SHABAZZ THE DISCIPLE - THE BOOK OF SHABAZZ (Battleaxe, 2003)

mercoledì 28 maggio 2008

Se dovessi fare una lista delle cose che mi fanno frullare i coglioni a vortice, il rischio sarebbe di restare davanti allo schermo fino a notte inoltrata; mi limterò a dire che molte di esse si possono raccogliere sotto l'ombrello della sciatteria. Ad esempio, sono disgustato dalla gente che va in giro in tuta "perchè è comoda", detesto chi mi passa i lavori fatti a cazzo "perchè tanto la foto sborda di soli due millimetri", e disprezzo profondamente chi crea antologie prive di rigore filologico e completezza d'informazioni.
È senz'altro il caso di questo Book Of Shabazz, erroneamente scambiato per un disco solista vero (almeno, mi auguro che non sia mai stato inteso come tale) quando in realtà si tratta di fatto di una raccolta dei suoi lavori dal '95 al 2003 con come aggiuntine l'occasionale b-side o rarità. Ora, prima di demolire il lavoro, vorrei precisare che qui non è in discussione Shabazz come artista, bensì l'operazione che ha portato a mettere insieme tredici tracce sostanzialmente senza alcun criterio razionale.
Tanto per cominciare, i tipi della Battleaxe hanno avuto la sconsiderata idea di allungare il brodo con le cazzate, e cioè, nella fattispecie, di inserire la bellezza di otto skit dalla dubbia utilità, i quali spezzano ogni qualsivoglia parvenza di continuità in modo intollerabilmente fastidioso (basti dire che per sentire il primo pezzo ci sarebbero da sucarsi due interludi di fila... almeno unirli, perdio!). Ma, al di là di questo non esattamente secondario difetto, perchè ho solo parlato di "parvenza" di continuità? Ma perchè questi incompetenti non solo hanno buttato le tracce alla rinfusa, senza che da una tipologia di atmosfera si passi all'altra con una certa logica (a questo punto sarebbe stato meglio optare per il didascalico ma corretto ordine cronologico), ma nemmeno si sono premurati di equalizzare i pezzi in maniera omogenea. Attenzione: non parlo di rimaneggiare in toto pezzi del '96 per far suonare il mixaggio più contemporaneo -il che sarebbe scorretto- ma perlomeno portare tutti i volumi allo stesso standard! Ma cosa ci vuole? Lo faccio io con un programma crakkato in tre minuti ed i risultati sono quantomeno palpabili...
Non parliamo poi del packaging: oggettiva pochezza della grafica a parte (tanto valeva riprendere paro paro il lavoro fatto per Red Hook Day), la cosa più scandalosa è che nel booklet non vi siano informazioni che vadano al di là dello standard "prodotto/registrato/mixato da". Ma insomma, ho capito che esiste internet, discogs eccetera, ma senza nemmeno pretendere una microscopica descrizione della storia della singola canzone, era troppo chiedere che puntualizzassero, che so, "singolo pubblicato nel '95" o "traccia inedita"? Perdio, manco questo minimo sindacale...
Last but not least, i pezzi veri e propri. Senza voler mettere in dubbio la completezza -che comunque tale non è- del lavoro, alcune delle scelte operate sono quantomeno meritevoli di dubbio. Sorvolando sul fatto che esisterà pure una versione di Crima Saga priva di censura e che magari poteva essere la volta buona di pubblicarla, mi chiedo come mai non abbiano ad esempio scelto di inserire il remix di Carlos Bess di Ghetto Apostles piuttosto che quello fatto da 7L per Thieves In Da Nite, ambedue nettamente superiori agli originali. E, a proposito di Thieves In Da Nite, vorrei sottolineare la parruccata estrema di voler far passare una canzone palesemente più vecchia come il sequel della prima, pubblicata nel 2003. Via, chiunque abbia una minima di conoscenza dell'hip hop capisce benissimo -anche solo da come è mixata- che Surrender può esser fatta risalire al massimo al '99. Il fatto che sia un inedito e che nel ritornello si usino le parole "thieves-in-the-night" non la rende certo più moderna se non al registro della RIAA.
Insomma, in due parole, l'unica cosa che salvi quest'oscenità è alla fin fine la comodità di avere (in un modo o nell'altro) alcune gran belle tracce come Crime Saga, Organized Rime o Red Hook Day. Ma davvero non riesco a capire come 'Bazz abbia potuto tollerare un simile insulto, che comincia col packaging, prosegue nell'arbitraria esclusione di pezzi potenti come Death Be The Penalty o i sopracitati remix, e si conclude nell'inesistente lavoro di postproduzione. Ora, è per pura coerenza che mi esimo dall'appioppare l'unico zainetto che quest'operuccia si merita- posso solo augurarmi che la Battleaxe lasci perdere progetti così ambiziosi e che si limiti a gestire cose più alla loro portata come i Swollen Members, Moka Only e LMNO (che, tra parentesi, ha rovinato in solitaria l'altrimenti bel disco fatto con Kev Brown).

VIDEO: CRIME SAGA

MISSIN' LINX - EXHIBIT A (Loud, 2000)

