DOOM - UNEXPECTED GUESTS (Gold Dust Media, 2009)

mercoledì 23 dicembre 2009

Nuovamente immerso nel delirio di chiusura di numero, con come bonus l'assenza dei miei due colleghi e quindi impelagato in cose che vanno dai contatti coi fotografi al controllo dei Cromalin, per augurarvi un buon natale senza grandi sofferenze non mi resta che farvi dono del secondo album di Daniel Dumile uscito quest'anno: Unexpected Guests. In realtà, come si può intuire dal titolo, non si tratta di un vero e proprio album solista quanto una raccolta di tracce in cui Doom appare al microfono, al campionatore o ambedue le cose, analogamente a quanto fece Ice Cube ormai due lustri fa.
Da giudicare, più che la qualità stessa dei pezzi, dovrebbe essere quindi la qualità di un'operazione di per sè non eccitante ma che nella fattispecie si rivela invece molto interessante. Interessante non solo perchè il catalogo di Fazzadefèro è piuttosto ampio nonché parzialmente difficile da reperire, ma soprattutto perchè la selezione è stata fatta dal Nostro e perciò riflette per certi versi una direzione artistica personale quasi quanto quella che può esserci dietro ad un album vero e proprio. Faccio presente che del disco girano però due versioni: una con tredici pezzi, riconoscibile dalla copertina marroncina con la maschera di Doom effettata a mo' di stencil, e questa da diciotto. La prima ha inoltre una selezione in buona parte diversa e pesca dal repertorio più recente, mentre questa copre in maniera più esaustiva la sua carriera a partire da Operation Doomsday in poi; detta in soldoni, quella che vi propongo è la variante migliore pur non contenedo né Trap Door, né Rock Co.Kane Flow.
Chiuse così le premesse, veniamo al dunque. La selezione di tracce è ricca e prende in esame perlopiù collaborazioni esterne. Di materiale riconducibile direttamente a opere di Dumile non c'è quasi nulla, ad eccezione del singolo tratto dal suo esordio solista (Question Mark) che, restando un pezzone ancor'oggi, è comunque più che gradito. Per il resto, da un lato si può suddividere Unexpected Guests in collaborazioni più o meno note come Angels (riproposta per la zilionesima volta ma perlomeno senza le inutili batterie sentite in Born Like This), The Unexpected, Project Jazz ed E.N.Y. House, e dall'altro invece in oscure b-side piuttosto che tracce probabilmente mai sentite dal fan medio del Nostro. Ne sono ottimi esempi le straordinarie Bells Of Doom e All Outta Ale, ambedue prodotte magistralmente da The Prof (?), con in particolare la prima dotata di un «nod factor» ai livelli di una Triumph o una Time's Up (e scusate se è poco). Ma nel novero delle chicche poco conosciute vanno senz'altro annoverate anche Sniper Elite, prodotta nientemeno che da Dilla, il remix di Street Corners con Masta Killa, Deck e GZA, e Quite Buttery col bostoniano Count Bass D.
Queste, sommate appunto alle più note e già apprezzate collaborazioni con Ghostface, Hell Razah (Project Jazz, essendosela persa in molti, va assolutamente ascoltata), Vast Aire e altre rendono quindi Unexpected Guests un'opera innanzitutto molto, ma molto piacevole da ascoltare, con picchi qualitativi sparsi per i cinquanta minuti di durata che fanno facilmente dimenticare quei pochissimi episodi che per un motivo o l'altro deludono (a causa del beat fiacco, Unexpected è uno spreco di ospiti, e Fly That Knot è lievemente danneggiata dal brutto ritornello). Ma oltre alla qualità intrinseca dei pezzi, è apprezzabile la coesione del sound -assolutamente non garantita in questo genere di opere, anzi- e la completezza filologica raggiunta. In altre parole, se proprio non sapete che disco regalarvi a natale, questo può essere una scelta quanto meno azzeccata; anche e soprattutto per chi non è un fan sfegatato di Dumile.

VIDEO: ?

O.C. & A.G. - OASIS (Nature Sounds, 2009)

martedì 22 dicembre 2009

Approfittando della pausa lavorativa concessami dalle cause collaterali dovute al maltempo, che hanno bloccato nei treni o in casa buona parte della redazione, vedo di lasciarvi un ultimo disco prima di Natale in modo tale che possiate perdonare questa mia lunga e forzata assenza d'aggiornamenti. E per farlo decido di svelare -si fa per dire, dato che il disco è uscito da quasi un mese- l'ultima delle collaborazioni a due che hanno segnato in positivo questo 2009. Dopo Torae e Marco Polo, KRS e Buckshot, Problemz e Honda e Masta Ace e EdO.G, ora è quindi il turno di due veterani della scena che non hanno bisogno di presentazioni: O.C. e A.G., al secolo Omar Cradle e Andre Barnes.
In giro fin dai primi anni '90 e aventi alle spalle due indiscutibili classici -Runaway Slave e Word Life- le loro carriere hanno però subito negli anni duemila gli stessi contraccolpi ricevuti dalla D.I.T.C. tutta, cioè inconsistenza qualitativa e relativo calo di popolarità dovuto però, oltre ai mutamenti del mercato, ad un esiguo numero di pubblicazioni. Tuttavia, questa seconda metà del decennio li ha visti tornare alla luce del sole grazie non solo a dischi propri ma anche e soprattutto a diverse collaborazioni, il cui fulcro può essere considerato appunto questo Oasis. Inutile ora marcare le differenze d'aspettative tra oggi e dieci anni fa: l'unica cosa che conta è fare una bella verifica che ci consenta di capire se i due siano scoppiati o meno e, ancor più importante, se la D.I.T.C. sia ancora dotata di una spina dorsale o se ormai si può considerare estinta de facto: insomma, se si tratta dell'album che noi fan abbiamo aspettato per troppi anni o meno (Starchild e Get Dirty Radio sono buoni dischi, per carità, ma sonoricamente non c'entrano quasi nulla con la Diggin' In The Crates).
Questa sorta di biopsia musicale assume ancor più senso se prendiamo in considerazione gli (alcuni) autori delle basi, cioè quei Show e Lord Finesse che noi tutti conosciamo e amiamo pur non essendosi contraddistinti di recente per bravura. Il nostro amore per loro non dev'essere peraltro sfuggito al direttore marketing della Nature Sounds, che difatti ha schiaffato sulla copertina del disco un adesivo king size recante i loro nomi a caratteri cubitali -e fin qui tutto bene- tralasciando però completamente il povero E Blaze, cioè colui che di fatto fornisce il maggior contributo al disco con ben nove tracce da lui firmate. Per carità: a lui gireranno legittimamente le palle, ma a noi poco importa: il sound di Oasis è infatti decisamente omogeneo, pur con le debite variazioni del caso, e grossomodo si può dire che viaggia preedominantemente sull'uso di campioni soul e funk degli anni '70. Chi si aspettava quindi il minimalismo di fine anni '90 resterà deluso, pquindi, perchè in realtà quasi tutti i pezzi risultano gradevoli all'orecchio e financo melodici: ne possono essere esempi gli archi melancolici di God's Gift oppure il loop di piano accompagnato dal Moog e dalle campanelline di Alpha Males, ma anche il tiro rilassato di Supreme Squad e le tastiere elettroniche riverberate di Get Away bastano per dare un'idea del mood dominante in Oasis. Anzi, con come unico autentico pestone la magnifica Think About It (i tagli di campione sono perfetti), e con come solo omaggio alle atmosfere più cupe della tradizione D.I.T.C. l'altrettanto valida Against The Wall (molto ottantona, sono portato ad affermare che Oasis parrebbe più adatto ai Camp Lo o al Beanie Sigel più tranquillo che non ai Nostri.
Per carità: la qualità dei beat è indiscutibile e, fatta salva una certa carenza d'orignalità e l'occasionale, perdonabile cacatiella (Boom Bap, Put It In The Box), calzano anche molto bene al duo. Tuttavia, oggettivamente si può dire che alcune basi s'assomiglino troppo nella struttura e nella scelta dei campioni (Everyday Life = Reality Is = God's Gift, ad esempio), mentre soggettivamente non vi son cazzi: si chiedeva e si poteva avere un po' più di hardcore. Oasis è invece molto rilassato, forse fin troppo, e questo da un lato -passata l'infatuazione inziale- può annoiare, anche in considerazione della discreta durata dell'opera, e soprattutto tradisce quel che bene o male si è sempre chiesto agli autori di una Time's Up o una Spit. Comunque sia, visti i trascorsi di O.C. e A.G. in quanto a beat forse non è il caso di lamentarsi troppo e farsi andar bene l'offerta qui presentataci, in cui peraltro svetta su tutti E Blaze, seguito a ruota da Finesse; mentre per Show comincio a preoccuparmi visto che ad eccezione di Two For The Money e al limite Young With Style tradisce di un bel po' le aspettative soprattutto in termini di creatività e originalità. Mmmh...
Chi invece alla fin fine fa il proprio lavoro e lo fa bene sono proprio O.C. e A.G., che, se tematicamente restano bene o male inquadrati sugli stessi binari di dieci o (quasi) vent'anni fa, stilisticamente appaiono proprio in forma. Quel che infatti manda in sollucchero di Oasis è l'alchimia presente tra i due, come questi sanno adattarsi al beat e viceversa, e più di ogni altra cosa lo sfoggio di bravura francamente ormai insospettabile. Quello che voglio dire è insomma che non solo rappano bene, che è il minimo che ci si può aspettare dai due, ma che sono tornati ai fasti di Jewelz e Full Scale -aggiornandosi quel che basta. Scordatevi quindi il tono monocorde dell'O.C. di Starchild, oppure quella sorta di imprecisione che si notava in get Dirty Radio: pur parlando praticamente solo di sè stessi, qui i due danno l'idea di dare il massimo come tecnica e difatti la cosa si nota. Impossibile perciò descrivere la pulizia e la precisione delle loro rime; preferisco rimandarvi all'ascolto per capire meglio cosa intendo.
In conclusione, quindi, il meno che si può dire di Oasis è che è un album ben fatto ma non coraggioso; non coraggioso né nella scelta dei beat, né in una ricerca contenutistica in cui l'essere un duo avrebbe potuto dare la famosa marcia in più (cosa che invece avviene nel caso di Ace e EdO.G., per dirne una). Pure, alla fin fine ciò che viene proposto è e resta materiale di qualità e, se solo si fosse data una sforbiciata alla tracklist, avremmo avuto tra le mani un prodotto innegabilmente migliore. Ma già così com'è sarebbe delittuoso non dargli una chance, credetemi. Tre e mezzo per restare oggettivi, ovviamente a titolo puramente personale gliene darei quattro abbondanti.



