i Company Flow si trovarono ad avere: la seconda in particolare, per un caso quasi fortuito. Il caso fortuito è qui spiegato: uno dei più-più megarampolli del mondo, James Murdoch (il figlio di quel Murdoch là) si era fatto coinvolgere nella passione per il rap da un suo compagno di college, finanziando la nascita di una nuova etichetta indipendente dai mezzi pressoché illimitati, la Rawkus; destinata a scrivere un bel pezzo di storia del rap almeno fino al 2000 e qualcosa; a cominciare proprio dalla pubblicazione di Funcrusher Plus a metà 97.
In realtà Funcrusher Plus contiene alcune tracce che avevano già trovato spazio in un EP, intitolato solo Funcrusher. Autoprodotto nel giugno ‘96 e distribuito in pochissime copie, quell’EP aveva assicurato al gruppo uno sparuto seguito di cultori. Dunque i Company Flow, l’MC e produttore bianco El-P, l’MC Big Jus e il dj Mr. Len (tagga come: quando non sono neri specifica “bianco”), non venivano proprio dal nulla, tuttavia il grande pubblico e la critica li accolse comunque come outsider, anche perché tali volevano essere considerati. Tutto in loro sembrava prendere le distanze da un certo andazzo del rap di quel periodo (un andazzo che poi, esacerbandosi avrebbe portato alla, IMHO, deprimente situazione attuale, ovvero a questo tunnel di finocchiaggine, - anche in ambito underground - di cui si fatica a vedere la fine), per spingere alle estreme conseguenze un’attitudine il più possibile lo-fi, uncut, hardcore e creativa. Dove creativo non significa per forza sperimentale, e dove sperimentale non significa per forza ermetico o inascoltabile, come vado a spiegare.
Ho fatto tale precisazione perché, all’epoca dell’uscita, più d’uno recensì il disco parlando di “astrattismo”, un’etichetta che tuttora fatica a levarsi di dosso. Evidentemente mancava la grammatica per capire che la direzione in cui stavano spingendosi i beats di El-P non era quella della sperimentazione; semmai paradossalmente, quella di un esasperato tradizionalismo, devoto tanto alla scuola di “mezzo” (EPMD e Diamond D, per dirne due) quanto ai migliori esponenti di quella che, allora, era ancora la nuova (Wu Tang e BCC). Ascoltandolo oggi, a 12 anni di distanza c’è infatti un aspetto che emerge molto più chiaramente che allora: in Funcrusher non c’è niente di forzato, intellettualistico o volutamente “complicato”, capi d’imputazione a cui è stato spesso sottoposto ; è semmai un elogio della semplicità sotto quasi tutti i punti di vista. Sarebbe ora di sdoganare questo disco dal mito di album programmaticamente pensato per risultare difficile o per essere capito da pochi eletti, che lo avvolge. Se Funcrusher Plus è un disco difficile lo è solo in opposizione al concetto di easy-listening, ma, da che mondo è mondo, questo non è mai stato un difetto, bensì una prerogativa del rap, o almeno di quello fatto con i giusti crismi.
Settantaquattro minuti di beats scarni e hard-wired, di campioni ipnotici, di punchlines e metafore battle-rap mai banali, sempre complesse e intelligenti e, infine, di flows che, anche dopo dieci anni, non risentono dell’usura del tempo. Non c’è un solo pezzo in tutto il disco che sia stato inserito per spezzare l’altissima tensione espressiva che predomina e che giunge al culmine in tracce come 8 Steps To Perfection, Collude/Intrude, Silence, Lune TNS, Vital Nerve e The Fire In Wich You Burn. In conclusione, qualunque sia la vostra opinione sui successivi sviluppi della carriera di El-P (la mia, se vi interessa, è eccellente) il consiglio è di ascoltare questo disco, se ancora non l’avete mai fatto, il più possibile liberi da qualsiasi pregiudizio, lasciando che la sua profondità e le sue complesse atmosfere vi conquistino senza andare alla ricerca di astrusità che giustifichino le numerosi recensioni che lo descrivono come intelligentissimo, precursore, geniale, avanguardistico etc..etc.., perché se è qualcuna di queste cose, lo è per la visceralità e per l’ attitudine come tutto (o quasi) quel che, in qualunque campo, viene fatto di buono.




VIDEO: 8 STEPS TO PERFECTION

BOOGIEMONSTERS - GOD SOUND (Emi/Pendulum, 1997)