martedì 27 maggio 2008

Ad eccezione di alcuni rari casi -collocati comunque tutti nel cosiddetto underground- l'EP è un formato di registrazione usato assai poco. Solitamente lo si utilizza per riempirei tempi morti tra un LP e l'altro, oppure lo si favorisce quando si tratta di raccogliere una serie di tracce che altrimenti non potrebbero venire incluse in un progetto di lunga durata. Definire il caso dei Missin' Linx è un po' problematico perchè da un lato non hanno mai fatto seguire a questo Exhibit A nessun altro prodotto, e dall'altro però nemmeno hanno all'attivo chissà quale discografia -almeno come gruppo.
Specifico "come gruppo" in quanto, se presi singolarmente, i membri del trio (Al Tariq, Black Attack e Problemz) sono dotati di curricula di diverso spessore. Primo fra tutti Al Tariq, già membro dei Beatnuts e presente sul loro primo album oltre che su Intoxicated Demons, in seguito autore di un mediocre solista nel '96 (che però conteneva la bbbomba Crime Pays) e poi, ovviamente, fabbrica vivente di ospitate e 12" sparsi. Il secondo membro, Black Attack, è quello che meno mi piace e dunque colui sul quale sono meno ferrato: di certo c'è che lo si è visto ospite su svariati dischi (God Connections, i tre di DJ Honda, Loyalty degli Screwball ecc.) oltrechè autore di un paio di singoli non fondamentali. Last but not least c'è Problemz, a mio avviso il più interessante del trio, il quale esordì su un paio di tracce contenute nel primo DJ Honda ed in seguito facendo sporadiche apparizioni su tutta una serie di album altrui (mi piace ricordare quelli dei Beatnuts è l'ottima Society, sua traccia solista sul primo Lyricist Lounge) in maniera non dissimile da quanto fatto dagli altri colleghi. Nel '98, però, recuperai un singolo in vinile che riuniva i tre e li vedeva impazzare su due tracce: la discreta Lock'd D (prodotta da Necro) e l'ormai storica M.I.A., primo pezzo in assoluto (che io sappia) a campionare quella The Edge di David McCallum che Dre rese celebre con The Next Episode -e non è per partigianeria underground che la reputo la versione migliore. Inutile dire che, dopo questo primo favorevole impatto, come addocchiai questo EP lo feci mio e solo data la scarsa durata non posso dire di averlo consumato.
Ora, trattandosi davvero di pochi pezzi (sei in tutto), preferisco partire dalle note negative e togliermi il dente. La prima di queste è data dall'inspiegabile motivazione di includere M.I.A. ed al contempo di escludere Lock'd D: allora, o non ne metti nessuna perchè si tratta di tracce vecchie, oppure le inserisci ambedue e, così facendo, almeno allunghi l'opera con del materiale di qualità. Anche perchè bisogna considerare il genere musicale -nel rap è norma creare dischi di 16-18 pezzi- seguendo il quale mettere insieme solo sei canzoni è davvero un po' poco... era troppo chiedere uno sforzo in più? In più, a parte questo, poi, That's That è qualcosa di francamente loffio: a voler essere gentili si può definire il beat come "anonimo", ma in realtà si tratta di una cacata pura e semplice. Aggiungiamoci un ritornello che nemmeno al Cottolengo e voilà, ecco pronti e serviti 3'40'' di inutilità e/o fastidio.
Messe alla sbarra le mancanze, è il momento di passare ai punti forti di questo Exhibit A, precisando che il criminale autore di That's That -tal DJ Emz, rivisto di recente su Bodega Chronicles- si redime con la valida Hotness: qui, un campione di archi "tirato" (ma potrebbe anche solo essere un synth) dall'atmosfera parecchio darioargentiana viene efficacemente contrapposto a un ritmo tirato parafunkettone, col risultato che sembra di sentire i Goblin riadattati in chiave reppusa. E, come del resto nell'intero EP, gli MC non deludono; fermo restando che non viene esplorato nuovo terreno nè come contenuti nè come stile, ciò che funziona in modo eccelso è l'alchimia tra i tre, cosa decisamente importante dato che in tutti i pezzi questi si scambiano frequentemente il microfono, e venir meno in questa abilità avrebbe compromesso irrimediabilmente l'esito complessivo dell'opera. Ciliegina sulla torta è il featuring di JuJu dei Beatnuts, che per quanto si dedichi al solo ritornello, aggiunge un quid che non dispiace affatto ed anzi aumenta il valore della traccia. Lo stesso ruolo viene affidato a Freddie Foxxx, che su un beat di Alchemist vecchio stile (bei tempi) dal piglio orchestrale, infonde ulteriore energia al tutto (a proposito: già che c'erano potevano direttamente includere il remix). Infine, per quanto sia abbastanza chiaro che a fare da padrona su tutte vi sia M.I.A., e per quanto non meriti di essere esclusa dagli elogi la bella Ain't Nothin', la seconda miglior traccia è What It Is: la semplice produzione di Necro (sostanzialmente un giro di basso a far da melodia) è stranamente scevra della per lui consueta atmosfera uggiosa, ed anzi tende quasi alla ballabilità. Per giunta, questa sua essenzialità consente ai tre di rigirarsi il microfono come meglio par loro e, soprattutto, a far risaltare al meglio le loro capacità.
Capacità, queste, che sono difficili da mettere in discussione: Problemz ha una tecnica ottima ed una bella voce baritonale e sicuramente è il più "lirico" dei tre; Al Tariq gli è simile per competenza ma favorisce una metrica più classica, mentre Black Attack ha... boh, ha uno stile cantilenato che trovo fastidioso, senza poi contare che se la viaggia più sul genere "chiudolabarraquandomitirailculo" che sul rigore -il che va anche bene se a farlo è un Pharoahe Monch o un Masta Killa, ma personalmente trovo lui un po' poco capace e carismatico per potersi permettere certe libertà. Gusti, suppongo.
Sia come sia, come si può notare dalla mole di materiale che son riuscito a partorire per sei misere tracce, Exhibit A m'è assai piaciuto (aggiungo che sono sommamente dispiaciuto che non sia uscito un album e che anzi si sia preferito partorire quella formidabile minchiata che è Big City). Eccetto That's That non ho nulla di fondamentale da contrapporre all'opera, se non che questa è troppo breve, perciò, in teoria, dovrei attribuirle un voto alto. Epperò, metti insieme quei due o tre difettucci e spalmali per i miseri ventitré minuti e trentatrè secondi di durata, e ti rendi conto che la coperta è troppo corta. Ciò nondimeno, recuperare questo EP è consigliabile, vuoi anche perché ci sono almeno quattro pezzi che non sfigurerebbero all'interno di nessuna compilation casalinga e non.