IMMORTAL TECHNIQUE - REVOLUTIONARY VOL. 2 (Viper, 2003)

martedì 15 dicembre 2009

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere nei commenti relativi al mio sfogo contro quel povero scemo di Daniele Silvestri un'espressione di sollievo da parte di un lettore, dovuta al fatto che egli (probabilmente) vedeva in quelle righe una mia volontà di separare l'hip hop dalla politica tutta, e dall'area di sinistra in particolare. Non starò ovviamente a indugiare in interpretazioni di commenti così brevi, ma se ho voluto citare l'intervento è perchè lo ritengo ben rappresentativo di un sentire comune a molti ascoltatori di rap, soprattutto italiani. Ora, i motivi per cui tanti si pongano in linea di principio contro la commistione di musica e "impegno" (passatemi il termine) li posso solo immaginare, e magari tra di essi rientra anche un preponderante schieramento a sinistra da parte di chi si è cimentato/si cimenta in questa pratica; non saprei dire. Limitandomi dunque a quel che mi riguarda, in generale nutro forti sospetti nei confronti di chi mescola le due cose perchè in generale si tratta o di persone a) prive del bagaglio minimo di conoscenze per poter scrivere di politica, o di individui b) incapaci di esprimere le proprie riflessioni in maniera piacevole per l'orecchio, oppure, infine, c) ambedue le cose.
Il problema che ho -personalmente- non ha quindi a che fare con il principio stesso della divisione tra le due cose, quanto dalla sua effettiva applicazione, che spesso si risolve in puttanatone epiche che si pongono a distanza di anni luce da una qualsivoglia forma di pensiero articolato. E siccome statisticamente chi si cimenta in questi estri tende a sinistra, oltre a provare schifo per il penoso risultato artistico, mi ritrovo pure in preda all'imbarazzo di chi vede esporre nel peggiore dei modi possibili un'idea che di per sè magari condivido.
Ebbene, dopo una pausa quasi decennale avutasi nel corso degli anni '90, a partire dall'inizio di questo decennio abbiamo potuto assistere ad una piccola resurrezione del sottogenere; almeno a livello underground, è difficile oggi non incappare oggi in almeno uno o due pezzi aventi come sfondo l'attualità e la politica (persino Ghostface l'ha più o meno fatto, vedete un po' voi). E se nell'80% dei casi purtroppo continua a perseguitarci il sopracitato danielsilvestrismo©, oggi più di ieri ci sono un po' di personaggi secondo me degni d'interesse e, fra questi, spicca senz'altro Immortal Technique. I motivi sono innumerevoli, ma giusto per fare un rapido elenco eccovene alcuni: è credibile, preciso nella critica, sintetico, informato, creativo, originale, rappa benissimo e ha pure una bella voce. Insomma, straccia la maggioranza dei suoi colleghi e rappresenta infatti uno dei pochi artisti venuti fuori in questo decennio dei quali si ricorderà il nome anche nel corso dei prossimi anni.
Ciò detto, senza perdere tempo in tante note biografiche, arriviamo al dunque: Revolutionary Vol. 2 è la sua seconda opera, pubblicata ad una distanza relativamente breve rispetto alla precedente ed accolta con grande plauso della critica nonché con un discreto successo di vendite (tenendo conto che la distribuzione iniziale era una merda ecc. ecc.) arrivando ad oggi alla discreta somma di circa novantamila copie vendute nei soli Stati Uniti; un successo secondo me più che meritato, visto che pur conservando parte del titolo del predecessore esso ne risulta la versione perfezionata da ogni punto di vista e capace talvolta di raggiungere quasi la perfezione. "Quasi"?
Sì, certo. difatti, il difetto principale di Revolutionary Vol. 2 consiste nell'avere perlopiù beat discreti o anche bellini, ma quasi mai davvero belli; certo, qualche eccezione c'è, ma la maggior parte delle produzioni qui serve giusto per dare uno sfondo ed una minima di ritmica ai testi. Il loro pregio resta comunque un'indiscutibile orecchiabilità -data anche da un che di già sentito, bisogna dire (Peruvian Cocaine è No Ordinary Love dei Kreators, Crossing The Boundary è Gangsta Shit di Jay-Z, Industrial Revolution è Cake di Pete Rock... ci siamo capiti)- o comunque un'ottima capacità di fornire a Tech lo sfondo acustico migliore per il tipo di canzone. Ad esempio, l'idea di campionare la colonna sonora di Scarface è perfetta ed il concetto stante dietro a Peruvian Cocaine fa subito passare in secondo piano il fatto che sia un sample già sentito; Harlem Streets, invece, conferisce un tono di melanconia calzante a pennello per il tipo di testo, così come fanno i loop di chitarra di Leaving The Past e You Never Know. E questi sono solo un paio di esempi; insomma, Southpaw, principale autore delle basi, alla fin fine fa un lavoro che se non brilla per originalità perlomeno si dimostra adatto al protagonista e, a conti fatti, i pezzi più deboli si riducono ad un paio. Cause Of Death mi risulta un po' incasinata, tra sample vari e batterie veloci, e alla fine viene salvata in extremis solo dall'eccezionale performance di Tech; mentre Obnoxious nemmeno quello, in quanto a fianco di un campione latineggiante senza arte né parte vediamo che il Nostro si lascia andare all'insulto a ruota libera -che viene benissimo ad un Chino XL, ma che in questo contesto risulta decisamente fuori luogo.
Tuttavia, come già accennato, tra le peculiarità del reparto beat quella più positiva e che sopravanza le altre per importanza consiste nel saper appoggiar bene i testi del protagonista e di accompagnarli adeguatamente, sia in termini puramente tecnici (tiro delle batterie e mixaggio, ad esempio) che più astratti (principalmente atmosfere). Sarebbe infatti stato un dramma se le basi si fossero rivelate troppo ingombranti, perchè alla fin fine se uno decide di ascoltare Tech lo fa principalmente per i testi, e pertanto questi devono sempre restare in primo piano -cosa che qui fortunatamente accade. E così, in poco meno di 70 minuti di musica, noi ascoltatori entriamo in contatto col pensiero e con la Weltanschauung del Nostro, che in modo piuttosto semplicistico (e non senza contraddizioni) potrebbe essere definita un incrocio tra Marx, Chomsky, Moore, Malcolm X e Huey dei Boondocks per quanto riguarda il sarcasmo.
Contrariamente infatti a molti suoi presunti colleghi, il cardine della sua critica sta non tanto nell'attacco a questo o quel politico ed alle relative azioni, ma ad un intero sistema economico e le sue logiche di cui la politica è solo la prosecuzione con altri mezzi. La famosa teoria della mela marcia quindi non trova cittadinanza nel suo pensiero, perchè è l'intera cesta ad essere scaduta, e tale resterà fintanto che le decisioni politiche saranno influenzate sempre ed esclusivamente mettendo in primo piano l'appoggio ai potentati economici mondiali. Lungi però dallo scadere nel qualunquismo, Tech cita a suo appoggio diversi eventi -molti dei quali sconosciuti perlomeno a noi europei- che s'incentrano sulle politiche tenute dagli USA nei confronti dell'America latina nel corso degli anni '80, principalmente in Nicaragua ed El Salvador ma anche ovviamente Perù (sua terra natìa), Cile ed Argentina. E, com'è ovvio, ad uscire peggio da quest'analisi sono i repubblicani e l'establishment militare, ambedue gruppi che vengono nuovamente presi d'attacco quando il Nostro si sposta ai fatti post-11 settembre. Ese , com'è ovvio, buona parte della critica radicale è rivolta alle sopracitate categorie, nulla viene risparmiato al sistema mediatico, che si rende colpevolmente corresponsabile di politiche d'aggressione e d'azzeramento dei diritti sociali (in patria e all'estero) mediante una disinformazione fin troppo meticolosa per poter essere definita casuale. Da qui poi gli effetti del sistema ricadono a pioggia su quelli che potremmo definire gli aspetti più tipici del rap: vale a dire le condizioni sociali nei ghetti, l'ignoranza media ivi diffusa, i comportamenti da parte delle case discografiche (major sì, ma anche le indie, ritenute colpevoli di comportarsi alla stessa maniera delle sorelle maggiori) e la promozione dell'inciviltà che ne deriva a causa anche della connivenza di alcuni «sellout».
A margine poi vi sono anche un paio di excursus nello storytelling: You Never Know, che tratta in maniera autobiografica di come l'AIDS distrugge una coppia, e soprattutto la posse cut Peruvian Cocaine, in cui ciascuno degli ospiti assume il ruolo di uno dei personaggi tipicamente coinvolti nella produzione e nell'importazione della droga: dal contadino al caporale, dal narcotrafficante all'agente federale corrotto, questa canzone non solo è eseguita in maniera eccezionale ma rappresenta uno dei migliori esempi di come si può far cronaca e spiegare determinati aspetti del mondo senza risultare pedanti e/o noiosi. Del resto, lo stesso Tech è tutto fuorchè pedante: a differenza ad esempio dei «presi bbene», egli raramente fa sconti ai comportamenti altrui; ad esempio, a fronte di comportamenti ignoranti ed autodistruttivi da parte di chi è vittima potenziale dell'informazione, egli fornisce sì un'attenuante generica ma lo deinisce comunque poco più un burattino ("And if you can't acknowledge the reality of my words/ You're just another stupid motherfucker out on the curb/ Trying to escape from the ghetto with your ignorant ways/ But you can't read history at an illiterate stage").
Tutta questa impostazione viene poi definitivamente solidificata dallo stile di Tech, classico nella sua struttura ma ricco di metafore, parabole e parallelismi che tradiscono la sua lunga esperienza nel circuito delle battle nuiorchesi. Anche qui, ovviamente, punchline e quant'altro possono sì essere "classiche" ("With skills unused like fallopian tubes on a dyke"), ma altrettanto sovente assumono un taglio coerente con l'impostazione dell'album e l'attitudine del personaggio ("you motherfuckers will never get me to stop blastin'/ You better off asking Ariel Sharon for compassion"); il risultato quindi non è schizofrenico e, fatta salva la già criticata e fuori luogo Obnoxious, alla fine l'immagine che ci possiamo fare di Tech e della sua musica è tutto fuorché contraddittoria. Aggiungiamoci poi un talento nel cucire insieme rime, una dizione impeccabile, un vocabolario ovviamente vastissimo, ed ecco che il Nostro non può non risaltare immediatamente agli occhi di chiunque sia alla ricerca di rap fatto coi controcoglioni.
In definitiva, quindi, pur non essendo un album perfetto (da qui il voto), personalmente trovo che Revolutionary Vol. 2 sia a suo modo già un classico nonché uno dei dischi fondamentali se si vuole ricostruire il decennio in musica. Come impostazione e come realizzazione -parlo soprattutto dell'emceeing- quest'opera ha difatti già fatto proseliti e resta il punto di riferimento per chi vuole trovare -in un genere divenuto nel corso dei tempi fin troppo sbilanciato a favore del cazzeggio- della serietà e della concretezza. Poi si può non essere d'accordo con tutto ciò che Tech sostiene, certamente, ma il solo fatto che si giunga al punto di sviluppare un senso critico mi sembra una bella cosa. Liricamente, quindi, cinque zainetti abbondanti; musicalmente tre e mezzo: a questo punto mi sbilancio e arrotondo all'insù.