giovedì 21 maggio 2009

Dovete scusarmi per gli aggiornamenti a singhiozzo di questi ultimi giorni, ma da un lato sto aspettando che mi giunga una recensione da parte di un amico, tanto dotato di una buona penna quanto di una concezione del tempo tutta sua; e dall'altro, ben più importante, il lavoro in questi giorni non mi permette di trovare quel minimo sindacale di concentrazione che mi serve per buttar giù qualche riga dotata di senso compiuto. Ciò detto, essendomi dovuto svegliare presto stamattina, approfitto dell'oretta di pace che dovrei avere per parlarvi di un'altra delle meteore di metà anni '90, e cioè i Boogiemonsters. Essi, al pari di altri gruppi loro contemporanei (ad esempio gli Artifacts), hanno avuto una breve carriera in cui a seguito di un buon esordio vi è stato il tipico "sophomore jinx", dopo il quale, manco a dirlo, sono pressoché completamente scomparsi dalle luci della ribalta. Abbiamo già visto che in alcuni di questi casi l'unico commento possibile possa essere "e chissenefrega", ma in altri -più rari- non si può non avere l'impressione che la sorte toccatagli sia stata parzialmente o del tutto ingiusta con loro. Ebbene, dopo aver avuto un esempio del primo caso con i Bush Babees, è ora giunto il momento di presentarne uno valido per la seconda opzione.
Premesso che non conosco la loro opera prima, ricordo però che questo God Sound ricevette sulla Source due microfoni e mezzo ed una relativa recensione negativa. In teoria, quindi, viste le mie finanze ristrette dell'epoca la cosa migliore da fare sarebbe dovuta essere lasciarli perdere; invece, a seguito dell'ascolto dell'album di Nine, che aveva ricevuto lo stesso voto ma conteneva alcuni pezzi degni di nota, decisi dopo qualche tempo che forse sarebbe stato il caso di dargli una chance (in questo aiutava la coscienza del fatto che al TimeOut certi dischi o li compravi subito o non li avresti mai più rivisti, e senza internet non c'era molto da scherzare). Beh, nuovamente, bene feci: perchè, pur non essendo questo materiale capace di farti gridare al miracolo, senz'altro è roba interessante con qualche picco di genialità così come qualche fiaccata ma, nel complesso, estremamente interessante per ciò che concerne i contenuti. Cospirazioni politiche, degrado urbano, critica sociale e musicale vengono affrontate nel corso delle sedici tracce da un punto di vista insolito per l'hip hop: quello cristiano.
Sì, lo so, vi vedo a dire "ma vattene affanculo tu, loro e tutti e dodici gli apostoli". Ma vi sbagliereste, e ve lo dice uno che non tiene in grande considerazione né la fede, né, tantomeno, le gerarchie ecclesiastiche (e come nota di colore aggiungo che bestemmio con una certa creatività). Rispetto tuttavia la spiritualità e perciò, così come non rifuggo dai 5%ers, non vedo perchè un punto di vista cristiano -attenzione ai dettagli- se espresso in modo "laico" non possa trovar spazio in un ambiente in cui vi sono altre fedi ben più discutibili. Ma volendo smetterla di fare l'apostolo della morale, apriamo finalmente le danze partendo proprio dai testi e dagli MC.
Prima di tutto va detto che i Boogiemonsters sono un duo e non più un quartetto; di quest'ultimo sono rimasti infatti i soli Vex e Mondo (?) i quali, pur avendo stili relativamente simili, sono facilmente distinguibili sia per via della voce che per la tecnica o, più in generale, la bravura. Senza difatti voler toglier nulla a Mondo, che se la cava egregiamente con qualche guizzo di particolare abilità, è Vex che nel 90% dei casi ruba lo show con strofe che non solo risultano metricamente più complesse ma riescono ad essere contenutisticamente più ricche di contenuti e suggestioni, come ad esempio questa di Mark Of the Beast II: "Man, I been called to confession, the pope wants me to do a session/ With this bishop, pff!, aggravating like the hiccups/ Or the catholics who passed down the mark from the vicar, rushin to mass to kiss the feet of a viper/ Went to the Tishman Building, what did I see? Triple sixes in red lights glowin down on me/ They want me head on a platter like John the Baptist, life's surreal like Jacob's Ladder as I map this". Decisamente niente male, non trovate? E per quanto è quasi scontato che non tutte le sue strofe si attestino su questi livelli, bisogna dire che il più delle volte il Nostro riesce sempre a convincere perlomeno per uno dei seguenti motivi: a) metrica, b) stile, c) contenuti, d) immaginario.
La religiosità/spiritualità, come dicevo, non è però né il tema portante del disco né quello più marcato. Certamente salta fuori di tanto in tanto ("Why is it so cool to not believe in god?"), ma nel complesso God Sound si avvicina molto di più ad una visione distopica del mondo che non ad un sermone. Difatti vi sono ovunque riferimenti agli Illuminati, a cospirazioni in corso, all'influenza negativa che i media pilotati hanno sulla comunità e su come molti artisti (o presunti tali) si lascino intrappolare in un'ottica che, oltre a danneggiare la loro gente, alla fine danneggia essi stessi. Ma contrariamente a quel che faceva un Chuck D, decisamente diretto nell'esposizione di fatti e teorie, i Boogiemonsters spesso sfruttano la forma retorica della parabola o della metafora estesa, in maniera non dissimile a quel che hanno sempre fatto un Killah Priest o un Brother J. Ecco perchè trovo che vi siano motivi d'interesse non comuni in quest'album, contrariamente ad esempio alle lamentele standard dei Bush Babees, ed ecco perchè di tanto in tanto riascoltare God Sound fa sempre piacere pur non essendo uno di quei album capaci di più ascolti di fila. Insomma, fosse solo per le liriche non avrei alcun tipo di problema ad affibiargli un ricco quattro.
Ma purtroppo ci sono anche i beat (70% autoprodotti, 30% di Domingo), che rappresentano il lato più debole del complesso. Non capitemi male, non è una Caporetto del campionatore, tutt'altro: semplicemente viaggiano tutti sullo stesso tempo, hanno una programmazione delle batterie ripetitiva (volendo anche abbastanza banale) e per giunta sono di una semplicità che sovente trascende il minimalismo per spingersi negli abissi della pigrizia. Ciò detto, però, non si può far finta che esistano pezzoni secondo me gran belli e degnissimi di entrare in una qualsiasi compilation sugli anni '90 al pari di altre ben più celebrate opere come i quasi contemporanei Juggaknots. Perchè tiro in ballo proprio i Juggaknots? Uno, perchè li ho sempre inspiegabilmente associati ai Boogiemonsters, e due perchè Mark Of The Beast e Loosifa hanno una somiglianza che si spinge ben oltre l'affinità dei titoli: ambedue usano splendidi campioni di piano di stampo jazzistico, ambedue trattano (in modi lievemente diversi) l'influenza del diavolo sulla vita di tutti i giorni e ambedue si sviluppano come delle tragedie. Personalmente pongo Loosifa un po' più in alto, ma vi garantisco che MOTB non vi deluderà. E nemmeno il singolo Beginning Of The End, con il suo fantastico sample vocale, può farlo: l'atmosfera che esso crea e le lirche riescono a creare un'atmosfera di una cupezza tale da farvi dimenticare le batterie appena al di sopra della sufficienza. E sempre a proposito di atmosfere, con le belle God Sound e Say Word (che vede una partecipazione dell'ottima Bahamadia) ci si sposta più verso un clima rilassato tipico dei Native Tongues che si confa altrettanto bene allo stile di Vex e Mondo. Tolte queste tracce, tuttavia, il materiale a disposizione è al limite "OK" e casomai sollevato dalle prestazioni dei Boogies (M.C., Sodom & Gomorrah, Behold A Pale Horse, Photographic Memory), oppure varia dall'occasione mancata (su tutte il campione di Wherever You Are, assolutamente sprecato) alla cacatiella tout court (Bodya, Warning). Il che sarà pure uno dei difetti più comuni per questo genere musicale, ma non di meno risulta fastidioso perchè magari va a rovinare (anche solo in parte) testi ben scritti e ben eseguiti.
Ma alla luce di tutto questo: due microfonini e mezzo? No, decisamente la Source aveva preso una cantonata mica male. I pezzi belli superano per numero e impatto quelli brutti, mentre quelli "meh" risultano tali solo se paragonati a quelli validi (in altre parole, sono migliori della media). Visto nel suo complesso, dunque, God Sound è un eccellente album per qualsiasi estimatore dell'underground della seconda metà degli anni '90 e, per quanto comprensibilmente non sia entrato a far parte della storia, merita senz'altro più e più ascolti. Assolutamente.