INSPECTAH DECK - UNCONTROLLED SUBSTANCE (Loud, 1999)

lunedì 26 maggio 2008

Brutta bestia, l'aspettativa: dacché uscì Wu-Tang Forever, dove ogni qualvolta appariva Deck il resto dei suoi colleghi restava indietro di svariate misure, qualsiasi pezzo provenisse direttamente o indirettamente dal Nostro aveva il dovere sociale di essere come minimo una bomba. E per un po' la cosa ha anche funzionato (Above The Clouds, Tres Leches, Tru Master ecc.), senonché, giunti a metà 1999, il suo tanto atteso LP non ha potuto far altro che deludere le aspettative dei fan in quanto -molto semplicemente- non conteneva traccia della potenza di nessuna delle sopracitate tracce. E così fu che un discreto disco venne catalogato vita natural durante sotto la voce "occasioni perdute" essendo, peraltro, in buona compagnia di svariati suoi soci del Clan. Ma che col senno di poi si possa rivalutare (almeno in parte) quel giudizio di nove anni fa? Beh, sì e no.
Cominciamo col dire che la copertina è quanto di più brutto sia stato dato di vedere nel '99 al di fuori delle operucce della Pen & Pixel (quelli della No Limit degli anni d'oro, per intenderci), e che il fotoromanzo contenuto all'interno del booklet riesce a toccare delle vette di esilarante tristezza che vi consiglio di esaminare in prima persona. Che poi questo non vada ad incidere sui contenuti dell'album sarà anche vero, ma quando ci si trova di fronte a siffatta porcheria è impossibile non denunciarla.
Detto questo, la prima bella sorpresa arriva dopo l'obbligato skip di una stupida intro, e il suo nome è Movas & Shakers: come tutte le volte in cui RZA ha campionato Syl Johnson, anche questa produzione non fa eccezione e si rivela essere come una delle tracce più solide di Uncontrolled Substance. Il campione di tromba è supportato semplicemente da batterie che schioccano come dio comanda e da una linea di basso equalizzata da dio, il che consente a Deck di fare ciò in cui è maestro, e cioè sventrare il microfono: "This style has no origin or birth date/ And scientists' research can not calculate/ The great mind skatin' through space and time/ Vibratin' through the basslines that stun mankind/ Reclined in the leather seat the cassette blasts/ Vocals that smash out the bullet proof glass". Lo sventramento prosegue poi nella successiva 9th Chamber, in cui, su un beat invero un po' troppo fracassone per i miei gusti, INS è assistito da La The Darkman, Street Life, Beretta 9 e Killa Sin; considerati i nomi, è lecito aspettarsi una rima migliore dell'altra, cosa che puntualmente avviene, e tutto ciò in meno di tre minuti e senza nemmeno l'interruzione di un ritornello.
I primi problemi cominciano però ad affiorare con Uncontrolled Substance, dove un ritornello piuttosto discutibile in quanto cantato con l'enfasi di Man Before Your Time (Napoli Violenta, nella scena in cui si vede Gennarino semiazzoppato... trisshtezza) riesce a rovinare un pezzo altrimenti abbastanza degno. Per converso, Femme Fatale se la rovina il solo Deck: non tanto per le strofe -in realtà parecchio belle in quanto a rime e abilità nello storytelling- quanto per la cacofonica base da lui prodotta.
Interrompo la lista della spesa perchè devo tornare a lavoro quanto prima possibile: riassumendo, il problema principale del disco sono i beat. Alcuni risultano difatti semplicemente incircolabili: oltre ai sopracitati, ci sono per esempio Grand Prix (ammiccamento al funk da denuncia) e The Cause (autentico aborto fortunatamente posto in chiusura d'opera). Altri, invece, suonano di già sentito (Elevation riutilizza per la zilionesima volta Terri's Tune di David Axelrod, ma basta!) oppure risultano, purtroppo, un po' tanto generici (ed è il caso della maggioranza di essi, vedi ad esempio Longevity, Forget Me Not o Friction). Il che è uno spreco, perchè Deck raramente sbaglia un colpo, e quando lo fa, al limite inciampa sui ritornelli. Svariate prove di quello che può avvenire quando il Nostro è dotato di un beat adeguato lo si ha, oltre che in Movas & Shakers, nei singoli R.E.C. Room e Show 'N' Prove, senza poi contare le altrettanto valide Hyperdermix (cupissima) e Word On the Street.
Insomma, a conti fatti si può fare del sano revisionismo? Direi di sì, vuoi anche solo perchè quanto fatto da Deck nei suoi successivi album è stato ben peggiore di ciò che si può sentire all'interno di Uncontrolled Substance. Ciò però non significa che quest'ultimo sia un disco eccelso e men che meno un disco all'altezza delle promesse; si limita a contenere cinque canzoni assolutamente da sentire più una pletora di strofe più o meno sprecate. Peccato.




VIDEO: WORD ON THE STREET

J-LIVE - ALL OF THE ABOVE (Coup D'État, 2002)