R.A. THE RUGGED MAN - LEGENDARY CLASSICS VOL. 1 (Greenstreets Ent., 2009)

venerdì 11 dicembre 2009

Siccome oggi ho un giramento di palle a dir poco vorticoso, la mia voglia di affrontare materiale nuovo e soprattutto di descriverlo nel migliore dei modi per me possibile è inesistente. Men che meno mi va di affrontare un disco come Revolutionary Vol.2 avendo quest'uggia addosso, perciò posso solo dirmi fortunato di aver ordinato la recente antologia di R.A. The Rugged Man assieme all'esordio dei Diamond District e il sopracitato Revolutionary Vol. 2.
Legendary Classics infatti non solo ha il pregio di fare il sunto della carriera dello Scoppiato di Long Island a partire dai suoi esordi nel '93 fino ad oggi, ma per di più si presenta come uno dei pochi esempi di raccolta fatta bene sotto ogni punto di vista: tutte le tracce sono state rimasterizzate, ci sono diversi inediti, la grafica è perfetta per il tipo di personaggio, ci sono brevi descrizioni per ogni brano e per giunta ci viene fatto dono di un DVD i cui contenuti posso solo immaginare. Insomma, se nel caso delle antologie preferisco non esprimere voti come se si trattasse di dischi qualsiasi, devo puntualizzare che già solo per la cura dimostrata nella concezione e nella realizzazione di Legendary Classics c'è da stringere la mano a R.A. e a chiunque lo abbia aiutato nel parto di questa sorta di greatest hits.
Detto questo, e avendo quindi constatato che l'aspetto tecnico e filologico è assolutamente ineccepibile, l'unica cosa che resta da vedere è l'effettiva offerta fattaci dal Nostro. Beh, dopo una breve lettura della tracklist possiamo stare tranquilli: la redistribuzione temporale delle tracce viene rispettata -anche il periodo oscuro, cioè la fine degli anni '90- e vengono proposti sia i classici, da Cunt Renaissance a Uncommon Valor passando per 50000 Heads, sia alcuni inediti (Windows Of The World, Who's Dat Guy e altri), sia pezzi finora reperibili esclusivamente in Mp3 (L.I.'s Finest, Poor People etc.). Ascoltandoli, pur non essendo stati ordinati cronologicamente, ci si può fare un'idea dell'evoluzione di R.A.: all'inizio stilisticamente molto aggressivo -com'era di moda all'epoca dei primi Onyx e M.O.P.- poi più rilassato e, se vogliamo, «normale», infine caratterizzato da metriche serratissime ed un flow definibile come "robotico". E se penso che chiunque lo preferisca in quest'ultima modalità, c'è da dire che anche le sue opere meno recenti conservano comunque un loro fascino: 50000 Heads, per esempio, gode di un beat lento che picchia sui timpani senza pietà, complice anche un bel campione di piano e la presenza di un ottimo Sadat X; Poor People, invece, da un lato può sembrare puzzona per via del beat denso di synth usati à la californiana (g-funk, insomma), ma dopo tre ascolti riesce a rapire l'attenzione dell'ascoltatore grazie ad un ritornello semplicissimo ma efficace ed un R.A. decisamente a suo agio (e divertente). Decisamente più cupa è la semiautobiografica Smithhaven Mall, che campionando Sade ci presenta il lato più serio e oscuro del Nostro, così come ugualmente rappresentativa dell'attitudine di Thorburn è Every Record Label Sucks Dick: concepita come un vero e proprio dispetto nel momento in cui la Jive gli chiese un potenziale singolo radiofonico, direi che essa è la più concreta manifestazione dell'antagonismo e dell'estremo purismo che da sempre lo caratterizza.
Questo può piacere o no, è chiaro; ma direi che se c'è una cosa di cui non lo si può accusare è di incoerenza. E oltre a non poterlo definire un ipocrita, ancor meno si può dire che sia scarso: pezzi come Give It Up, Renaissance, Supah e l'inarrivabile Uncommon Valor dimostrano quanto egli sia potente ed anche originale, pur vedendo nel Kool G Rap d'annata la sua più evidente fonte d'ispirazione. Inutile descriverli a parole: l'unica cosa è ascoltarli con grande attenzione e notare non solo come le sue ampie dimostrazioni di talento siano da lasciare a bocca aperta, ma soprattutto come egli riesca sempre a dare la paga all'ospite di turno (quantomeno per quel che riguarda le tracce incise dopo il 2000). E non parlo solo di un Vinnie Paz o, peggio ancora, di Big John (cito dal booklet: "Some people don't like Big John's rhyme style but he did his thing and he's the first one to put me and KGR together on a joint so that gotta count for something", come a dire: più in là di così non mi posso spingere); no, parlo di un J-Live, di un Tragedy Khadafi e persino di Kool G Rap stesso.
Poi, certo, per bravo che possa essere anche R.A. non può imbroccarle tutte: Stanley Kubrick per me continua ad essere a malapena passabile, Posse Cut delude un po' le aspettative (e potevano intitolarla Chains 1.1 da tanto che s'assomigliano i rispettivi beat), What The Fuck getta nel cesso un'apparizione di Akinyele a causa di una produzione sinceramente ignobile e, infine, Who's Dat Guy fa finalmente luce sul motivo per il quale Havoc all'epoca gli regalò la base anziché fargliela pagare: "rimasuglio", "scarto", chiamatela come vi pare ma vi assicuro che del Hav dei tempi d'oro non ha nulla.
Ma a parte queste macchie sul curriculum, reputo che Legendary Classics sia un disco assolutamente da avere, come e più del suo esordio ufficiale: non solo per questioni di completezza, ma anche in termini di bellezza tout court. E ora non resta che attendere il prossimo e apparentemente imminente album solista...

VIDEO: POSSE CUT

ELZHI - THE LEFTOVERS UNMIXEDTAPE (Free Download, 2009)

Bomba. Produzioni -tra gli altri- di Black Milk, Oh No, Jake One, Spinna, MoSS. Devo ancora dirvi cosa fare? Qualcosa finirà sul Encores, poco ma sicuro. Reperibile a 320kbps direttamente dal sito di Elzhi.

CLIPSE - HELL HATH NO FURY (Zomba/Star Trak, 2006)

giovedì 10 dicembre 2009

Penso, avendo finora raccolto qualche prova, di non essere l'unico a cui il recente album dei Clipse (che a me piace ricordare così) non solo non è piaciuto ma è parso oggettivamente una dipartita dalle peculiari atmosfere che avevano caratterizzato il loro precedente (e acclamato) Hell Hath No Fury; evidentemente il passaggio/ritorno ad una major ha influito sulle scelte non tanto dei testi quanto quelle dei beat. Del resto, non sarebbe la prima volta. Ad ogni modo, la cosa un po' mi spiace perchè è ovvio che io per primo avrei apprezzato un bis qualitativo, ma d'altro canto loro non sono di certo il mio gruppo preferito e pertanto i rimorsi si attestano su livelli abbastanza bassi. Diciamo solo che li reputo due validi MC aventi alle spalle un semicapolavoro, ed è esattamente quest'utlimo ciò di cui mi accingo a scrivere.
Al momento della sua uscita, Hell Hath No Fury mieté tali consensi dalla critica che persino io mi sentii in dovere di dargli un ascolto, pur con tutti i pregiudizi del caso: difatti, assieme a Weezy F. Baby, i Clipse sono forse gli unici artisti capaci di raccogliere il plauso di repponi e hipster, e ciò per me significa generalmente un deficit qualitativo (deduzione basata su fatti empirici). Insomma, il segno che c'è qualcosa che non va. Ed invece, dopo pochissimi ascolti, mi fiondai in negozio e mi feci un regalo di natale di cui ad oggi ancora non mi pento minimamente; riascoltato occasionalmente in questi anni, HHNF non ha perso una briciola dello smalto iniziale e la combinazione tra beat ed emceeing risulta ancor'oggi capace di mantenere desta la mia attenzione come se questi tre anni non fossero passati. Possibile? Sulla carta sì, certo è che tutt'ora mi fa specie pensare che un simile disco possa piacermi come e più di tanti prodotti dei miei soliti reppusi underground.
Insomma: pur non disdegnando in toto i Neptunes, mai avrei potuto pensare che su dodici beat sarebbero riusciti a partorirne ben dieci capaci di piacere persino a me, tra cui sei che reputo addirittura fantastici. Primo fra di essi, in ordine d'ascolto, quello di Mr. Me Too: costituito pressochè unicamente da un rullante secco e da una linea di basso bella pesante, il lavoro maggiore lo fa proprio quest'ultima che, assieme a dei synth certamente freddi (o "plasticosi", direbbero alcuni), conferisce un tiro eccezionale al tutto facendo quasi scordare che, nei fatti, di «beat» nel senso più stretto ce n'è davvero poco. E che dire allora di Ride Around Shining, con il suo break spezzato sulle sole chiusure di battuta e la semplice quano efficace singola nota di arpa che fa capolino giusto per arricchire il piatto? Ma meglio ancora di queste prime due sono Hello New World e la magnifica Keys Open Doors, due basi di grande cupezza in cui la creatività dei Neptunes viene indirizzata su binari ben specifici e con un grande successo: nel primo caso ci sono nuovamente dei synth belli corposi a dare un tono sinistro alle martellanti batterie, mentre nel secondo il posto da «prima viola» viene preso dalla bellissima combinazione data da delle campanelle abbinate ad un coro femminile campionato ed effettato in modo tale da sembrar provenire da un altro mondo.
Infine, più avanti, si chiude con la minimalista Chinese New Year, nuovamente girata sulle sole batterie e su poche scale di synth, e la cover di (o addirittura omaggio a) Mind Playin' Tricks On Me dei Geto Boys, intitolata Nightmares, che difatti campiona Hung Up On My Baby di Isaac Hayes solo che stavolta la rallenta al punto tale da apparire quasi come una strumentale dub.
Insomma, tornando al dilemma iniziale (e skippando qualsiasi commento su Wamp Wamp e Trill, che mi sembrano delle cafonate generiche e manieriste, senza arte né parte), com'è possibile che un cultore del suono più classico apprezzi così tanto dei beat che da quella formula così tanto si distaccano? Uno dei motivi potrebbe per esempio essere dettato dal fatto che qui si fa un uso bello ampio di breakbeat, col risultato che pur aggiungendovi poi synth e quant'altro il tutto alla fin fine suona come dio comanda. Poi c'è anche la questione delle atmosfere: fatte salve le solite Trill e Wamp Wamp, il semplice uso di strumenti diversi dal campionatore vivaddio non riesce a nascondere un mood generalmente cupo, sinistro, e che non concede di fatto nulla all'ascolto facile. Insomma, pur usando mezzi solitamente dedicati per creare le peggio cinghialate della terra, i Neptunes sono riusciti a dare un atglio hardcore al tutto, e dio solo sa come hanno fatto. Last but not least, se prendiamo in considerazione questi due essenziali fattori, a margine potremmo annotare che dopo tanti campioni di soul loopati allo stesso modo, e miliardi di sample di piano o archi, un cambio di stile di tanto in tanto non può che far bene. E questo è esattamente ciò che potrete trovare in HHNF: quello che vi piace nelle sue forme più tradizionali è qui presente in chiave diversa e, a partire dai sei capolavori commentati più sopra per giungere alle altre quattro tracce più che degne (We Got It For Cheap, Momma I'm So Sorry, Ain't Cha e Dirty Money), risulta un connubio pressoché impeccbaile tra tradizione e sperimentazione.
Quanto all'emceeing il discorso va necessariamente allargato ad una piccola serie di considerazioni. Prima fra queste è quella che vuole che se la stragrande maggioranza del materiale del «dirty south» o, più in generale, della roba modaiola fa cagare è perchè a rapparci sopra c'è spesso un incompetente del tutto negletto a mattere insieme due parole. Secondo: sempre nelle categorie di cui sopra, il dramma è che le tematiche non solo sono sempre le stesse (anzi, sempre la stessa: "Sono ricco perchè spaccio con tutto ciò che ne consegue"), ma per giunte vengono affrontate con un vuoto di creatività tale da far impallidire persino Vasco Rossi. Terzo, ma forse un'estensione del secondo punto, il dramma è che tutta quell'autoesaltazione avviene in maniera tale da lasciare del tutto indifferente l'ascoltatore medio; vale a dire che pur non interessandomi in realtà nulla del tuo status socioeconomico, se riesci a propormelo in maniera creativa -mediante metafore o immagini particolarmente suggestive- sono più che disposto ad ascoltarti.
Bene: i fratelli Thornton riescono a fare tutto questo. Poco importa che i loro testi vertano sullo spaccio e sui suoi frutti in almeno il 90% dei casi, il punto è che risultano originali e creativi nel farlo. Hanno stile, insomma, il quale viene per giunta supportato da delle capacità tecniche di per sè non eccezionali ma perfettamente calzanti in considerazione del tema. Le loro spacconerie difatti reggono innanzitutto grazie a sapienti giochi sull'intonazione delle voci, sulle pause e sull'innegabile alchimia esistente tra i due. Il carisma che deriva da queste tecniche contribuisce perciò in maniera definitiva a conferire un senso, una giustificazione, a uscite come "Been two years, like I was paddywagon cruisin'/ The streets was yours, ya dunce cappin' and kazooin'/ I was just assuming you'd keep the coke movin/ But I got one question: the fuck y'all been doing?" E poi, appunto, tanto per tornare alla questione dell'originalità, appare evidente dalle numerose one-liners come i Nostri non rientrino nello standard dei consueti ghettusi: "Break down keys into dimes and sell 'em like gobstoppers", "Pusha push Don P keys with these sounds of crackness/ The black Martha Stewart, let me show you how to do it", "Open up the Frigidaire, 25 to life in here"... sceglietene voi una. oppure ascoltatevi l'intero disco.
A dimostrazione finale poi che i Clipse non sono dei cretini potrei infine citare certe uscite quasi intimiste di Momma I'm Sorry, ma preferisco optare per la rivisitazione di Mind Playin' Tricks On Me, eccezionale a partire dal beat per giungere alle liriche, che rendono un degno omaggio al classico originale recuperandone il senso di paranoia e persino alcuni passaggi: "They're coming for me, they running up/ I'm on my balcony seeing through the eyes of Tony/ They say we homies, but I see hatred/ Don't they know that brotherly love is sacred?/ Niggaz catch feelings, even contemplate killings/ When you see millions, there are many chameleons".
In conclusione: Hell Hath No Fury è un disco eccezionale in sè e per sè, e paradossalmente lo diventa doppiamente se avete un orecchio abituato a nutrirsi di Pete Rock e Premier. La tamarraggine di Pusha T e Malice è in realtà una ricerca di stile che sovente centra il punto, così come l'apparente cafonaggine delle produzioni dei Neptunes alla fin fine non è che una diversa interpretazione degli stilemi a noi (?) tanto cari. L'album è ancor'oggi fresco, mostra evidenti segni di creatività e, soprattutto, intrattiene. Hip hop allo stato puro, insomma. E la sua brevità non fa che aumentarne il valore; certo, peccato per quei due pezzi...