VIDEO: THE BEGINNING OF THE END

BUSH BABEES - GRAVITY (Warner Bros, 1996)

martedì 19 maggio 2009

Voi senz'altro avrete ormai intuito che a me piacciono diversi tipi di rap, con due particolari propensioni: quello a cavallo tra il purismo e il gangsta (ad esempio la D.I.T.C.) e quello comunemente definito come conscious (con i Tribe a fare da punta di diamante). Non penso naturalmente che esista alcuna contraddizione tra l'apprezzare l'uno come l'altro, tantopiù se alla fine il minimo comune denominatore è in fin dei conti l'intrattenimento. Questo intrattenimento è dato nel mio caso -sto semplificando molto- dalla complessità della metrica, dai beat, dall'inventica riposta nelle metafore fino a, ovviamente, l'intelligenza dimostrata nella stesura del testo nel suo complesso.
Ebbene, era da un po' che non riascoltavo Gravity dei Bush Babees, un trio di Brooklyn avente alle spalle l'esordio Ambushed del 1994, sicché, dopo la pausa di ieri, mi son detto che per cominciare la giornata a me e a voi poteva andar bene: c'è sole, fa caldo, la città comincia ad esalare tutti gli odori del periodo e personalmente reputo che per questa stagione le cose à la Native Tongues siano il massimo. Considerate queste osservazioni, stamattina mi son messo in marcia e percorrendo il consueto tragitto Isola-Cadorna (30 min. a piedi circa) mi sono rinfrescato la memoria e... uhm, diciamo che all'altezza di Cairoli stavo seriamente considerando di prendere un due-tre caffè, tirare un po' di coca, darmi delle mattonate sui coglioni o comunque qualsiasi cosa pur di svegliarmi. Lo dico con dispiacere, ma l'impressione del disco che mi feci all'epoca della sua uscita ha trovato conferma anche a distanza di anni: Gravity si riferisce evidentemente all'effetto che la gravità ha sui testicoli dell'ascoltatore, il quale dopo un ascolto completo se li ritrova all'altezza delle caviglie e buoni ormai solo per palleggiarci.
Intendiamoci: i beat, curati perlopiù dal collettivo Ummah, Shawn J. Period e dallo stesso Mr. Man, in media non sono affatto male. Soffrono secondo me degli stessi difetti che avevano quelli di Beats Rhymes & Life, cioè una scarsa riconoscibilità o scarso impatto che dir si voglia, ma di certo non si può dire che la pienezza dei bassi ed il gusto nella scelta dei campioni siano fattori trascurabili. Wax, per dirne una, ha una struttura estremamente semplice costituita da due note di organo elettrico ripetute ed un brevissimo campione di tromba loopato in sottofondo, il tutto appoggiato su belle batterie ed un ottimo basso. Una semplicità che risulta efficace e consentirebbe agli MC di fare i numeri, almeno in teoria. Idem come sopra per Maybe, dove al di là della sezione delle percussioni, cambiano solamente i campioni (xilofono e sax) o la più vivace The Ruler, in cui nuovamente le batterie ed il basso giocano un ruolo essenziale e dove il sample appena accennato di If I Ruled The World di Kurtis Blow "spezza" bene le strofe incentrando l'attenzione dell'ascoltatore su determinati passaggi. Anche quando i produttori si spostano dal bacino dei campioni di jazz e osano un po' di più, come nel caso dei synth di 3MC's (in cui lo zampino di Dilla si sente moltissimo), i risultati spesso sono ottimi e praticamente gridano per avere la presenza di un Pos o di un Q-Tip sulla traccia.
Purtroppo, però, il convento ci passa due MC senza infamia e senza lode come Lee Majors e Mr. Man e, peggio ancora, un toaster al cui confronto Mad Lion potrebbe svettare: Y-Tee. Quest'ultimo si fa notare in negativo grazie alla sua cadenza ultramonotona ed alla cantilena delle sue strofe, le quali, incredibilmente, anziché possedere una forza solitamente implicita per il genere di canto puntualmente affondanonella noia e nel fastidio i quaranta secondi a lui dedicati. Ma ciò potrebbe anche essere perdonabile se ci trovassimo di fronte ad altri membri bravi; tristemente, invece, non solo questi sono molto simili come inflessione vocale (alta e nasale in ambedue i casi) ma anche come metrica e stile in generale. Comunque sempre confinati all'interno dei 4/4, cosa di per sè non negativa, il loro maggiore handicap sta in una rigidità metrica che ha come unico valore la pulizia e la facilità di comprensione. Purtroppo, però, la loro prevedibilità si estende anche ai contenuti, equamente suddivisi tra l'autocelebrazione vecchio stile e la critica allo stato dell'hip hop contemporaneo; intendiamoci, va tutto molto bene, ma credetemi se vi dico che non c'è una frase degna di essere scratchata per un ritornello in un secondo tempo. Voglio dire, già solo la canzone Stakes Is High negli anni è stata depredata più di quanto potrebbe essere fatto con l'intero Gravity: un motivo c'è. E difatti questo si fa ancor più evidente quando appaiono degli ospiti -Mos def e Q-Tip- che pur non spremendosi le meningi riescono a conferire un'identità alle rispettive canzoni; fosse dipeso da Majors e Mr. Man, hai voglia...
Del resto potete vedere dalla brevità della recensione che questo è un album passabile ma nulla di più, i cui difetti purtroppo non si concentrano in una o due tracce delle quali magari ci si può anche divertire a parlar male: no, qui la mediocrità è purtroppo diffusa. E se questa risulta passabile in qualche occasione -Gravity, 3 MC's, The Ruler e Wax sono ottimi pezzi da mixtape- è nell'insieme che l'album non regge. Ora, non ve ne sconsiglio l'ascolto perchè non me la sento di definire l'opera brutta in toto (perlomeno i beat sono, nel genere, validi), tuttavia tenete presente che se io gli affibbio tre zainetti scarsi pur essendo un fan del genere e dell'epoca, allora c'è qualcosa che proprio non va. Peccato.