giovedì 22 maggio 2008

Quando un artista, da anni profondamente radicato nell'underground e le cui doti sono allo stesso tempo riconosciute ma necessitano di una conferma mediante un secondo disco, decide di farsi ritrarre in copertina come il Coltrane di Blue Train, la prima domanda che può passarti per la mente è "chi è questo pretenzioso cazzone?". Eppure il paragone non è poi così azzardato, se si considera che Blue Train non esplorava nuove frontiere musicali ma si limitava ad essere un'opera più o meno tradizionalista, "semplicemente" realizzata molto meglio di altre: ecco, esattamente questo è All Of The Above. Ne consegue che, nell'attesa che Live sforni il suo Giant Steps o il suo Love Supreme (e vi anticipo che non sarà il caso di Then What Happened, in uscita il 27 di questo mese), ciò che abbiamo tra le mani è un disco che -al di là di poche smagliature sparse quà e là- rasenta la perfezione nel suo genere, ma che non porta ad alcun tipo di spiazzante evoluzione.
Fermo restando che questo non è affatto un difetto in sè e per sè, è comunque interessante rilevare che pur non essendo "innovativo" nel senso stretto del termine, All Of The Above riesce a risultare quantomeno originale grazie alla personalità del suo autore, il quale brilla per alcune encomiabili doti quali onestà, modestia ed un tocco di generale ironia, il che lo rende ben diverso da altri suoi epigoni magari altrettanto "seri" ma che preferiscono salire in cattedra per impartire lezioni di vita a noi poveri sfigati (qualcuno ha detto Common?). Difatti, più che autoelogiarsi, il Nostro preferisce che siano i fatti a parlare: e allora ecco che lo vediamo cominciare a raccontare una storia nella prima strofa di One For The Griot, senonchè, anzichè "limitarsi" a sfruttare le sue indiscutibili capacità di storyteller in modo tradizionale, nei versi che seguono riesce a fornire ben tre diversi finali al racconto... e ora ditemi se questo non significa essere creativi!
Sempre restando in ambito di storytelling, una delle caratteristiche essenziali per riuscirvi bene è essere dotati, oltreché di una fervida immaginazione, di un immaginario che sappia risultare evocativo. E dunque, su un beat mostruosamente d'atmosfera cucitogli su misura da Joe Money (già sentito con Asheru e i Lone Catalysts), Live entra in modalità riflessiva e, più che descrivere la notte in quanto tale, riesce a riproporre con stupefacente esattezza un momento di raccoglimento e di meditazione: "The sunset means sun rise on the other side of things, showing you equalities so follow me to the lead/ Together we can set our speed, reignite the seeds, you know how many had to bleed just so you could read?". Ora, è chiaro che per rendere piena giustizia al talento del Nostro dovrei trascrivere tutte le sue strofe, ma questo è ovviamente impossibile. Pertanto, mi basta dire che All Of The Above non solo è un disco mostruosamente vario, ma soprattutto è un disco "a matrioska": nel senso che la carne sul fuoco è tale che è impossibile riuscire a coglierla in un ascolto solo, bisogna ascoltare e riascoltare l'album per cogliere tutti i gradi d'inventiva, e non è detto che si riesca a farcela una volta per tutte. Del resto, dalla critica politica (Satisfied) all'amara riflessione sul mestiere (MCee), passando per le note autobiografiche (A Charmed Life) all'allegoria (How Real It Is), mantenere la rotta non è cosa facile. Decisamente non un disco da cosiddetto easy listening, quindi, per quanto Live cerchi di alleggerire quà e là i contenuti; ma quando uno è un così bravo MC -spanne e spanne sopra i colleghi per quanto riguarda inventiva, tecnica, scrittura- la massima di McLuhan torna in tutta la sua forza e ci ricorda che il mezzo è il contenuto.
Ovviamente, nel caso della musica non si può ignorare l'apporto dato, nella fattispecie, dai produttori. A spartirsi il lavoro sono principalmente DJ Spinna e lo stesso J-Live, con l'apporto non da poco del già menzionato Joe Money aka Usef Dinero (chissà poi perchè sullo stesso disco s'è firmato una volta così e una volta cosà, mah). A prescindere da ovvietà -personalmente ci sono pezzi che nel complesso mi piacciono più di altri- è difficile lamentarsi del lavoro svolto, in quanto vere e proprie schifezze non esistono. Certo è che Stir Of Echoes o 3 Out Of 7 non possono reggere il confronto con una Satisfied o una Travelling Music, ma questo rientra nella logica delle cose; no,. il vero problema è che All Of The Above è troppo lungo, e per quanto lo sforzo di differenziare i pezzi ci sia e si senta (campioni reggae, jazz, funk e chi più ne ha più ne metta), il fatto che fondamentalmente tutti peschino nel calderone del suono à la Native Tongues (l'ho già detto che la voce di Live mi ricorda enormemente Pos dei De La?) può rendere piombato l'ascolto ripetuto dell'opera.
Ma eccetto questo unico, vero, difetto, faccio francamente fatica a capire come mai J-Live appaia ai più "uno dei tanti". In fondo basta capire l'inglese ed avere una mezza idea di cosa significhi essere un MC per rendere omaggio ad uno dei più creativi rapper dei nostri tempi; per giunta, mi meraviglio che, fatte queste considerazioni e aggiungendo che pure lui è caduto nella famosa industry rule #4080, non abbia ancora appeso il microfono al chiodo. Ma non vorrei dargli cattive idee; preferisco baciarmi i gomiti sapendolo in attività e ricevere continuamente conferma del fatto che -album dopo album- è uno che non ha voglia di ricalcare i propri passi e che saprà sempre offrire qualcosa di nuovo. In definitiva, è presto dire se questo è il suo miglior disco (per ora preferisco il suo ultimo, ma ciò dipende anche dal fatto che lo sto ascoltando da una settimana scarsa), ma è senzx'altro ora di dirvi di andare a recuperarlo in negozio quanto prima.


CHINO XL - HERE TO SAVE YOU ALL (American, 1996)