VIDEO: MR. ME TOO

Clipse - Mr Me Too

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MOOD - DOOM (Blunt/TVT, 1997)

giovedì 3 dicembre 2009

[Prima di scrivere la recensione quotidiana, vorrei segnalarvi un'esperienza traumatica avuta ieri sera. Anzi, due: la prima è che la mia ragazza mi aveva annunciato che avrebbe guardato la finale di X Factor -porcodelsuodio- e questo già è pesante di suo; mentre la seconda è che, mentre me ne stavo bello bello al computer a preparare un po' di tracce per l'Encores di quest'anno, mi salta fuori Fiddy. Già, 50 Cent non solo si è esibito a X Factor ma si è pure sorbito tutto il programma che, mi pare, è finito intorno a mezzanotte e mezza. Tremo solo al pensiero del cachet che si sarà giustamente fatto dare. Comunque sia, vi giuro che non sono riuscito a guardare per più di un minuto: ero imbarazzato per la performance di Curtis, va da sè e vorrei pure vedere, ma soprattutto provavo un orrore senza nome per le classiche minchionate da italiani, tipo la Maionchi che faceva le cornine e Morgan che faceva Morgan. Insomma, brutte cose]

Se c'è una cosa nella vita di cui vado fiero e che è parte intrinseca del mio essere, questa è la possibilità di dire a ragion veduta "Adesso arrivi a 'sta conclusione? È una vita che lo dico/sostengo/conosco, razza di pirla che non sei altro". Lo so che è un atteggiamento infantile da primo della classe, ma cosa devo farci? Talvolta la tentazione di calare l'asso è troppo forte, specialmente quando si giunge ad una determinata conclusione anni prima della maggioranza. Nella fattispecie, la conclusione è che il disco d'esordio dei Mood, nonché l'unico della loro carriera, è una autentica chicca: lo dico dal '97, da quando -dopo aver letto la rubrica «Regional Steelo» su un numero della Source di quegli anni- comprai quest'opera a scatola chiusa senza grosse preoccupazioni. In fondo era il '97 e la media qualitativa delle opere era ben più alta che non adesso, per cui potevo anche permettermi di spendere quelle trentottomila lire per un disco andando a culo. Ebbene, pur tenendo conto degli standard elevati dell'epoca, canzone dopo canzone il loro Doom mi fece un'eccellente impressione e contribuì a farmi conoscere Talib Kweli prima, e Hi-Tek dopo: difatti, se oggi si parla ancora di quest'album, è anche perchè esso segnò l'esordio di due dei nomi più noti all'interno della cerchia dell'hip hop. Talibbo infatti appare in qualità di ospite su ben cinque canzoni, rivelandosi dunque ben più di un semplice ospite, mentre Hi-Tek produce in tutto nove beat, cioè la metà esatta dell'opera.
Ma non bisogna sottovalutare i membri ufficiali dei Mood: primo fra tutti il beatmaker Jahson, che dimostra avere delle qualità decisamente buone, e gli MC Donte -ora scomparso dalla scena, se non sbaglio- e Main Flow, quest'ultimo già molto più conosciuto per aver prodotto negli anni successivi diversi solisti di mediocre fattura ma all'epoca reputabile come oggettivamente competente. Il trio difatti ha il merito indiscutibile di aver creato un album coeso, particolare nel suono e con diversi sprazzi di originalità nei temi pur provenendo da un buco di culo di città come Cincinnati, da dove l'imposizione su un mercato allora dominato fondamentalmente da due sole città sarebbe potuto avvenire più facilmente scopiazzando a tutto spiano. E invece pezzi come Esoteric Manuscripts, Karma, Info For The Streets, Nuclear Hip Hop o Peace Infinity sono frutto di una visione artistica molto chiara e nella pratica piuttosto originale, a cui poi vengono chiamati a contribuire ospiti validi che però offrono la cosiddetta ciliegina sulla torta e non l'apporto fondamentale. Se infatti Doom suona dichiaratamente come un frutto della costa atlantica, credo che sia innegabile -per chiu ha l'orecchio allenato- non notare comunque una diversità nei suoni rispetto a quel che tirava nell'underground nuiorchese dell'epoca.
Innanzitutto perchè il fil rouge di Doom, cioè una visione distopica e paraapocalittica della società, sempre vista sotto la lente della prospettiva afroamericana, non è fondata su letture (distorte) o aneddotica varia fondata su Behold A Pale Horse, ma verte casomai più sul terreno religioso o mistico. Certo, non si risparmiano frecciate al governo e a pratiche più che discutibili degli organi esecutivi e legislativi, ma il taglio che conferiscono i nostri eroi a ciò si avvicina di più allo stile del Wu che non a quello dei Public Enemy o degli X-Clan: non a caso l'esempio principe di ciò, Illuminated Sunlight, vede come ospiti proprio i Sunz Of Men -che difatti risultano combaciare perfettamente con la visione dei Mood: "My niggaz lie in jail but can't wait to try and kneel/ Elevatin' the higher stimulation of dying brain cells/ I'm dead? I can't tell, yo my think-tank is swelled/ The indivisible invisible bank sales, through outputs/ I smuggle my views without hooks/ Educated myself work for delf without books or school, it takes an idiot to educate a fool". Insomma, più che esporre punto per punto le loro critiche, essi giocano sul terreno apparentemente più facile della creazione di atmosfere e, devo dire, il più delle volte ci riescono; ci riescono così bene che, se non fosse per gli occasionali excursus che fanno nel mondo dell'hip hop inteso nel senso più stretto, il tutto risuòlterebbe davvero pesante. Ma vivaddio ci sono cose come Info For The Streets, Industry Lies o Nuclear Hip Hop in cui la focalizzazione contenutistica viene spostata, anzi, traslata su un terreno fatto più di rime e critiche allo stato del rap (credevate mica che dodici anni fa fossero tutti contenti, no?) che alla cupezza del mondo in cui viviamo.
Ora, mi rendo conto che la descrizione verbale dei contenuti possa risultare vaga e/o approssimativa; del resto, però, questo testimonia una loro originalità compositiva e conferma quanto scritto in merito alla loro propensione a procedere per immagini più che per vere e proprie tesi. E se questo approccio alla fine funziona, ciò è ovviamente dovuto ai beat, che perlopiù calzano a pennello alle liriche ed anzi le mettono addirittura in risalto. Ciò avviene sia che si campioni i sempre sinistri suoni del xilofono vibrafono di Gary Burton in Esoteric Manuscripts (Olhos De Gato si è peraltro sentita anche in Black Gangstas di Capone 'N' Noreaga), sia che si prenda Don't Let Me Be Misunderstood di Nina Simone e le si appoggino delle batterie belle secche e pesanti come avviene in Karma; e dove in Sacred Jahson da una sua reinterpretazione dell'"effetto goccia" reso celebre da Come Clean pur adoperando un altro sample, Hi-Tek si prende la libertà di aprirsi al Premier più allegro grazie ad un eccellente loop di piano in Info For The Streets (oltre a rappare una strofa davvero notevole). Ma c'è di più: che dire delle atmosfere arabe date dai flauti di Secrets Of the Sand, che si pongono in netto contrasto a quelle più gotiche di Vision pur senza farvi a pugni? Insomma, per farla breve, pur restando fermo un mixaggio non esattamente eccelso ed una certa datazione del sound, devo ammettere che ancor'oggi le produzioni di Doom non solo danno la paga a buona parte dell'undergound dell'epoca ma anche a tanti nomi all'epoca ben più blasonati.
Peccato allora solo per due cose: la prima che l'opera è piuttosto lunga e non sempre di qualità eccelsa; difetto perdonabile, ma una sforbiciata alla tracklist di tre o quattro unità secondo me avrebbe aiutato. La seconda invece concerne puramente la bravura degli MC, i quali sono sicuramente più che degni di stare su questi beat ma purtroppo non sono di una bravura tale da poter portare quest'album nell'Olimpo delle opere del 1997. Poco male: anche così com'è, Doom resta un disco davvero godibile, bello e, nei limiti impostigli dall'età, originale: siccome ancora lo si trova, vi suggerisco di sganciare queste due lire e farvi un regalo per natale.
A proposito: mi son preso qualche giorno di ferie, perciò fino a mercoledì non ci vedremo più; buoni concerti/festeggiamenti ecc., quindi, und an alle meine ung. 50 Deutschen Leser: fröhlichen Nikolaustag.