HELTAH SKELTAH - NOCTURNAL (Duck Down/Priority, 1996)

venerdì 15 maggio 2009

Mi ricordo che un giorno del 1996, a scuola, con un amico ci mettemmo a discutere se fosse più potente il Wu o la Boot Camp Clik. Enta Da Stage VS. 36 Chambers, Dah Shinin' VS. Cuban Linx, Nocturnal VS. Liquid Swords: dopo un lungo simposio decidemmo di dare la corona alla crew di Staten Island, ma entrambi concordavamo nel dire che la BCC era quanto di meglio potesse esistere a livello di suono hardcore (eggià, per noi il Wu era melodico, pensate che tempi). Ora, a distanza di così tanto tempo il paragone può anche far ridere, ma al di là del fatto che s'era sbarbi infuocati col rap e che quindi il massimo del divertimento era fare paragoni da baluba e sfidarci a suon di cassettine, bisogna dire che fino a quel momento nessuno dei due gruppi aveva sbagliato un colpo.
Erano bei tempi, insomma, ed ogni volta che veniva segnalata una nuova uscita io correvo al TimeOut per comprarla -a scatola chiusa, ovviamente. Oltrettutto, per Nocturnal soffrii più del solito perchè mi trovavo a Monaco con un triestino tonto che avevo plagiato fin troppo bene: lui s'era comprato l'ultima copia di Nocturnal, io Stakes Is High ma giusto per non tornare a casa a mani vuote. Il bastardo poi continuava ad ascoltarlo e mentre passavano le varie Letha Brainz Blo, Leflaur Leflah Eshkoshka, Grate Unknown eccetera io mi ritrovavo con dei freak i cui beat all'epoca non mi piacevano un granchè. Ma al ritorno in Italia rimediai e anche se sono passati così tanti anni non riesco a non dare un ascolto a questa perla di tanto in tanto, malgrado ovviamente conosca tutti i pezzi a memoria.
Il duo di Rock e Ruck, genialmente autosoprannominatisi Sparsky & Dutch (fantastico!), provengono ovviamente da Brooklyn e se non ricordo male la loro prima apparizione di un certo rilievo fu sulla splendida Headz Ain't Ready, con Rock che declamava "You asked for it 'Who want beef' so here's WAAAR". Dalla colonna sonora di New Jersey Drive in cui appariva la suddetta canzone a Nocturnal passò poi poco più di un anno in cui la copertura di stampa fu più che ragionevole, ed anche la pubblicizzazione vera e propria fu egregia; tuttavia, per meccanismi che ancora non riesco a spiegarmi, l'esordio degli Heltah Skeltah fu un mezzo flop commerciale malgrado fosse difficile trovare qualcuno disposto a dire che questo fosse dovuto ad una scarsa qualità del prodotto. Decisamente, era un periodo in cui quelli che oggi malignamente potremmo definire portaborse puntualmente dimostravano di essere in realtà degli artisti dotati di un certo spessore; oltretutto, Nocturnal aveva pure un'indubbia peculiarità che avrebbe dovuto destare curiosità: pur rispettando il sound del collettivo di cui facevano parte, non tutte le tracce erano state affidate ai Beatminerz ma vi figuravano anche Shawn J. period, E-Swift degli Alkaholiks ed altri meno conosciuti (Shaleek su tutti). Invece niente.
Ma tant'è: ciò che davvero conta è che col tempo quest'album è entrato a pieno titolo nell'esclusivo circolo dei dischi venerati daglie stimatori dell'underground, fino a formare con Enta Da Stage e Dah Shinin' il tris d'assi della Boot Camp Clik. Ed ascoltandolo non è difficile capire perchè: da Letha Brainz Blo fino a giungere a Operation Lock Down si incontrano solamente una traccia del cazzo (Da Wiggy) ed una moscietta (Clans Posses Crews & Cliks); per il resto o ci si attesta sulla vera eccellenza oppure si viaggia su binari di estrema bontà. Ed il bello è che ciò avviene con una caratteristica che trascena l'ovvia qualità di beat e rime, e cioè il pressoché completo vuoto contenutistico. Ruck e Rock riescono infatti a partorire canzone su canzone senza affrontare alcun tema in particolare, ma solo spruzzando quà e là della buona arroganza, dei virtuosismi stilistici, dei riferimenti al proprio quartiere e via dicendo: insomma, il nec plus ultra del rap non-progressivo che quando è fatto bene sa intrattenere senza che si possa trovare una giustificazione plausibile per tutto ciò. E se questa sottocategoria del rap è da sempre una delle mie preferite, bisogna però aggiungere che per riuscirvi si deve giocoforza essere delle belve al microfono; ora, come tag team i due hanno secondo me davvero pochi rivali e la loro alchimia è qualcosa