martedì 20 maggio 2008

Ai tempi in cui uscì Here To Save You All, le pubblicità su riviste come The Source o Rap Pages erano di due tipi: in una c'era semplicemente la foto di copertina di Chino coi chiodi nella pelle a mo' di Pinhead, e di fianco si poteva leggere una sua punchline tratta dal secondo singolo, No Complex: "My company is fucking me like Arsenio does Eddie Murphy", "I'll treat you like Bobby Brown and Whitney Houston's marriage: one big joke", oppure, ancora, "You're gellin' me more than niggaz at PMD shows be yellin' for E". Nell'altra versione, invece, su pagina intera si vedeva una foto di Chino in camicia sotto la pioggia con a fianco una trascrizione a mano di una canzone: il primo singolo, Kreep, una rielaborazione/semicover della celeberrima canzone dei Radiohead e quindi di ben altro tenore.
Una bella differenza, eh? E naturalmente non solo d'immagine ma soprattutto di contenuti. Ciò che difatti molti estimatori (e naturalmente i detrattori) di Chino sembrano scordare, è che Derek Barbosa non è mai stato solo un MC da battaglia. Nel suo esordio -e purtroppo solo in quello- si possono sentire diverse tracce ben più personali o comunque focalizzate su uno specifico argomento, come ad esempio It's All Bad, Partner To Swing, Ghetto Vampire oppure l'eccezionale What Am I. Tuttavia bisogna concedere che queste sono la minoranza, e che al più ciò che si ha tra le mani è un concentrato di tecnica, di humor nero, di riferimenti pop (nel senso più letterale e positivo del termine) e di profanità di vario genere. Forse sono state proprio quest'ultime ("The term Chino goes synonymous with corpses flipped/ But never celebrated like Hanukkah in Auschwitz", per esempio, non dev'essere stata apprezzata dai cosiddetti tall Israelis), assieme ad uno scarso investimento della American Records di Rick Rubin a decretare un successo di pubblico molto limitato, ma questo è ormai irrilevante. Quello che conta è che Here To Save You All è uno dei pochi punti di riferimento da prendere per chiunque desideri fare l'MC, in quanto Chino è semplicemente uno dei migliori del suo campo e senza dubbio capace di sbriciolare come e quando vuole il 95% dei suoi colleghi in attività. I motivi sono semplicissimi: è di indubbia intelligenza, dispone di un vocabolario e di una cultura generale impressionanti e, naturalmente, ha una completa padronanza di voce e tecnica al punto da potersela gestire come meglio gli pare.
Insomma, tanto per non farla troppo lunga, sul versante dell'emceeing il disco è letteralmente perfetto e davvero si può chiedere poco di più a Chino. Basti pensare che anche a distanza di 12 anni continuo ad ascoltarlo sapendo che ci sarà sempre qualche metafora, qualche gioco di parole, qualche rima incrociata sfuggitami all'ascolto precedente; e conoscendo bene il periodo in cui i testi vennero scritti -e dunque l'humus culturale che ha generato alcuni riferimenti- le sue uscite riescono ancora a farmi ridere e a farmi dire "come cazzo ci è arrivato a mettere insieme quelle due cose...".
In quanto ai beat, il discorso è un po' diverso. Fermo restando che avere Chino al microfono basta ampiamente a colmare le eventuali lacune sonore e a rendere ascoltabile qualsiasi traccia, non si può però negare che il divario tra la resa finale dei pezzi da 90 e quelli un po' più generici si fa sentire. Difatti, pur pescando a piene mani dai suoni più grezzi di metà anni '90 (Buckwild su tutti), il risultato di quel capolavoro che è Riiiot! è ben diverso dalla mediocre Waiting To Exhale; per di più, se nel primo caso il Nostro ha come sparring partner Ras Kass, che riesce a stargli dietro anche grazie a versi come "The day a nigga'll serve Ras is when faggots'll start straight-bashing", nel secondo la sua crew viene letteralmente relegata a ruolo di comprimari di terz'ordine. Oppure, per fare un altro esempio, Ghetto Vampire (coi suoi tre beat in uno) riesce a schiacciare Feeling Evil Again, Freestyle Rhymes e Many Different Ways in una botta sola- il che è un peccato, perchè significa che il talento di Barbosa è andato (quasi) sprecato su dei beat che sarebbero dovuti restare nello studio. Ma quando gli si da un qualcosa di adeguato... signori miei, tutti a casa. Oltre alle sopracitate Riiiot! e Ghetto Vampire, vanno senz'altro segnalate Rise (soprattutto per via della programmazione delle batterie, sorprendentemente avanti coi tempi), la melodica Kreep (nella quale Kutmasta Kurt stravolge In A Gadda Da Vida risultando originale diversi anni prima di Nas e Will I.Am), l'apparentemente leggera It's All Bad (Marvin Gaye fa miracoli) e il trio di pestoni genuinamente hardcore composto da Deliver, No Complex e Partner To Swing. Come si può quindi vedere, a conti fatti il risultato non è la somma delle parti ma poco ci manca; peccato solo che all'epoca uscissero bombe come Time's Up, Shook Ones o Broken Language, un fattore che non posso non tenere presente nel momento in cui mi trovo di fronte ad una pletora di basi generalmente buone ma purtroppo non all'altezza degli epigoni dell'epoca.
Ma, detto questo, Here To Save You All è la classica pietra miliare scomoda che a nessuno piace ricordare se non come un gingillo da ritirare fuori tanto per. Comprensibile: se lo si facesse, ci si renderebbe facilmente conto che buona parte degli artisti celebrati oggigiorno sono poco più che dei mestieranti di bassa levatura, e che persino figure tanto idolatrate come Lupe Fiasco non sono, forse, così eccezionali come si vorrebbe far credere.




VIDEO: NO COMPLEX

7L & ESOTERIC - THE SOUL PURPOSE (Landspeed, 2001)