VIDEO: KARMA

LARGE PROFESSOR - THE LP (Paul Sea Productions, 2009)

mercoledì 2 dicembre 2009

Per quanto il rap sia un genere in cui le opere degli artisti sono prone ad essere archiviate dalle case discografiche con una frequenza spaventosa e per i più disparati motivi, e dunque chiunque lo segua dovrebbe essere ormai abituato a questa ingiuriosa pratica, il caso dell'esordio solista di Large Professor rappresenta un unicum nella sua categoria. Inciso nel 1995, la sua uscita era prevista per l'anno successivo sotto l'egida della Geffen; la cosa però saltò e per lungo tempo -diciamo fino alla diffusione capillare di internet e del P2P- l'unico materiale tratto da esso che riuscì a girare consistette in un paio di singoli ed il video di uno di essi, Ijuswannachill. Intorno al 2000 cominciarono però a girare dei bootleg in formato Mp3 di discreta qualità ma, ovviamente, privi della supervisione artistica del loro autore; cosicché nel 2002 fu deciso di allegare a 1st Class -tecnicamente il suo debutto- un CDr in tiratura limitata contenente dodici pezzi. Last but not least, infine, nel 2009 esce finalmente una versione ufficiale con tutti i crismi del caso e con l'aggiunta di quattro tracce, ed io, dopo tanto tempo, posso quindi recensirlo con la consapevolezza che si tratta di un prodotto legittimamente attribuile a Large Pro e a nessun altro all'infuori di lui. Fine della storia.
Bene: a questo punto non resta che capire se l'attesa per un'opera che ha fatto più giri della merda nei tubi sia in qualche modo giustificabile o meno; e se per quanto mi riguarda la risposta è naturalmente "sì", devo premettere che The LP è destinato esclusivamente ai nostalgici della seconda golden era o, più genericamente, a chi è disposto a chiudere un occhio sull'evidente polvere che si è depositata sulla cifra stilistica di queste canzoni. Insomma, al di là di mainstream o underground, se oramai avete tarato il vostro orecchio sul rap contemporaneo o sulle rivisitazioni di stili passati in chiave moderna, vi consiglio di lasciar perdere fin da subito questo disco, giunto a noi letteralmente da un'altra epoca e come tale portatore di tutti i pregi ed i difetti di quest'ultima oltreché di Large Pro stesso.
Difatti, egli com'è noto è principalmente un produttore e solo dopo un MC; e se in Breaking Atoms questa spartizione gerarchica era apparsa meno rigida o comunque meno significativa, nel suo LP essa si fa viva in tutta la sua forza. Intendiamoci: chi sostiene che lui come MC sia uno scarsone irrecuperabile ha evidentemente qualche difetto ai timpani, perchè se c'è una cosa che non si può dire di lui è che non abbia una tecnica perlomeno pulita ed una bella voce. Due fattori, questi, che lo aiutano in molti casi a far scivolare in secondo piano alcune sue lacune tra cui l'incapacità di riuscire a strutturare un testo secondo una logica che sia coerente. Difatti, delle sedici canzoni qui presenti direi che la stragrande maggioranza -almeno 12 o 13- vaghino contenutisticamente nei meandri del metarap, e se questo sulla carta funziona sempr,e bisogna però aggiungere che nella pratica si deve essere dotati di una buona inventiva. E qui, insomma, non è che ve ne sia molta: si, certo, le rime ci sono e le metafore pure, ma anche per gli standard dell'epoca queste suonano perlopiù datate e perciò anche un benevolo come il sottoscritto può giungere alla decima o undicesima canzone con un retrogusto d'insoddisfazione. Per giunta, quand'anche il Nostro si discosta da questa forma di scrittura, solo raramente centra il bersaglio (That Bullshit) mentre più spesso fa sembrare le sue opere passate, tipo Watch Roger Do His Thing, degli inarrivabili capolavori di scrittura e tecnica: Havin' Fun e soprattutto Dancin' Girl sono i due punti indubbiamente più bassi del LP e non ho remore nel dire che avrebbero dovute essere cassate prima ancora che nel '95 già nella mente stessa di Extra P.
Aggiungiamo a questo la sua davvero patologica incapacità di scrivere ritornelli, che sovente si riducono a nient'altro che la ripetizione del titolo, ed ecco che si resta con l'impressione che forse qualche ospite aggiuntivo rispetto ai soli Nas e Neek Tha Exotic (quest'ultimo peraltro non accreditato in Spacey) non avrebbe potuto che far bene. In definitiva, quindi, direi che pur non essendo le sue rappate offensive, e magari in alcuni casi risultando perlomeno piacevoli (Ijuswannachill, That Bullshit, Hungry o Amaman), il versante lirico non sia esattamente il punto forte dell'opera.
No, a far guadagnare punti su punti a The LP sono ovviamente i beat. Innanzitutto perchè sono la palese dimostrazione di come si possa campionare dal jazz e dalla fusion senza per forza scadere nella musica da ascensore o in robe paralounge destinate ad annoiare dopo tre minuti; The LP è in questo decisamente simile a Low End Theory, perchè pur depredando i cataloghi della Blue Note e della Impulse, picchia su casse e rullanti in maniera quasi sempre impeccabile. Cannonball Adderley, per esempio, viene campionato in That Bullshit e le ventate di hardcore che emanano le batterie martellanti ed i brevissimi campioni, peraltro meravigliosamente sovrapposti ed intrecciati, rendono incredibile pensare che la fonte possa essere l'autore di Somethin' Else. Oppure, per esempio, Hubert Laws fa la sua porca figura nelle eccezionali One Plus One e Spacey e, nuovamente, pur essendo più riconoscibile la matrice moderna del suono risulta ammirabile il modo in cui Large Pro è riuscito ad reinventare delle sue composizioni. Difatti, fatta salva una pausa qualitativa verso l'inizio della seconda metà del disco -Dancin' Girl, Verbs e Havin' Fun mi sembrano tirate via alla bell'e meglio- un altro aspetto della bravura del Nostro al campionatore consiste nel saper ricreare diversi tipi di atmosfere pur attingendo fondamentalmente ad un unico pozzo d'ispirazione. Abbiamo ad esempio canzoni più leggere ed orecchiabili, come Ijuswannachill, Funky 2 Listen 2 o la superba Amaman (quel campione di tromba lascia senza fiato, ascoltatelo e sappiatemi dire) che vanno ad associarsi senza alcun tipo di problema ad altre più cupe o melancoliche come Hungry, One Plus One e Queens Lounge; infine ve ne sono alcune che si collocano a metà tra queste, fra cui la stupenda Big Willie (per me incisa però ben dopo il '95, così come anche Bowne, vista la differenza nella profondità della voce e nel secondo caso nel beat più moderno), Hard o That Bullshit. La varietà del sound è dunque ammirabile a prescindere dal contesto, ed essa, associata alla qualità intrinseca dei beat è il vero punto di forza di quest'opera.
Insomma, le giuste aspettative -cioè il poter godere di strumentali fatte coi controcoglioni- vengono secondo me ampiamente soddisfatte, presentando così un bel spaccato di un'epoca e soprattutto dell'evoluzione di Large Pro. Che poi lui non sia questo fenomeno al microfono è secondo me perdonabile e, dopotutto, fatte salve le due eccezioni già citate in precedenza e diversi ritornelli sull'ignobile andante, le sue lacune di scrittore passano per la maggior parte in secondo piano e alla fine dei conti ci si ritrova in mano un prodotto capace di lasciarsi ascoltare in ripetizione più e più volte. Certamente sarebbe stato meglio scremare qualcosina fin dall'inizio, ma essendo The LP oramai quasi una testimonianza storica prima che un album, forse una simile mossa avrebbe potuto risultare filologicamente scorretta. Volendo quindi esprimere un giudizio definitivo, reputo che The LP non sarebbe stato un classico nemmeno all'epoca della pubblicazione prevista, ma quantomeno avrebbe riscosso un discreto successo sia di pubblico che di critica. Tre e mezzo mi parrebbe quindi una valutazione corretta secondo i criteri dell'epoca, ma se si vuole includere nella valutazione anche la revisione fatta per questa edizione -e mi riferisco soprattutto all'aggiunta di canzoni molto belle come Queens Lounge, Amaman o Big Willie- penso che aggiungergli un mezzo zainetto non sia un crimine.



VIDEO: IJUSWANNACHILL

SKYZOO - THE SALVATION (Duck Down, 2009)