che al contempo è stupefacente ed immediato. Ruck, oggi meglio noto come Sean Price, è dei due quello dallo stile più pulito e dalla metrica più regolare. Compensa questa sua regolarità con metafore e punchline più complesse e ricercate del suo compagno e, anche se da questo punto di vista non si può negare che negli anni sia enormemente migliorato, è altrettanto indubbio che pure nel '96 non sfigurasse. Ma sarebbe ipocrita negare che in fondo la parte del leone la fa Ruck: con quella voce e quella destrezza nel giocare con le sillabe e la metrica, a uno non gliene potrebbe fregar di meno dell'arguzia dietro ad un gioco di parole: diretto nell'approccio, qualsiasi appunto sulla sua finezza viene spazzato da come dice le cose e difatti non è un caso che dei due fosse quello più papabile per cominciare una carriera solista (ah, l'ironia della sorte! Mi sembra comunque che in rete girino dei ruff mix del suo disco, in realtà assai discutibili). Ciò detto, potrei anche sorvolare sugli ospiti, che sono comunque tutti affiliati alla BCC (eccetto Vinia Mojica), ma perlomeno gli O.G.C. vanno nominati. Un po' perchè di essi fa parte Starang Wondah aka il membro più sottovalutato della Boot Camp, ma soprattutto perchè nel '97 faranno un disco secondo me assai bellino e perchè in teoria avrebbero dovuto creare un supergruppo con gli Heltah Skeltah, i Fab 5. Questo naturalmente non avvenna mai, ma ascoltare Leflaur Leflah Eshkoshka può solo dare un'idea di cosa sarebbe potuto nascere se il progetto si fosse avverato.
Ciò detto, dubito che qualcuno avrebbe mai potuto adorare quest'album se il tappeto sonoro non fosse come minimo persiano (apprezzate la metafora, grazie). Come già detto, pur non essendo l'intero ambito delle produzioni riservato ai Beatminerz, il suono è comunque in pieno stile Bucktown. Tuttavia, rispetto a un Dah Shinin', esso è molto più pulito e nitido sia per ciò che concerne i singoli elementi (batterie, basso, campione) che per quel che riguarda la loro fusione, il mixaggio. Questo si può notare in ambedue le "categorie" stilistiche a cui fanno riferimento gli Heltah Skeltah, ovverosia quella minimalista in cui oltre a basso e batteria c'è poco o nulla (vedi Leflaur ecc.) e quella più complessa, dove invece magari si concede più rilevanza al campione del caso (Grate Unknown o The Square bastano per rendere l'idea). Il risultato è secondo me molto buono e va ad aggiungere un tocco di qualità in più al lavoro, vuoi anche privando di un quid la cifra stilistica della BCC.
Ma al di là di questi aspetti tecnici la sostanza è grossomodo la medesima, vale a dire minimalismo melodico nella miglior tradizione dell'hardcore nuoiorchese e sezione di percussioni a fare da traino. La formula insomma è chiara e del resto l'ho ormai illustrata così tante volte che non mi pare il caso di ripetermi; preferisco piuttosto dedicare qualche riga alla scelta dei sample. Ebbene, quando essi sono presenti in maniera rilevante, si riconosce la matrice soul o jazz/fusion: vedi ad esempio l'ormai classico campione di Johnny Pate di Letha Brainz Blo oppure la commistione di pianoforte e campane eoliche di Soldiers Gone Psycho, come il sample vocal di Grate Unknown che si fonde ad una sezione di archi e vibrafono di inuadita bellezza. Ma il bello è che -contrariamente a quel che avviene fin troppo spesso ai giorni nostri- moltissimi di questi suoni sono tagliati, ricuciti, effettati e quant'altro che anche solo riuscire a distinguerne la natura -non parlo nemmeno del pezzo originale- è diviene opera da otaku del sound o laureati al conservatorio. Ebbene, questo da un lato dimostra l'impegno e la bravura dei produttori coinvolti (oltreché la loro mentalità), e dall'altro dona una certa freschezza all'insieme che poi trova l'ulteriore benedizione in set di batterie il cui suono e la cui programmazione diversificano ancor più l'ascolto. In due parole: niente monotonia.
E allora, come avreste dovuto intuire dall'entusiasmo mostrato e dagli elogi espressi al lavoro degli Heltah Skeltah e compagni, cosa volete che gli dia se non un quattro e mezzo? Capirò chi mi dirà che è esagerato, ma siccome è lo stesso voto che affibbierei a Dah Shinin' non vedo perchè no, soprattutto se devo prendere in esame quest'opera nell'ottica della sua non comune longevità.