lunedì 19 maggio 2008

Tra le tante cose negative che il declino mediatico di New York (intesa quale capitale del rap) ha portato con sè, qualche nota positiva la si può trovare: ad esempio, ha permesso che altre città o aree della costa atlantica riuscissero a ricevere un'attenzione fino ad allora negata e dunque a riscuotere un successo sufficente per poter continuare a produrre musica. Basti pensare alla Carolina del nord (Justus League), a Detroit (Slum Village e dilliani vari) e alla città che al momento più ci interessa: Boston. Fino al 2000 circa, la capitale del Massachussets aveva giocato un ruolo del tutto marginale per quel che riguarda l'hip hop, limitandosi perlopiù a far nascere persone (Guru) o prodotti (The Source) che però per svilupparsi avevano dovuto trasferirsi a New York; altre figure, come EdO.G. o gli Almighty RSO, dopo aver vissuto un breve momento di popolarità, erano scomparsi dalla vista. Tuttavia, con la fine del millennio comincio ad esservii una sorta di rinascimento del movimento musicale bostoniano, capeggiato all'epoca da Mr. Lif, Akrobatik, Virtuoso, i Kreators, Reks e il duo composto dal DJ/produttore 7L e l'MC Esoteric.
Si può senz'altro dire che The Soul Purpose, benchè del tutto ignorato dal mainstream, era atteso a braccia aperte da tutti coloro che avevano seguito lo sviluppo dei due fin dalla pubblicazione dei primi lavori sotto il nome di God Complex (assieme a un terzo, Karma, poi divenuto grafico per la Landspeed a tempo pieno) per la Brick Records; a far crescere gli appetiti ci avevano poi pensato un paio di singoli e l'EP Speaking Real Words, uscito un paio di anni prima e in tutto e per tutto decisamente promettente. Inutile dire che io ero tra i suddetti fan e difatti, quando comprai questo album nell'estate 2001, mi fiondai immediatamente sullo stereo dell'amico che allora mi ospitava e lo monopolizzai letteralmente per diverse ore.
Quello che mi era sempre piaciuto del duo era l'approccio "no-nonsense", fatto da puro battle rap e basi essenziali, cosa che per mia fortuna trovai abbondantemente sparso per i quasi 65 minuti di durata del disco (poi i miei gusti sarebbero mutati, ma questa è un'altra storia). Il pezzo d'apertura, Verbal Assault, oltre ad usare un cut ovvio da Tru Master rappresenta la quintessenza del loro stile di allora: su un semplice beat fatto da basso, batteria ed un campione pitchato di due note di piano piano, Esoteric si lascia andare ad una pura e semplice dimostrazione di stile, nel quale il peso di G Rap come fonte d'ispirazione si fa pesantemente sentire: "Check the rap cat spit the fat shit to mack dips/ While you pack clips and bag bricks to stack chips/ I only smack dicks if they act slick/ And only jack whips if they model flagships". Forse non originale? Certo, ma suona comunque dannatamente bene, e gli scratch di 7L danno quel tocco in più che proietta il pezzo tra le cose migliori mai prodotte dal duo. Più funkettona e leggera è Terror To You Ear, la quale però viene subito annichilita dall'eccezionale collabo -nonché primo singolo- con Mr. Lif: Operating Correctly. Il tiro è parecchio veloce, il loop di piano è sottolineato da delle entrate di bassi pompate manco fosse drum 'n' bass e, soprattutto, dalla bella alternanza che si sviluppa tra Eso e Lif (qui in modalità puramente battagliera)... imperdibile. Per trovare un pezzo ugualmente potente non si può far altro che saltare un paio di tracce e giungere ad un'altra collabo, Public Execution (con Reks e un Apathy al pieno della sua forma), oppure alla riunione con Karma in Rep The Hardest (il quale risulta però palesemente inferiore a ES)- in ambedue i casi si tratta nuovamente di mere manifestazioni di stile ma, nuovamente, non posso ignorare quanto alla fine suonino bene, per cui pace. Tuttavia, ci sono altri casi dove le semplici rime non bastano ad elevare il pezzo (Play It Cool, Guest List o la sopracitata Terror To Your Ear), ed è qui che Eso comincia a muovere i primi passi di un'evoluzione che si sarebbe fatta vieppiù marcata disco dopo disco: tracce concettuali alternate a storytelling o, più prosaicamente, contenuti. Ad esempio, First Letter è sì un pezzo da battaglia, ma il fatto è che si sviluppa come un lungo e complesso acronimo: prendete la prima lettera di ogni parola e alla fine vi troverete con in mano una frase (che spoilero immediatamente: "You suck crab/ Stop inflicting pain on brains with YGB/ UR wack attempts at ripping microphones/ Don't ever fuck with Eso kid"). Meno astrusa è invece My Rhyme, un evidente quanto breve omaggio vivente all'old school '85-'86 (con tanto di adlib riverberati) che però, in tutta onestà, riesce a risultare tanto curioso ai primi ascolti quanto inutile dopo il terzo giro; la didascalicamente intitolata Think Back è un becchindedèis piacevole quanto basta e sul quale non c'è molto più da aggiungere; infine, Jealous Over Nothing è una storiella che in tutta la sua farloccaggine (sì, insomma, lui farebbe ingelosire di proposito la sua tipa...) contribuisce comunque a dare un tono di varietà al tutto.
Ora, prima accennavo al fatto che i miei gusti nel tempo sono cambiati. Di conseguenza, anche The Soul Purpose non può piacermi come mi piacque sette anni fa, sia perchè nel frattempo Eso ha dimostrato una sensibile maturazione da ogni punto di vista, superando le prestazioni di questo disco di parecchie spanne, ma soprattutto perchè oramai avere un intero disco fatto di battle raps non riesce ad eccitarmi a meno che non si tratti di qualcosa di davvero impressionante (I Told You So di Chino XL è un esempio abbastanza valido). D'altro canto, nemmeno posso ignorare che, nel suo genere, l'album contenga delle chicche assolutamente degne di nota: di fianco a Verbal Assault, Operating Correctly, Public Execution e Rep The Hardest si vanno a collocare anche You Know The Concept, Mic Mastery e State Of The Art -e questo in buona parte grazie alle ottime basi fornite in maggioranza da 7L e dai Vinyl Reanimators. Insomma, per farla breve, The Soul Purpose è un esordio perfettamente in linea con quanto c'era da aspettarsi all'epoca dal duo. Grosse pecche non ce ne sono (fuorché l'assenza di originalità o personalità che dir si voglia), ma è sicuramente un prodotto destinato alla lunga ad un ascolto "superficiale" e pertanto non degno di ricevere 4 zainetti.