martedì 1 dicembre 2009

Occasionalmente mi trovo di fronte a dischi sui quali francamente non so cosa dire e, alla ricerca di motivazioni per questo mio mutismo intellettuale e verbale, sovente giungo alla conclusione che se io non ho niente da dire ciò non significa automaticamente che l'autore del disco abbia lo stesso problema. Prendete questo Salvation di Skyzoo, suo disco d'esordio (i mixtape non contano): la stragrande maggioranza delle canzoni qui presenti ha uno scopo ben preciso o, per meglio dire, dei testi personali e ben delineati. La tipologia del sound è coerente con questi messaggi e l'atmosfera generale che si può respirare verte verso la riflessione, cosicchè, se aggiungiamo a tutto ciò il fatto che non ci sono featuring di altri rapper, possiamo giungere alla conclusione che il Nostro ha come minimo un visione artistica molto chiara evidentemente indirizzata verso l'autoritratto mediante spunti esterni (vi si arriva cioè per induzione). E questo nel rap è raro, addirittura rarissimo quando si parla di debuttanti.
Eppure, nonostante tutti questi pregi oggettivi ed anche ammirabili, Salvation mi annoia mortalmente e quel che è peggio è che temo anche di sapere perchè. Vedete -e qui apro una parentesi- quando ancora andavo in università mi capitava di farmi qualche pomeriggio a lavorare presso il magazzino di spray di Fritz Da Cat, locato all'epoca in Bovisa; s'era nel 2003-2004, ed il rap italiano stava passando per uno di quei ciclici momenti dove ai più bensperanti poteva sembrare che riuscisse ad affermarsi oltre il consueto bacino d'utenza. Io ero scettico e come al solito il tempo mi ha dato ragione (io sono uno che spesso ha ragione, sapete), ma chi mi bruciava per cinismo e scetticismo era Fritz stesso, che sosteneva che se alla fin fine la maggioranza del rap italiano è destinato a fallire è perchè qui da noi -salvo rare eccezioni- non abbiamo un cazzo di concreto da dire. Sono d'accordo: non è l'unico motivo ma di certo ha un'importanza fin troppo sottovalutata. Chiusa la parentesi.
Ora, io non conosco la vita di Skyzoo, ma a giudicare da quel che ci presenta in Salvation temo proprio che essa non sia molto differente da quella di un reppuso nostrano, ovviamente declinata al contesto di Brooklyn. Insomma, come dire? Abbiamo i rapporti con l'altro sesso, la fatica del riuscire a combinare qualcosa nella propria vita, le delusioni che si ricevono dal mondo della musica ed anche le gioie, più qualche scorcio di vita urbana e l'occasionale momento autoriflessivo. Ecco... posso dire che non è esattamente interessante? Ma attenzione, il mio disinteresse tutto sommato deriva più che dai temi in quanto tali dalla loro esecuzione formale, che reputo essere priva di mordente sia sul versante della scrittura che in quello tecnico. A fronte di un'indubbia onestà, infatti, Skyzoo mi sembra privo della capacità di affabulare e/o di descrivere delle realtà in maniera immaginifica, così da rendere interessanti degli argomenti ovviamente già trattati miliardi di volte in passato. Il suo, più che essere un viaggio nella sua mente, sembra una sorta di documentario privo però della brillantezza capace di destare l'interesse dell'ascoltatore.
Questo non significa che non si trovino delle canzoni valide, sia ben chiaro, in cui magari si può anche notare una maggiore ispirazione: il singolo Beautiful Decay ad esempio omaggia The World Is Yours e ci riesce anche bene -la sua descrizione delle atmosfere nuiorchesi perlomeno intriga- così come Shooter's Soundtrack o Under Pressure riescono in qualche modo a sortire l'effetto sperato pur non essendo in sè liricamente geniali (eccezione: Maintain ha degli ottimi passaggi). Tuttavia, a fronte di questi guizzi d'inventiva, di questi segni di un potenziale maggior talento di quello mostrato altrove, perlopiù le canzoni si ammosciano dopo la prima strofa. Dear Whoever, Necessary Evils o anche My Interpretation sembrano al massimo degli schizzi di un disegno che potrebbe essere più interessante, e invece la cosa muore lì; è la stessa differenza che passa, insomma, tra il leggere un buon romanzo e lo scorrere tra le righe di un diario di una persona qualsiasi.
Per di più, e così giungiamo ai limiti tecnici dell'album che secondo me lo rendono realmente monotono, devo dire che mentre come capacità di incastrare parole Skyzoo se la cava più che bene, l'interpretazione lascia davvero molto a desiderare. Il tono della sua rappata è piatto come una sogliola e, salvo dove ciò viene giustificato in qualche modo dal beat (nuovamente, ad esempio, in Beautiful Decay e dall'elegante sample vocale), risulta quantomeno soporifero, al punto che ogni due o tre tracce i produttori avrebbero dovuto inserire un effetto sonoro tipo, che so, la suoneria dei vecchi Nokia o un'esplosione nucleare sparata a palla che funga da pizzicotto destatore. Anche perchè dal canto loro i produttori -principalmente 9th Wonder ma anche Illmind, Black Milk, Nottz e Just Blaze- non è che si diano molto da fare per ovviare a questa sua lacuna. Le atmosfere che aleggiano su Salvation sono di stampo prettamente justusleaguiano e dunque contraddistinte da forti richiami al soul e alla famigerata true school nuiorchese con annessi e connessi; fin qui tutto bene, in teoria, purtroppo però trovo che ad essere assente sia l'incisività. Certamente possono essere piacevoli da sentire, quindi, ma ora che si ègiunti alla decima traccia è naturale aver voglia di sentire qualcosa di meno generico. Non so, sarà che siamo nel 2009, ma alla fin fine loop di archi, campioni vocali più o meno tagliati e pitchati, campanelline e giri di piano semimelodici mi sembrano l'equivalente sonoro della pizza margherita: si lascia mangiare e la trovi ovunque, ma già che vai al ristorante meglio prendere qualco'altro, no?
E mentre alla fin fine devo ammettere che qui 9th Wonder mi sembra si sia sforzato un po' più del solito (come ricerca ed uso dei sample e come batterie la sua creatività ha fatto passi da gigante, ascoltare per credere), a deludere sono i restanti beatmaker che, ad eccezione di Cyrus The Great, il quale dimostra un orecchio molto sensibile alle melodie, o producono dei simulacri fetusi del loro consueto stile (Black Milk è imbarazzante), o abbandonano ogni traccia di personalità (Illmind e la sua Dear Whoever risultano una fotocopia di 9th Wonder e la sua Under Pressure), oppure ancora inseriscono il pilota automatico e chi s'è visto s'è visto (Nottz, Just Blaze). Certo, in parte la colpa è di chi le basi le ha scelte, ma francamente alcune produzioni nemmeno andavano proposte. Ad ogni modo, salvo due canzoni davvero raccapriccianti -Easy To Fly e Popularity- tutto sommato non mi viene da dire che i beat siano di per sè brutti o che. Semplicemente, così come Skyzoo stesso, pur reggendo un'analisi strettamente qualitativa mancano di mordente.
Ecco, scava e scava, il fatto è che Salvation risulta scevro di personalità. A fronte delle quattro -e non sto parlando in termini figurativi, son proprio quattro- canzoni degne che vi si possono trovare, il resto sembra un compitino ben fatto con tutte le virgole a posto e scritto in bella copia, ma incapace di distinguersi non dico dalla massa di prodotti rap in assoluto, ma anche solo da quella nicchia paranostalgica a cui Skyzoo appartiene. Il fatto che riceva tre microfonini, dunque non un voto ignobile, è dovuto al fatto che comunque le falle tecniche sono relative; certo, in tal senso è una fortuna che non si valuti l'utilità propriamente detta di un disco simile, e sa dio quanto mi spiace dirlo. Aggiungo, infine, che a fronte delle critiche positive ricevute altrove, se riuscissi a trovare qualcuno capace di spiegarmi cosa ci sia di così eccezionale in Salvation gliene sarò grato.




VIDEO: THE BEAUTIFUL DECAY

NAS - STILLMATIC (Columbia/Ill Will, 2001)

lunedì 30 novembre 2009

Non molto tempo fa ho recensito Illmatic decantandone le lodi e conferendogli di conseguenza un tanto ovvio quanto meritato punteggio pieno: del resto cosa si può fare quando ti trovi di fronte ad uno dei tre migliori dischi degli ultimi quindici anni, se non il migliore? Bene, era il 1994. Ora facciamo un balzo in avanti di sette anni e ricapitoliamo in breve cos'è successo durante questo periodo: il rapper conosciuto come Nasty Nas ha pubblicato prima un album valido me deludente se rapportato al precedente, poi a momenti s'è bruciato la carriera col ben brutto disco del collettivo The Firm salvo risollevarla col discreto I Am, ed infine ha spazientito persino i suoi fan più accaniti col fiacco Nastradamus. Tutto ciò è avvenuto contestualmente ad uno spostamento degli equilibri all'interno della scena americana, che ha visto prima l'emersione e dopo la consacrazione commerciale definitiva degli stati a sud della Mason-Dixon, e poi una scissione irreversibile tra underground e mainstream, con a capo di quest'ultimo "filone" un Jay-Z quanto mai battagliero e deciso a schiacciare i suoi avversari, tra i quali proprio Nas.
Veniamo quindi a Stillmatic: com'era ovvio, ciò di cui Nasir Jones aveva bisogno era di un qualcosa di ben definito che lo svegliasse dal suo torpore e lo reindirizzasse sui binari abbandonati tanto tempo prima, e ciò è avvenuto nell'estate e nell'autunno di otto anni fa. I vari dissing di Jay-Z, soprattutto quello fatto durante la Summer Jam e la successiva conferma data da Takeover (che aveva come plus quello di essere incluso in un album classico, come a conferma della validità dello status dell'autore), hanno fatto capire al Nostro che se non voleva chiudere la carriera così l'unica soluzione era quella di ricreare un Illmatic moderno. E per un soffio quasi non ce l'ha fatta.
Veniamo innanzitutto alla prima cosa che risalta di Stillmatic: le liriche e le diverse concept track qui presenti. Quanto alle rime appare evidente fin dall'introduzione che Jones ha vivaddio abbandonato ogni velleità pseudomafiosetta per tornare a focalizzarsi su quella poesia di strada che gli aveva fatto meritare il titolo di erede di Rakim; e difatti la cosa non solo gli riesce ma gli riesce benissimo. Stillmatic è uno dei dischi moderni meglio rappati che la mia pur enciclopedica memoria può ricordare, con flow e metriche precisi ed incisivi come un bisturi e capaci di sezionare i diversi aspetti della New York del 2001(ma non solo, come vedremo) così come era stato capace di fare nel '94. Su 15 pezzi -17 se includiamo le tracce bonus- almeno tredici (o quindici, a seconda) possono essere definiti la gioia di qualsiasi fan di rap che possa dirsi tale, grazie a metafore originali, un immaginario vivido e dai toni sempre azzeccati, e senz'altro uno sfoggio d'abilità mai fine a sè stesso e comunque autogiustificantesi. Voglio dire, se uno apre un pezzo dicendomi di essere il migliore e poi prosegue così: "narration describes the lives of lost tribes in the ghetto tryin to survive/ The feature opens with this young black child/ fingers scratched, cigarette burns on the sofa, turnin the TV down/ While Mary Jane Girls, 45's playin, soft in the background", io cosa posso dirgli? "Non ti credo, dimostramelo"? Ma è già tutto lì, perdio!
E comunque, se anche fossi un'inguarbile scettico -e viste le delusioni datemi in precedenza da Nas avrei anche il diritto di dubitare- le riconferme che quanto lui sostiene è effettivamente vero vengono giù a pioggia man mano che ci si addentra nell'opera. Ether, ad esempio, oramai più che un dissing è un'icona del genere, tantopiù che ha fatto nascere il verbo «to ether» per descrivere l'offesa perfetta, l'insulto finale, lo sberleffo che chiude i giochi e fa andare via uno dei concorrenti a testa bassa col capo cosparso di cenere. Ricevere un simile riconoscimento non è poco per un genere storicamente competitivo come l'hip hop, questo è indubbio. Così com'è indubbio il fatto che canzoni come Rewind e One Mic siano dimostrazioni di elevatissimo livello di cosa significhi avere un'idea e cosa significhi metterla in pratica: nella prima, infatti, Nasir si lancia in uno storytelling al rovescio esattamente come se si mandasse indietro una videocassetta (quindi non solo la struttura del racconto è invertita ma anche la sua forma) con risultati straordinari, mentre nella seconda fa coincidere il crescendo dato dalla base con il proprio tono di voce e con la metrica e, tanto per non "annoiare", con la terza strofa ribalta questo climax fino a giungere ad un epilogo pressoché sussurrato.
Non basta, non ancora: Destroy & Rebuild è una sorta di cover di The Bridge Is Over, con la ovvia differenza che l'attacco stavolta è portato dall'interno e vede come vittime Prodigy, Nature e Cormega; inutile dilungarsi su questioni come chi ha torto o chi ha ragione, ciò che conta è che liricamente la canzone regge benissimo il peso di quell'eredità. Ancora, Rule si propone come una sorta di sequel di If I Ruled The World e lo fa bene, mentre My Country e What Goes Around si propongono come i pezzi più pregnanti dal punto di vista della critica sociale. E laddove la prima è parzialmente rovinata da un tragico featuring e da un epilogo non proprio «sul pezzo» ("This goes out to Che Guevara, a revolutionary destroyed by his country"... no Nasir, lui era argentino ed è stato ucciso in Bolivia da forze governative locali, e non me la racconti che intendevi al Sudamerica), la seconda è semplicemente inattaccabile.
Ora, se non vado avanti è solo perchè riassumere pezzi così ben scritti in bignamini di dieci/venti parole rischia di privare l'ascolto della sua caratura originale. Meglio allora parlare di beat, così posso anche spiegare perchè malgrado un'assoluta eccellenza lirica non me la sento di conferire i tanto agognati cinque zainetti a Stillmatic. Vedete, se infatti escludiamo la tragica Braveheart Party (che è stata esclusa fin dalla seconda ristampa, che comunque ho ma che vi propongo lo stesso per correttezza filologica), il problema di Stillmatic è che le basi non sono sufficentemente valide per fargli raggiungere la perfezione. Insomma, per farla breve: se Nas avesse dato alle stampe non dico dieci, ma undici o dodici canzoni e poi stop avremmo sì un classico; così, semplicemente, no. Prima di tutto fatemi dire che il beat di Ron Browz per Ether è l'unica cosa che mi fa dubitare dell'indiscussa superiorità di questa su Takeover; quando penso a "suono di plastica" io penso ad Ether, perchè quegli archi ultrafiltrati e la pressoché totale assenza di batterie rappresenta proprio questo. Se invece cerco una definizione di "sample del cazzo", cosa dire allora della scelta di adoperare un campione tratto da Everybody Wants To Rule The World dei Tears For Fears? Certo, c'è stato di peggio (vedi i Duran Duran e la loro Notorious), ma santiddio... In più, basi come quelle di Destroy & Rebuild (Baby Paul) o You're Da Man (Large Professor) non rappresentano certamente il meglio che si potesse ottenere dai loro autori, specie in quest'ultimo caso, dove la colonna sonora di Exodus viene ripresa per la zilionesima volta e pure in maniera moscia.
Ciò detto, per il resto ci siamo eccome: Got Urself A Gun campiona in maniera prevedibile ma efficace il pezzo d'apertura dei Sopranos, Woke Up this Morning degli Alabama 3 e picchia in maniera non indifferente; 2nd Childhood vede un Premier a suo agio con delle atmosfere rilassate ideali per i contenuti del testo, e Large Pro, dal canto suo, si redime per i peccati di You're Da Man con l'eccellente ed atmosferica Rewind. A stupire, però, non è solo Salaam Remi con la sua sobria, semplice ed efficace What Goes Around, ma anche e soprattutto Nas, che firma in veste di coproduttore l'ottima Smokin' e la sensazionale One Mic. Come una persona capace di creare -anche solo parzialmente- due simili beat continui puntualmente a cazziare le scelte delle basi è davvero al di là delle mie facoltà cognitive.
Bòn. Cosa resta da dire (a parte che il ritornello di Rule eseguito da Amerie fa cagare)? Resta da dire che nella scaletta delle migliori opere di Nasir Jones -e sono quattro se escludiamo i Lost Tapes- questa probabilmente si colloca come seconda, e calcolando il valore della prima direi che non è poco. Come ho detto, se la tracklist avesse escluso You're Da Man, Braveheart Party (già fatto ma, insisto, la prima stampa la include ed è stata tolta per motivi esterni alla scelta artistica), e volendo anche My Country -per via del portaborse incapace- e al limite Rule ed il suo tremendo ritornello- allora avremmo tra le mani un classico inattaccabile. Così, invece, c'è "solo" un disco che pur non essendo letteralmente perfetto riesce a raggiungere questo status grazie sì a molte basi azzeccate, ma soprattutto ad un Nas come non lo si sentiva dal '94.