VIDEO: OPERATION LOCKDOWN

DJ MUGGS - SOUL ASSASSINS CHAPTER I (Columbia, 1997)

mercoledì 13 maggio 2009

Fuori programma: perdonatemi, ma di recensire gli Heltah Skeltah proprio non ho voglia; mi crollano gli zuccheri, mi si devastano le palle e tutte quelle cose spiacevoli lì. Ma non temete, voglio comunque offrirvi un piatto succulento che non vi farà rimpiangere Nocturnal, vale a dire il primo Soul Assassins, firmato da quel genio non riconosciuto che è DJ Muggs. Un disco che non solo trovo eccellente, ma che reputo oggettivamente interessante dal punto di vista storico per almeno due buoni motivi: il primo è che fotografa con buona dovizia di particolari la scena quasi-underground del '97, il secondo è che è stato uno dei primi album/compilation di produttori che si possano reputare "moderni" (ha cioè coniato la formula a cui fanno riferimento le opere aventi la stessa impronta oggigiorno) nonché quello che -assieme a Soul Survivor- si è più radicato nella coscienza collettiva.
Chiunque abbia ricordi di quel periodo non avrà infatti difficoltà a rimandare il pensiero al botto che fecero pezzi come Puppet Master o John 3:16, senza naturalmente contare il plauso della critica per pezzi "minori" come Decisions Decisions o Third World; oggi dubito che siano in molti a ricordarsene, ma all'epoca il disco colpì nel segno non solo perchè contiene tracce di indiscutibile bellezza, ma soprattutto perchè malgrado la quantità di ospiti riesce a mantenere un sound coeso oltreché estremamente d'atmosfera che, dopo le cosiddette coastal wars, risultava apprezzato sia a New York che a Los Angeles. Insomma, malgrado la sua fama oggigiorno non sia grande come invece meriterebbe, reputo inappellabile un giudizio che vuole Soul Assassins posizionato tra le opere più rilevanti della seconda metà degli anni '90.
Per dire: basta leggere la lista degli ospiti per capire che non si può trattare di una fetecchia: Dre, B-Real, i Mobb Deep, KRS One, l'oggi dimenticato MC Eiht, i Goodie Mob e via dicendo. Ed anche al rompicoglioni che si dovesse presentare con la solita frase "non si giudica un libro dalla copertina" si può sdegnosamente rispondere che ciascuno di essi dà il suo meglio, col risultato che le oscillazioni qualitative sono dovute esclusivamente dalla bravura in assoluto dei singoli ed al beat, non dalla mancanza di impegno. Beat che, come dicevo, sono in buona parte carichi della medesima cupezza che si può trovare nei dischi dei Cypress Hill ma che viene modificata lievemente in chiave east coast: come a dire che malgrado essi mantengano l'identità muggsiana molto forte sono più duttili di quanto non potrebbero essere quelli di Temples Of Boom o Black Sunday.
Alla fin fine l'esempio migliore di ciò è dato dal singolo Puppet Master: costruito sul noto campione di piano tratto da Hyperbolicsyllabicseequedalymystic di Isaac Hayes (lo stesso di Black Steel In The Hour Of Chaos, per intenderci) a cui viene aggiunta solo un regolare abbinamento di basso e batteria, esso è il veicolo perfetto per le rime di Dr. Dre e B-Real i quali, pur non essnedo in sè e per sè dei grandi MC, su questa base funzionano che è un piacere. Un'alchimia fondata non solo sulla fusione tra beat e rappata, ma anche dal singolare affiatamento tra i due e dalla diversità delle voci: bassa e cavernosa quella di Andre Young, alta e nasale quella del leader dei Cypress.
Ma se già l'incipit appare carico di promesse, aspettate di sentire Decisions Decisions con i Goodie Mob: stavolta Muggs utilizza un breve campione d'arpa accompagnato principalmente da una linea di basso estremamente corposa, con le batterie in secondo piano quasi come se non si volesse disturbare il lavoro degli MC; e se sentite anche solo l'attacco di Gipp capite che questo rispetto è doveroso ma non necessario vista e considerata la potenza: "It's a stray man, living in these veins man, suckin' on a piece of sugar pain, chucking chains/ Take the wind out the throat, we never wash away the pain, so let the stain soak". E tanto per non farci mancare nulla, a Decisions Decisions segue la stranota Third World con i cugini Diggs (RZA e GZA) a far numeri e tirar sù quello che purtroppo è uno dei beat meno riusciti dell'insieme.
Tra le basi più belle invece vanno senz'altro menzionate Heavyweights (la combo piano e archi vince ancora), New York Undercover (uno dei primi beat senza batterie che mi ricordi, ed essendo il campione il medesimo di Apostle's Warning ovviamente la bontà è indiscutibile) e la melancolica John 3:16, che non avrebbe disturbato su The Score, il che è decisamente un complimento. Curiosità finale: provate ad ascoltare Runnin' Wild e poi Grandmasters, vi accorgerete che forse Muggs un po' pigro lo è.
Per concludere ora i commenti sulle abilità del nostro al campionatore non vorrei nuovamente sperticarmi in elogi; spero che vi ricordiate dell'ottima opinione che ho di lui ed in caso contrario andate a leggervi le recensioni dei lavori che lo hanno visto coinvolto. Trovo meno prevedibile criticare dove possibile questo suo primo sforzo solista, che se un difetto ce l'ha è quello di usare campioni tra di essi fin troppo simili. È vero: da un lato questo crea coesione, ma dall'altro sentire una salva di basi fondate su loop di pianoforte può occasionalmente asciugare. E che sia ben chiaro: il problema si pone solamente nell'ascolto di filata, perchè se prese singolarmente le tracce restano ottime; tuttavia non si può non accusare una certa sonnolenza verso metà disco e questo è un difetto forse non gravissimo ma comunque piuttosto penalizzante.
Liricamente, invece, direi che sia impossibile lamentarsi: tutti, dico proprio tutti, portano al tavolo il loro cosiddetto "A-game" e se calcoliamo che nel '97 diversi dei personaggi coinvolti erano all'apice delle loro capacità possiamo renderci conto del coefficiente di ficaggine insito nell'opera. E per rendercene conto la miglior cosa da fare è la buona vecchia prova empirica: i Mobb Deep, ad esempio, pur non godendo di un accompagnamento all'altezza dei loro standard dell'epoca impazzano e fa rabbrividire sentire quanto bravo fosse il Prodigy pre-cocaina; MC Eiht dimostra di non essere lo stesso dei tempi dei CMW perchè è evidente quanto abbia lavorato sulla sua metrica rispetto a Streiht Up Menace o Hood Took Me Under pur mantenendo il suo personalissimo stile. E se le conferme da parte di altri nomi affermati come GZA, i Goodie Mob o B-Real non dovrebbero in fondo stupire più di tanto, a farlo sono i nomi nuovi come LA The Darkman e soprattutto Call O' Da Wild, che possiede voce, tecnica ed immaginario tali da trasformare New York undercover in uno dei pezzi da 90 di Soul Assassins. Gli Infamous Mobb, beh... diciamo che sono i soliti cafoni veraci ma ancor meno capaci di quanto non sarebbero stati su Special Edition. Detto altrimenti, oggi come allora, a giudicare dalla loro Life Is Tragic sarebbe giusto bollarli come portaborse privi di talento dei Mobb Deep; fortunatamente poi sia Twin che soprattutto G.O.D. han fatto passi in avanti da gigante ma, come si suo, dire, questa è tutt'un'altra storia.
Conclusione? Conclusione è accattatevillo senza pensarci sù due volte. L'unico difetto di Soul Assassins è, come già ebbi modo di dire, la ripetitività dei campioni che fa sì che, dopo un certo numero di ascolti, il diusco cominci a pesare come un'incudine sui coglioni (specie nella sua parte centrale). Ma con pezzi come New York Undercover, Puppet Master, Heavyweights e Decisions Decisions non penso davvero che ci si possa lamentare.