Bonus: la mia intervista fattagli in occasione del concerto al Palladium del 2002

VIDEO: MIC MASTERY

BLAQ POET - AND THEN CAME POET (2006)

venerdì 16 maggio 2008

Volendo proseguire nel mio viaggio "too black for Mtv", dopo l'ultimo dei Dwellas è giunto il momento di calare l'asso e tirare fuori uno di quegli oggetti che fanno di me l'alfiere del nerd bootlegging, cioè il disco rifatto a mia immagine e somiglianza. Vado a spiegarmi: quante volte avete atteso con impazienza il disco di Piripacchio e, una volta tenutolo in mano, vi siete sentiti delusi? E, ancora, ditemi se ciò non è avvenuto con Rewind Deja Screw, "street album" di quel peso da novanta della terronaggine che è Blaq Poet? Appunto.
Sapete, io ero convinto di avere a che fare con una specie di antipasto o, come lo chiamano nel mio ambiente, un appetizer; e invece mi sono trovato per le mani una raccolta con qualche pezzo originale, qualche inclusione di b-side varie e soprattutto tutta una serie di strofe riciclate. Ora: quest'ultimo è per me il problema minore, peccato però che la qualità nel suo complesso non fosse tutto 'sto granchè, principalmente per via dei beat. E così mi sono armato di vari CD, di Photoshop e di Bias Peak per mettermi al lavoro e creare una sorta di vera summa di quelle che sono le sue apparizioni più significative oltre a -naturalmente- i pezzi migliori del suo semiesordio.
Immodestamente, ho fatto un buon lavoro e, al limite, l'unica cosa che manca qui è Loyalty con Cormega (d'altronde non volevo mettere troppa roba col resto degli Screwball). Per il resto, vi aspetta una serie di pezzi che variano dal classico all'ottimo fino al buono; a margine di tutto ciò c'è una delle grafiche più sbatti mai fatte: il digipack casalingo, per le quali spiegazioni di assemblaggio rimando a dopo la tracklist:

01. Intro
02. Poet's Coming
03. Ghetto Shit
04. Watch Your Back
05. Seen It All feat. K.L. & Hostyle
06. The Heat Is On RMX feat. Prodigy & Godfather Don
07. F.A.Y.B.A.N.
08. The Bio
09. We Gon' Ill
10. Bloody Mess
11. What Y'all Gonna Do
12. Rhyme Crime Boss
13. You Love To Hear The Stories
14. Message From Poet
15. Urban Warfare RMX feat. K.L., Hostyle & Kyron
16. The Cash
17. Bang This
18. Poet Has Come

Dunque, eccoci. Premesso che so perfettamente che nessuno di voi metterà mai in pratica queste cose, non posso esimermi dal fornirvi le istruzioni necessarie. Innanzitutto, ciò di cui avete bisogno è carta adesiva da 80g, del cartoncino ondulato nero da 100g, del cartone pressato (quello dei quadernoni da disegno Fabriano va benissimo), della colla (meglio scotch biadesivo di quelli hardcore), un cutter ed una discreta manualità. Come prima cosa, aprite il file con Photoshop e vedrete che ci sono tre livelli: Sticker, Sfondo e Cartone. Ora, stampate lo sticker sulla carta adesiva e ritagliate la parte bianca; dopodiché, stampate "Sfondo" sul cartoncino e ritagliate anche questo prendendo come riferimento le guide interne del file. Appiccicate lo sticker sul cartoncino. Fatto ciò, ritagliate due quadrati di 123mm di lunghezza per lato dal cartone e incollateli in corrispondenza al fronte ed al retro, piegate, incollate le alette ed il gioco è grossomodo fatto. Divertitevi.

Blaq Poet - And Then Came Poet

VIDEO: DON'T GIVE A FUCC (THE BLAQ PRINT PROMO)

THE DWELLAS - THE LAST SHALL BE FIRST (Loud, 2000)

giovedì 15 maggio 2008

Avendo voglia di ascoltare rap un po' tamarro e volendo "chiudere" la discografia di un artista, stamane all'uscita da casa ho deciso di prendere in mano il secondo album dei Cella Dwellas -ora ribattezzati semplicemente "The Dwellas", probabilmente per ragioni di facilità di comprensione. Come già anticipato in chiusura della recensione di Realms 'N' Reality, la cosa più importante da dire è che nel loro caso il tipico "sophomore jinx" non c'è stato ed anzi la qualità complessiva si è sensibilmente elevata. Ora, si potrebbe facilmente obiettare che la suddetta "iettatura del fagiolo" avvenga solo quando l'esordio è stato eccezionale (e non semplicemente discreto come nel caso dei Nostri), ma poco importa.
A cambiare in meglio è stata innanzitutto la durata del lavoro, che ora si limita a 14 tracce più una bonus track risalente a qualche anno prima (Main Aim, dalla colonna sonora di Soul In The Hole); questo fattore, che aggiunto ad ospitate più frequenti e produzioni curate non solo da Nick Wiz ma anche da Ayatollah, Large Professor e Rockwilder, contribuisce in maniera determinante a scacciare lo spettro della monotonia che tanto aleggia(va) sulla loro opera prima. Ma come se ciò non fosse abbastanza, lo stesso Nick Wiz è riuscito a dare un po' di varietà in più alle tracce affidategli, lavorando egregiamente sulla programmazione delle batterie e -ebbene sì- anche sui suoni di queste.
Intendiamoci, il suono nel suo complesso è smaccatamente nuiorchese e del resto non potrebbe essere altrimenti, ma per fortuna di tutti non cede alle derive swizzbeatiane di quei tempi ma si assesta su uno stile classico che ancor'oggi non sfigura. Tra le tracce più riuscite è impossibile non menzionare le eccellenti Verbal Slaughter (con un Inspectah Deck un po' manierista ma comunque d'impatto), Ready To Rock (che segnala la riapparizione di D.V. Alias Khryst) e l'ugualmente impressionante Ill Collabo, che vede -se non sbaglio per l'ultima volta- riuniti gli Organized Konfusion. Denominatore comune di queste tracce è il ricorso a campioni di piano tagliati, che pure vengono usati in modo diverso da pezzo a pezzo, tant'è che le impressioni che lasciano sono comunque ben diverse tra loro. Ora, prima di commentare il resto del disco, vorrei sottolineare come ciascuno di questi pezzi sia una piccola perla di suo e che scegliere quale di essi sia il migliore è impossibile: ognuno è a suo modo un lavoro da massimo del punteggio (davvero impressionante anche in questo il balzo in avanti rispetto a Realms 'N' Reality).
Un po' più in basso -ma sempre nella fascia qualitativa medioalta- si colloca la collaborazione con gli Smif 'N' Wessun (Steele spadroneggia e ruba lo show), You've Been Warned e Stand Up (puro stile Nick Wiz, col classico delay+riverbero applicato al campione e la doppia cassa posta a inizio del loop) e, infine, I'm Tellin' You, che spezza un po' le atmosfere cupe del disco fornendo un tappeto sonoro coerente con lo storytelling da cacciafiga dei due. A voler fare il generoso, potrei inserire in questa categoria anche le cose che mi piacciono meno ma che restano comunque interessanti: Leakage (un po' fracassona) e On The Run (quel campione è già stato usato meglio), mentre mi hanno parecchio deluso i contributi di Ayatollah e Large Pro, che davvero non aggiungono nulla al disco e che rispetto ai rispettivi curriculum scivolano nel dimenticatoio come niente (e quasi è meglio così). Unica nota di colore: il patetico ammiccamento al club tramite la sinceramente orrenda Da Ruckus, che non solo succhia a tutto spiano da Da Rockwilder di Red & Meth (avendo lo stesso produttore sul disco, peraltro), ma che ben più gravemente pesta la metà di quello che vorrebbe e riesce a farsi ricordare solo come una formidabile cagata dove dei synth fiacchi ti implorano di ballare. Ma per piacere.
Avendo recensito Realms 'N' Reality poco tempo fa, ripetere le solite cose su quanto U.G. e Phantasm non siano dei fenomeni in termini tecnici e su quanto restino fondamentalmente dei coattoni in quanto a tematiche mi parrebbe ridondante. Grossi miglioramenti non ci sono stati, eccetto forse il fatto che Phantasm ha imparato a gestire meglio il suo stile e ad evitare di sovraccaricare cadenza e dizione. Mi piace però complimentarmi con il loro coraggio, dato che al di fuori di Large Pro e Khryst i due si sono scelti una serie di ospiti capaci di sbriciolarli persino leggendo il programma TV; e tutto sommato, questa differenza si sente ma non assorge a dimensioni di imbarazzo come invece è toccato e ancora tocca a diversi loro colleghi.
Detto questo, se i motivi per i quali il loro esordio venne trascurato dalla critica e dal pubblico mi sono chiari, il perchè pure questo sia caduto in una disgrazia ancora più nera è per me fonte di meraviglia. Non so, d'accordo che loro si lasciano sentire ma la faccenda muore lì, però intanto danno quel che basta per confezionare tre tracce da urlo, un altro po' di cose più che apprezzabili e -in ultima analisi- una sola sòla. Morale? Che cose come queste non fanno che cementare l'opinione che in diversi settori musicali, primo tra tutti l'hip hop, con gli anni "famoso" ha sempre più coinciso con "fiacco".