VIDEO: ONE MIC

FAT JOE - DON CARTAGENA (Big Beat/Atlantic, 1998)

venerdì 27 novembre 2009

Ultimamente sto un po' abusando di birra e Assassin's Creed II; nei scorsi giorni sono infatti uscito dal lavoro, andato a farmi un due-tre birre, e poi intorno alle 22 mi sono assiso davanti al mio nuovo passatempo per qualche ora, sfruttando così il fatto che in genere da ciuco gioco meglio. Il risultato più evidente di questa mia pericolosa deriva è da un lato una certa sonnolenza mattutina, e dall'altro un sonno irrequieto in cui sogno le cose più folli e quando squilla infine la sveglia risulto sempre un po' sballato. E così stamattina, dopo aver immaginato una rissa con Spencer Pratt (nientemeno!), ho deciso che la cosa migliore per ristabilire un certo equilibrio nello svolgimento della giornata era quello di andare a colpo sicuro e recensire un disco su cui ho un'opinione ormai ben consolidata da almeno dieci anni.
Era l'autunno del 1998 e nella primavera di quell'anno era stato pubblicato lo storico Capital Punishment, da me molto apprezzato. Il mentore di Pun, Fat Joe, non solo aveva alle spalle il valido Jealous One's Envy, ma nell'intervallo di tempo tra quella pubblicazione ed il suo seguito aveva dimostrato un miglioramento tecnico non indifferente -complice sicuramente un certo aiuto da parte di Cristopher Rios. Per giunta, nell'estate di undici anni fa aveva lanciato una campagna promozionale per il suo nuovo lavoro in cui il fan medio veniva a conoscenza della partecipazione al progetto di nomi da nulla come Premier, Raekwon, Noreaga, Baby Paul, Marley Marl, Nas, Buckwild, Spunk Bigga, i Beatnuts e altri. Roba da leccarsi i baffi, visto e considerato che all'epoca tutte queste persone avevano un curriculum pressoché immacolato, e difatti Don Cartagena ebbe un successo commerciale più che soddisfacente (disco d'oro) ed anche la critica lo reputò l'opera migliore del Nostro.
E mentre su quest'ultima affermazione sono combattuto ma senz'altro non in totale disaccordo, su un fatto direi che possiamo concordare senza esitazione: Don Cartagena è l'ultimo album bello di Joey. Il successivo J.O.S.E. volendo si può salvare per qualche pezzo quà e là, ma da lì in poi la sua carriera è stata un susseguirsi di immani porcherie solo in minima parte rese comprensibili dalla ricerca del successo commerciale. Pertanto il mio consiglio iniziale non può che essere da un lato di stare alla larga dalle puzzonate propinateci in seguito, e dall'altro di approciarsi a DC come a una sorta di canto del cigno da parte di un artista che, pure con tutti i suoi difetti, è riuscito a regalarci almeno cinque anni di musica degna di nota.
Venendo ora all'album in discussione, le prime cose che si notano sono l'affinità con Capital Punishment (a partire dalla grafica fino all'impostazione complessiva del sound, radicalmente scissa tra hardcore ed accessibilità) e la gargantuesca lista di featuring, tanto che a fare la spunta delle canzoni si nota che di pezzi solisti ce ne sono solamente due su quattordici. Pur considerando perciò la moda dell'epoca, in cui le comparsate di massa erano all'ordine del giorno, è inevitabile ritenere questo disco più come una compilation che non l'opera di una singola persona. La cosa poi non inficia in nessun modo l'ascolto, sia ben chiaro, ma trovo giusto far notare questo fatto in quanto alla fine il nome che campeggia in copertina risulta essere rapportabile al ruolo di A&R più che di artista propriamente detto.
Ma a parte questo "dettaglio" di discutibile importanza, la carne al fuoco risulta essere ottima ed abbondante. Don Cartagena apre con veemenza e già fin dall'ottima Crack Attack si può notare un enorme miglioramento dal punto di vista delle liriche di Joey (o nella scelta dei ghostwriter); su un campione di piano tagliato con gusto ed una sezione ritmica capace di spaccare in due qualsiasi woofer e polverizzare i mid-range -ringraziamo tutti insime L.E.S.- il panzone tamarro non fa prigionieri: "You could tell it's on from my introduction/ Hibernate the junction with killin somethin when you was barely dumpin/ You ain't even nuttin to worry about/ I flurried your mouth with about thirty right in front of your house". Autoesaltazione e dichiarazioni ghettuse a profusione proseguono poi in Triplets, dove su un beat ugualmente tenebroso a cura di Dame Grease il nostro paffuto eroe viene affiancato da Armageddon e, soprattutto, da un ottimo Big Pun ancora fresco dei fast di Capital Punishment ed assolutamente in forma -per quanto questo modo di dire faccia sorridere. Le sue rime multisillabiche, il flow praticamente robotico ed i tipici passaggi tuttitiratituttidunfiato rientrano senz'altro tra i pregi di Don Cartagena ed ogni volta che Rios accende il microfono fa a pezzi chiunque si trovi nello studio con lui; che si tratti di Joe, Nas o Raekwon, il panzone portoricano è anche stavolta la star dello spettacolo.
Si veda per esempio la famosa posse cut intitolata John Blaze, autentico tormentone dell'epoca, in cui una base prodotta da Ski viene violentata da Nas, Jadakiss, Raekwon, Joe e appunto Big Pun; oppure, ancora, le esibizioni di potenziale bravura dell'intera Terror Squad, dove egli emerge come il più talentuoso di tutti (anche se Cuban Link in Hidden Hand gli dà filo da torcere). Insomma, non si può nascondere il fatto che, anche e soprattutto alla luce della bravura del suo discepolo, Fat Joe non sia esattamente il più dotato degli MC al mondo. Eppure, non capitemi male, questa sua tendenza ad essere oscurato dall'ospite di turno -si escludono vivaddio Puff Daddy e Charli Baltimore- non significa né che sia sgradevole da ascoltare, né che le canzoni siano delle puzzonate: ad esempio, vuoi anche per lo stupendo beat prodotto dai Beatnuts e dai Ghetto Pros, ma Misery Needs Company emerge come una delle canzoni più potenti di tutto l'assortimento e questo anche per merito di Joey, non solo di Noreaga. Idem per Find Out, dove l'energica base di Marley Marl vede nel carisma del Nostro un'ottima controparte, oppure anche la premierana Dat Gangsta Shit -anch'essa degnamente supportata da un testo ed un flow che si accompagnano benissimo al tiro impresso da sample e batterie.
Il fatto poi che in tutto l'album ci sia un solo pezzo dai contenuti remotamente richiedenti l'uso delle sinapsi -sto parlando della semicospirazionista Hidden Hand, comunque più vicina ai Killarmy che a Chomsky- aiuta decisamente Fat Joe ad esprimersi al meglio, e cioè con uno stile votato più alla potenza pura e semplice che non ai tecnicismi. Non a caso, i (devo dire pochi) brani in cui si cerca una via d'entrata ai club, come Bet Ya Man Can't o Don Cartagena, soffrono un po' della veemenza di Joey che, contrariamente a Pun, dimostra di non essere capace di costruire un ponte realmente efficace tra liricismo e cazzeggio. Tuttavia, a suo elogio va detto che i pezzi più ballabili conservano una loro dignità e non hanno nulla a cui spartire con le nefandezze di cui egli stesso si macchierà a partire dal 2001; anzi, a conti fatti, l'unica nota stonata di un album che personalmente reputo molto bello è la collaborazione con due dei Bone Thugs 'N' Harmony, i quali già da Art Of War in poi mi sono sempre parsi come spompati e fondamentalmente inutili. Per il resto, riassumendo, direi che per le mani abbiamo almeno cinque canzoni eccellenti, altrettanto molto belle ed infine tre passabili: non male!
Chiudo allora dicendo una cosa: non voglio tornare a riepilogare tutti gli «EPIC FAIL» che hanno visto protagonista il grassone, ma di certo mi mette tristezza che la stessa persona che è stata capace di organizzare -questo il termine giusto- un disco valido come Don Cartagena oramai sia ridotto all'ombra di sè stesso. Spero solo che per la sua famiglia l'introiettamento sia servito, perchè da un'ottica artistica il declino è evidente ed imperdonabile. Pazienza, cosa possiamo farci? Riascoltiamo in silenzio quest'opera, che personalmente apprezzo ben oltre il voto datogli (non so, alcuni album centrano pienamente i miei gusti e Don Cartagena fa parte di essi), e mettiamoci sopra una pietra bella grossa.