VIDEO: PUPPET MASTER

SLICK RICK - THE GREAT ADVENTURES OF... (Def Jam Remasters, 1988/2000)

martedì 12 maggio 2009

Con la recensione di The Great Adventures Of Slick Rick sono giunto, dopo un anno e mezzo di bloggaggio, al momento che ho sempre temuto: un album del '88. Un album pubblicato quando ancora leggevo Zio Paperone ed ascoltavo passivamente la musica che ascoltavano i miei. Un album che stava facendo la storia mentre io ero in terza elementare ancora preoccupato di prendere bei voti. Un album che in Italia sicuramente passò inosservato mentre in classifica spadroneggiavano Nick Kamen, Charlie (quello di "Faccia da pirla", ricordate?) o al massimo Jovanotti. Insomma, un'opera della quale non ho alcuna memoria riconducibile al mio vissuto ed il cui background storico-sociale mi risulta comprensibile unicamente grazie all'astrazione del pensiero, in maniera non dissimile a quanto avviene immaginando la vita negli anni '60.
Insomma, la difficoltà maggiore è non avere a disposizione alcun aggancio concreto con la realtà che ha prodotto un Slick Rick, il che mi priva di un intero bacino di conoscenze a cui sono solito attingere per recensire i dischi che vedete in queste pagine. Inoltre, non scordiamolo, il rap di fine anni '80 è lontano anni luce non dico da quello odierno, ma da quello del '94! Nello spazio intercorso dall'uscita di dischi essenziali come, che so, Follow The Leader e Illmatic c'è stata più evoluzione che dal '94 al 2009; il genere era giovane e la tecnologia stava modificando la musica tutta, ed inoltre vi erano dei genii come Marley Marl, Premier o la Bomb Squad che anche solo con due produzioni segnavano il confine tra old e new school. Insomma, pur rientrando Adventures Of più nell'epoca contemporanea che non in quella di Raising Hell, è per me difficile esprimere una valutazione che sappia tener conto del contesto storico. E allora l'unica cosa che posso fare è ammettere che io mi sono avvicinato a questo disco -intendo dire che l'ho cominciato ad apprezzare davvero e non solo per "onestà intellettuale"- solo dopo diversi anni che ero un accanito ascoltatore di rap. Vale a dire che intorno al 2000-2001 volevo spingere più in là la mia conoscenza, e così ho cominciato ad andare indietro nel tempo; e se in questo processo, tutt'ora in atto, ho incontrato opere importanti che però più che apprezzare davvero riesco solo a studiare (quasi tutta la roba pre-'88), ve ne sono state altre in cui ho saputo riconoscere tracce enormi di modernità. Great Adventures, per l'appunto, rientra a pieno titolo tra le suddette ed anche dopo oltre vent'anni può essere ascoltato con lo stesso spirito e la stessa vena critica riservata ai contemporanei, tantopiù che giusto stamane me lo sono rigoduto in cuffia andando al lavoro ed ha brillantemente superato il mio celebre test della passeggiata mattutina.
Com'è possibile tutto ciò? Beh, innanzitutto perchè Ricky Walters al microfono è una belva: non solo dal punto di vista più puramente creativo ma anche nella tecnica, che comprende sia lo schema metrico che l'utilizzo della voce, fattore che si rivela essenziale in ben più di un pezzo dato che sovente si trova ad impersonare più personaggi nello stesso pezzo. Senza contare poi che questa è immediatamente riconoscibile sia per la tonalità che per l'arroganza e la spacconeria che essa inevitabilmente esprime, ulteriormente accentuate da un accento inglese che non essendo fortissimo non può che aggiungere ulteriore carisma, tanto che la lista di rapper che hanno preso qualcosa dal suo stile è pressoché infinita: Jay-Z e Snoop sono i più famosi ed i più sgamabili, ed entrambi hanno onestamente riconosciuto quest'influenza tributando attivamente la loro "fonte" mediante cover o citazioni. Un'influenza stilistica, questa, di cui molti oggi non tengono conto ma che è fondamentale per come si è evoluto un certo tipo di rap "rilassato", che poi è stato anche quello di maggior successo nel corso degli ultimi anni; insomma, volendo esemplificare si potrebbe dire che quel che è stato Kool G Rap per l'underground, Slick Rick lo è stato per il mainstream.
Ma quest'osservazione va necessariamente limitata all'aspetto stilistico e/o tecnico, perchè per quel che riguarda la creatività è innegabile che chiunque abbia preso lezioni dall'orbo arrogante. So di dire una banalità nel momento in cui vado a conferirgli la corona di storyteller, ma come non farlo? Fin dal primo pezzo, Treat Her Like A Prostitute, ci si rende subito conto della bravura del Nostro, che sa miscelare con grande efficacia delle solide strutture narrative con humor, riferimenti culturali riconoscibili e soprattutto un immaginario decisamente ricco. Si veda ad esempio il caposaldo Children's Story, che da sola ha ridefinito l'arte dello storytelling grazie ad una trama relativamente semplice ma capace di imprimersi nella mente grazie ad uno svolgimento cinematico: "He robbed another and another and a sista and her brother, tried to rob a man who was a D.T. undercover/ The cop grabbed his arm, he started acting erratic, he said "Keep still, boy, no need for static"/ Punched him in his belly and he gave him a slap, but little did he know the little boy was strapped/ The kid pulled out a gun, he said "Why did ya hit me ?", the barrel was set straight for the cop's kidney/ The cop got scared, the kid starts to figure, "I'll do years if I pull this trigga"/ So he cold dashed and ran around the block, cop radioes it to another lady cop/ He ran by a tree, there he saw this sista, a shot for the head, he shot back but he missed her/ Looked around good and from expectations, so he decided he'd head for the subway stations" eccetera eccetera... Quattro minuti di narrazione atti principalmente a condannare l'avidità e la violenza che ne deriva attraverso una storia. E se oggi come oggi questa tipologia di canzone vi pare scontata piuttosto che abusata, e fate fatica a vederne l'eccezionalità, io in questo senso non posso che darvi ragione: l'influenza esercitata da Slick Rick è stata difatti tale da rinnovare una vasta parte del modo di concepire i testi.
Non a caso Adventures Of Contiene degli autentici classici che negli anni hanno visto diversi MC riprenderli in mano e reinterpretarli: sia nell'undergound (The Moment I Feared, Children's Story, Hey Young World) che nel mainstream (The Ruler's Back, Mona Lisa, Lick the Balls), e questo sempre nel rispetto dell'opera originale. Un simile livello di rispetto non si guadagna per caso, è ovvio, ma solo se effettivamente si riesce a creare dell'arte capace di influenzare subconsciamente almeno tre future generazioni di MC's.
Ebbene, di fronte a tanta bontà lirica bisogna dire che l'importanza dei beat quasi scivola in secondo piano. Tuttavia bisogna riconoscere che mentre alcune basi risentono effettivamente della vecchiaia (Treat her Like A Prostitute, Let's get Crazy, Indian Girl, Teenage Love) ve ne sono altre, come Hey Young World, The Ruler's Back o Children's Story, che pur mostrando chiaramente l'epoca di provenienza (vedi ad esempio il campione di Nautilus di quest'ultima: come suono non nulla a che vedere con l'utilizzo fàttone negli anni '90) non risultano in alcun modo indigeribili all'ascoltatore odierno. Il lavoro svolto dai bombsquadiani Sadler e Shocklee mi pare quindi difficilmente criticabile, ma va detto che oltre ad un ottimo Jam Master Jay chi ruba lo show è Slick Rick stesso: sue sono infatti Children's Story, Hey Young World e Mona Lisa (scusate se è poco) e alla luce di ciò quasi vorrei flippare la famose frase di Diamond D dicendo che lui potrebbe essere "best MC on the MPC".
In conclusione, quindi, posso solo dire che se le mie parole non vi hanno convinto allora lo potrà fare la musica. Adventures Of Slick Rick è davvero uno degli album fondamentali della storia dell'hip hop e che in quanto tale andrebbe assimilato sia per il puro piacere di farlo, sia per sviluppare un migliore senso critico. Difatti, le rime di Rick ancora oggi danno la paga a molta roba mainstream e non, vedi i pessimi storyteller che affollano l'underground, per cui penso che un ripassino farebbe bene a chiunque proprio per saper distinguere la qualità dalla pochezza. E aggiungo che non c'è solo un motivo di "studio" dietro all'ascolto di quest'album, ma sincero piacere: provare per credere.




VIDEO: CHILDREN'S STORY

DOOM - BORN LIKE THIS (Lex, 2009)