VIDEO: JOHN BLAZE

Fat joe-nas--raekwon-Big Pun.. "John Blaze"
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KOOL G RAP - ROOTS OF EVIL (Illstreet/Down Low Music, 1998)

mercoledì 25 novembre 2009

Volendo rimandare un mio giudizio sull'album di Masta Ace ed EdO.G, di cui non mi son fatto ancora un'opinione ben delineata, direi che non c'è nulla di meglio che rispolverare quello che a mio avviso è l'ultimo album degno di Kool G Rap: Roots Of Evil. La sua pubblicazione fu segnata al contempo da diverse complicazioni, che riguardavano sia G Rap stesso (che aveva grossi problemi a New York, tanto che in quel periodo s'era ritirato in Arizona), sia il marketing (limitatissimo, essendo passato da una major a una indie quando queste ancora erano poco più che etichette locali), sia l'hip hop nel suo insieme (che in quel periodo di transizione stava vedendo la definitiva divisione tra underground e mainstream). Fatto sta che il successo commerciale di Roots Of Evil fu pressoché nullo, ed anche la critica lo bollò come un'opera minore assolutamente trascurabile e in definitiva inferiore alle inevitabili aspettative generate dal curriculum artistico di Nathaniel Wilson.
Premetto che questa non aveva tutti i torti. In effetti, rispetto anche solo a 4,5,6, quest'opera soffre di diversi difetti tra cui dei featuring discutibili, una ingiustificabile prolissità e soprattutto alcuni beat non proprio ispirati -e sto usando un eufemismo. Ma è anche vero che ciascuno di questi difetti è proporzionalmente controbilanciato da altrettanti aspetti postivi, come ad esempio delle basi potenti ed efficaci, storytelling come al solito eccellenti ed una visione artistica dell'insieme forse discutibile ma che rappresenta forse la sintesi perfetta di quella che è stata quasi l'invenzione (una delle tante) di G Rap: il mafioso rap, termine tanto orrendo quanto comunque utile a descrivere la trasposizione in 4/4 dell'immaginario legato ai film di De Palma, Scorsese e Coppola. Roots of Evil si potrebbe infatti quasi definire un concept album, dal momento in cui non solo tutti i pezzi trovano l'ispirazione nella vena dei sopracitati «mob flicks», ma alcuni di essi vi si addentrano completamente. L'esempio più clamoroso può essere Thugs Love Story, suddivisa in tre capitoli e, assieme alla successiva Da Bosses Lady, dichiaratamente ispirata alla tresca da Pacino e la Pfeiffer in Scarface; ma pure Hitman's Diary, Foul Cats o One Dark Night si ricollegano perfettamente al genere, anche se meno lussureggiante e più da sottobosco criminale, à la Scorsese. Menzione a parte merita la magnifica Mobsta's, in cui G Rap dimostra nuovamente l'immenso talento di cui è dotato collegando in una trama, in uno storytelling, praticamente tutti i nomi del gangsterismo americano dello scorso secolo.
Insomma, ammesso che questo sottogenere vi piaccia, penso che Roots Of Evil sia forse la sua sublimazione e la sua declinazione in tutti i modi possibili, eseguiti oltretutto alla perfezione: dall'autoesaltazione allo storytelling, credo che quest'album possa legittimamente mettere la parola "fine" all'argomento. E scordatevi le pacchianate di Nas Escobar ed epigoni; vi garantisco che G Rap ha in questo mille marce in più rispetto ai suoi imitatori, in quanto è (stato?) l'unico capace di mescolare gli aspetti più pacchiani e reppusocentrici (i soldi, la figa, il potere e bla bla bla) a quelli più violenti e rivoltanti, esattamente come si può vedere in Goodfellas, in cui sì ci sono le macchinone e le pellicce, ma al contempo ci sono anche i pestaggi, le sepolture nei campi di grano e le uccisioni a tradimento. Insomma, paradossalmente risulta più credibile o, meglio ancora, verosimile (prendete con le pinze quest'affermazione).
Ma a parte il Leitmotiv dell'album, un altro motivo per ascoltare l'album - sarebbe più corretto definire "il solito" motivo- è la bravura di Kool G Rap. Come al solito, egli anche qui dà il meglio di sè nella tecnica, eccellendo nelle rime incrociate, nelle assonanze, e nelle rime multisillabiche come nel tempo egli ha insegnato a fare; ma, contrariamente a tanti, questa sua abilità non lo blocca dal saper strutturare narrazioni capaci di spingersi oltre al tipico «ti rompo il culo». Senza voler citare nuovamente Thugs Love Story, potrei prendere come esempio la breve ma impressionante One Dark Night: in un minuto e venti secondi egli racconta una storia di crimine usando solamente parole la cui desinenza ha la medesima assonanza di "ike", "ife", "ice" e "ipe". Detta così vi fa ridere? beh beccatevi parte del testo: "He tryin to make the wiped out nigga layin up under the white/ But I ain't tryin to go up in no dark tunnel and burn to the light/ And let myself be one more nigga that just got spun in the night/ And done in on sight, and tryin to breathe with one in my pipe/ But I'm not one of the type, and I'd rather lose all hung on the mic/ Than to be up in the yard receivin CPR at one in the night/ Now I can run and take fllght, but alright, yo son'll be hyped/ And I've played mother nature before so yo I'm clappin' thunder tonight/ I step right, inside of the street light, my gun it was bright/ Send him to kiss Christ, and let my shit slice in front of him twice"
Come al solito, sentirla è ben diverso dal leggerla e pertanto è ovvio quale possa essere il mio suggerimento. Aggiungo -prima di concludere la sezione dedicata a rime e tecnica- che proprio in questo periodo G Rap stava passando dall'usare un tipo di metrica molto regolare e scandita con precisione millimetrica in base alle battute, ad un'altra in cui si prendeva maggiore libertà nello distribuire le parole facenti rime sia all'interno del verso che della strofa tutta. In seguito, poi, egli avrebbe ulteriormente accentuato quest'aspetto -in cui talvolta accelera molto- fino a portarlo alla sua forma attuale; forma attuale che reputo un po' forzata e non sempre adeguata al beat (l'impressione è che chiuda in anticipo rispetto alla battuta, fateci caso), per cui questa sorta di ibrido tra precisione chirurgica e maggiore libertà è secondo me l'opzione, la scelta diciamo, più fortunata che si possa avere. Non a caso, egli fa a pezzi tutti i suoi ospiti rappanti, tra cui un prepubescente Jinx Da Juvy, con la voce di Topolino sotto elio, ed un Papoose non ancora in fase di Swaggacation.
Detto questo, passiamo ai beat. I produttori sono principalmente tre, di cui uno solo mediamente noto, e cioè Dr. Butcher (già abbondantemente sentito nel precedente 4,5,6). Gli altri sono tale CJ Moore e tale Fade. Ebbene, contrariamente alle aspettative, chi vince tra i tre è proprio quest'ultimo, che firma due dei pezzi migliori di Roots Of Evil: One Dark Night, col suo cupo loop di piano e le batterie lente e pesanti (ed i rullanti "strascicati" a me fanno sempre impazzire), e Mobsta's, la quale campiona Ain't No Sunshine When She's Gone di Tom Jones meglio di qualsiasi altra versione da me sentita (inclusa, sì, Endangered Species di Cormega). Comunque sia, medaglie al valore escluse, l'intero album gode di un suono adeguato al tipo di liriche qui presenti. Si va dal minimalismo in odor di Premier di Let The Games Begin al piglio epico di Home Sweet Funeral Home, senza scordarsi qualche ammiccamento indiretto alle atmosfere di Scarface (il sample di chitarra di Mafioso ma soprattuttoil campione delle Sister Sledge di Bosses Lady) e, purtroppo, anche al jiggy-vorrei-ma-non-posso (Daddy Figure, Can't Stop The Shine). Insomma: è chiaro che pur restando in territori sinistri, il sound è molto più melodico di quanto non fosse negli album precedenti; pure, un po' di materiale brutalmente hardcore c'è, e per quanto Da Heat e Mafioso suchino rispettivamente il Showbiz del '96 ed il Buckwild più progressivo (potrebbe essere un suo beat del 2000-01), il risultato è ottimo.
Certo, non è che abbiamo solo capolavori: oltre alle già menzionate Daddy Figure e Can't Stop The Shine, a rovinare la festa ci sono pure Tekilla Sunrise e Cannon Fire, e questo senza contare una generale anonimità dell'operato. Tuttavia, in fin dei conti la struttura musicale è ben più solida di quanto la si fosse accusata d'essere all'epoca, e per quanto non rivoluzionaria né perfetta, direi che ancor'oggi regge bene il test del tempo.
E ora il giudddizziodiddio: come valutare questo Roots Of Evil? Io direi che se proprio non ne potete più dei riferimenti a mafiosi di vario genere, avete le balle piene di sentire di sparatorie e cercate dei suoni che si discostino dall'ortodossia, allora lasciate perdere. Au contraire, se invece gli argomenti vi interessano a patto che siano ben presentati -e qui lo sono, eccome- allora non potete farvi scappare questo album. Tolte cinque o sei tracce tra il brutto ed il trascurabile, sono convinto che Roots Of Evil saprà darvi più soddisfazioni di quante non osereste aspettarvi.