lunedì 11 maggio 2009

"Things done changed", diceva Biggie nel '94. Chissà cosa scriverebbe ora se qualcuno gli dicesse che ai giorni nostri basta che un artista "scompaia" per circa tre anni per crederlo disperso in azione. Perchè MF Doom ha fatto proprio questo: dopo un triennio in cui la sua produttività raggiunse livelli quantitativamente (e qualitativamente) impressionanti, Daniel Dumile scomparve pressoché improvvisamente dalla scena, lasciando chi, come me, dava per scontato un altro disco dopo Dangerdoom con un pugno di mosche. Durante questo ritiro, poi, le voci che lo volevano in procinto di partorire un Madvillainy 2 o un LP a quattro mani con Ghostfazza si susseguivano con sempre minore credibilità, c'era inoltre chi diceva che durante i live non era lui a cantare bensì un Doppelgänger, altri ancora lo volevano coinvolto in problemi di droga... insomma, tutte voci piuttosto confuse e generalmente accordanti solo nel confermare l'alone di mistero che circonda il personaggio fin dal suo ritorno sulla scena di operation Doomsday. Questo turbinio di gossip si è poi disciolto -o quantomeno è passato in secondo piano- all'inizio di quest'anno, quando senza grandi preavvisi ci si è ritrovati con un suo nuovo album in mano.
Ora, non so quali possano essere stati i pensieri di chi si è recato presso il proprio negozio di dischi preferito con in mente l'idea di comprare Born Like This; dal canto mio, l'unico era "speriamo che non sia troppo una cagata". Non saprei dire perchè fossi così terrorizzato, ma forse uno dei motivi è stato che il Nostro, contrariamente alla regola discografica e del buonsenso che vuole che prima di un disco si richiami l'attenzione con singoli o featuring vari, è tornato sulla scena senza preavvisi. E quando ciò accade, in genere dietro c'è sempre un'operazione che ben poco ha a che fare con la qualità: mi riferisco a raccolte di inediti che tali dovevano restare, mezzi bootleg pubblicati senza permesso o cose così. Fortunatamente però non sembra essere questo il caso, dato che non solo l'investimento nel packaging fatto dalla Lex rivela una cura non comune, ma anche i collaboratori (Madlib, Dilla, Jake One, Raekwon e altri) non sono del genere che si presta ad una cacatiella. E di questo mi sono accorto nel momento in cui ho inserito il CD per la prima volta nel lettore di casa: tutto quello che volete, ma questo non è un progetto messo su giusto per onorare un contratto discografico.
Tracce come Gazzillion Ear, Absolutely, Rap Ambush, Lightworks, Cellz o More Rhymin' sono nella peggiore delle ipotesi dei bei pezzi, più che degni di essere inseriti in un eventuale futuro greatest hits di Doom (se la cosa avesse un senso), e nella migliore delle gran cose. Gli elementi che hanno finora caratterizzato le sue opere -dicasi dialoghi campionati, sample dalle oscure origini, rime intricate che suonano bene e che non vogliono dire pressochè nulla- ci sono tutti ed in abbondanza. E quindi, che dire, tutti contenti e felici e a casa? Uhm, non proprio.
Qual è infatti il difetto maggiore di Born Like This? O meglio, dove lo si può trovare, visto che le singole canzoni sono tutte bene o male valide? E' semplice e grave: nell'impianto di base, che non solo è debolissimo rispetto ai suoi lavori precedenti, ma che per giunta, proprio nella sua nuova veste, soffre di mancanze difficilmente perdonabili. Prendiamo infatti come riferimento le precedenti uscite di Dumile: sono tutti concept album in cui dialoghi, sound e tematiche avevanüo un filo conduttore peraltro decisamente peronale. Per BLT, invece, il Nostro ha del tutto abbandonato quest'idea, optando piuttosto per una forma molto più frequente di disco: la raccolta "random" con dentro un po' di tutto; e se questa scelta può piacere o meno (e secondo me nel caso specifico di Doom non ha senso), è innegabile che includere una massa di canzoni della durata media di novanta secondi sia oggettivamente sciocco, perchè spezza l'ascolto senza alcuna ragione e priva di valore canzoni che invece avrebbero un ottimo potenziale. Non a caso, Gazzillion Ears -che è una raccolta di minchiate che suonano benissimo come il 90% delle strofe dell'LP- s'imprime nelle orecchie non solo perchè ha peraltro un bel beat, ma anche perchè gode dello spazio temporale sufficente per lasciare un marchio nella memoria. Vedete, salvo un paio di eccezioni irrilevanti ai fini della regola, le opere precedenti del nostro non avevano un cosiddetto "singolo" o, come dire, cinque pezzi che si potevano estrarre dal contesto: era l'insieme a dare soddisfazione. Qui, invece, si potrebbe anche pensare di prendere questa o quell'altra canzone e metterla in qualche mix, ma a che pro? Durano meno di due minuti e davvero lasciano insoddisfatti.
Che ne so, Rap Ambush vede Jake One dotare Doom di un beat splendido, tu sei lì che fai headnodding e sei tutto contento perchè Fazzadefèro suona benissimo e poi, cosa succede? La traccia finisce, PUF, lui dice "rap ambush" e te resti lì a bocca asciutta. Passi a Lightworks ed è la stessa cosa, confidi in More Rhymin' ed invece siam sempre lì a fissare il vuoto con lo sguardo di un bambino somalo a cui han fatto assaggiare un cucchiaino di tiramisù salvo poi togliergli il tutto con una grassa risata. Ho reso l'idea?
Ecco, Born Like This fallisce secondo me oltre ogni limite praticamente solo per questo. Io sono infatti disposto a perdonare l'inclusione di Gazzillion Ears, che è vecchia come il cucco, e glisso anche sul fatto che un qualche idiota ha pensato bene di mettere delle batterie übermerdose nell'altrimenti ottima Angels: passi, ego te absolvo e tutto il resto. Ma che mi si presenti una sorta di sampler, quello no. Proprio mi passa la voglia di parlarne, penso che dopo aver aspettato tre anni si debba esigere quantomeno un prodotto ragionato e non una raccolta ideata con la stessa mentalità stante dietro ai milioni di mixtape che affollano il mercato. Perchè in quel caso cesso d'interessarmi al potenziale e vado solo a vedere il risultato finale, il cui unico pregio è in fondo di essere comunque ascoltabile.
Insomma, non so cosa volesse combinare Doom, anzi, DOOM (mi raccomando le maiuscole, lui ci tiene a queste cose): so solo che era lecito aspettarsi molto, molto di più. Un album così è ai margini della possibilità di critica, perchè il materiale è davvero volatile ed in fondo inconsistente. Nulla contro l'dea di fare raccolte, ma che raccolte siano e che non vengano invece assemblate come se fossero dei concept album. Odio dover lavorare di bilancino, ma se almeno sei o sette pezzi avessero varcato la soglia dei due minuti e mezzo effettivi non avrei avuto remore ad affibbiare un bel quattro al tutto. Così, invece, tre zainetti (semiregalati) e un calcio in culo; mi auguro davvero che la sua prossima uscita dimostri maggiore visione artistica.



PROBLEMZ - BK REPRESENTATIVE (2009)

venerdì 8 maggio 2009

Mak, peraltro habitué di questo blog, colpisce ancora: ieri stavo per spegnere tutto e levarmi finalmente dal cazzo quando, passando per 187Oneccetera mi sono soffermato su questa raccolta secondo me molto curata sia nella scelta dei pezzi che nella grafica. Dato che era tardi, però, e dato che sta per cominciare il weekend mi riservo di girarvela adesso col consiglio di ascoltarla con attenzione, almeno fino a quando Prob e quel bacchio di DJ Honda non si decideranno a mettere in vendita il loro (secondo me) potenissimo All Killa No Filla su circuiti più occidentali [no Magdi Cristiano Allam].
L'unica critica che mi sento di muovere ad un lavoro che non avrei saputo far meglio è la diparità tra i volumi delle canzoni (poca roba in realtà), ma soprattutto l'inspiegabile inclusione di una versione di Society a 80kbps. Huh? Beh, poco male, ve ne allego una a 192 tanto per sostituirla.

Problemz - BK Representative (via 187OnAMothafuckinCop)
Problemz - Society 192kbps