MR. LIF - MO' MEGA (Def Jux, 2006)

mercoledì 14 maggio 2008

Avete mai pensato agli artisti che consigliereste all'eventuale amico che vi dovesse chiedere un consiglio per andare oltre il rap più inflazionato? Per quanto mi riguarda, oltre a tutta una serie di classici, volendo prendere in esame il nuovo millennio tra le mie scelte figurerebbe senz'altro Jeffrey Haynes, al secolo Mr. Lif. I motivi sono, in estrema sintesi, i seguenti: è un MC di spiccato talento, facilmente riconoscibile sia per la voce che per la tecnica; è indubbiamente intelligente e questo si riflette nella scelta delle tematiche ma, soprattutto, nell'approccio ad esse; i suoi album sono generalmente brevi e musicalmente variegati, e dunque la possibilità di annoiarsi è pressoché inesistente. Punto.
Una volta stabilito questo, si tratterebbe però di scegliere quale dei suoi album suggerire: uno dei suoi due EP o I Phantom? La raccolta di rarità e b-side? Oppure, ancora, la sua "joint venture" con Akrobatik e Fakts One? In ogni caso la scelta sarebbe ardua, perchè ciascuna di queste opere ha una sua identità ben precisa o, più esattamente, una sfaccettatura del lato artistico di Lif più marcata di altre. Forse paradossalmente, alla fine mi ritroverei a pensare a questo Mo' Mega, dato che è senz'ombra di dubbio il suo lavoro contenutisticamente più completo ed acusticamente più comprensivo (nel senso che riunisce tutta una serie di varietà di suoni e atmosfere), oltreché il più bilanciato e dunque -ma su questo mi potrei scannare per giorni con gli altri tre o quattro fan italiani di Lif- il migliore che abbia prodotto finora.
Critica sociale, politica ed economica, ironia, emceeing puro e -finalmente- aspetti personali sono tutti efficacemente riassunti nei 40 minuti di durata di Mo' Mega: si passa gradualmente da Brothaz a Washitup e si chiude l'ascolto con For You senza avere l'impressione di trovarsi di fronte ad uno schizofrenico, ed è esattamente questo che rende così soddisfacente questo disco. Personalmente apprezzo poi che i sopracitati aspetti del carattere di Lif siano sostanzialmente focalizzati traccia per traccia anzichè mescolati alla rinfusa, perchè a tal modo l'esposizione si fa chiara, ed individuare l'oggetto della discussione per poterlo meglio comprendere diventa "facile" o, meglio, "logico". Il Nostro sa esattamente cosa vuol dire e come lo vuol dire, il che appare evidente nel singolo Brothaz così come in Murs Iz My Manager o Looking In; non si perde in peregrinazioni mentali e va subito al dunque, permettendo all'ascoltatore di seguirlo sia che contesti la classe politica americana, sia che faccia satira sui meccanismi dell'industria discografica, sia che tramite un ottimo storytelling evidenzi le difficoltà di crescere senza un padre e di come questo, all'interno di un contesto ostile come il tipico ghetto americano, possa facilmente portare a comportamenti criminali e dunque ad un futuro tutt'altro che roseo. Non volendo spoilerare troppo, mi fermo qui con la mia lista della spesa; e quanto all'aspetto più puramente "tecnico", su Lif non ho molto da dire fuorché che è un eccellente MC e che riesce a lavorare su stile e contenuti con pari efficacia, cosa che poi rende effettivamente degno di ripetuti ascolto Mo' Mega.
Ma tutto questo non sarebbe godibile se non ci fossero solide basi musicali (apprezzate il doppio senso) sulle quali appoggiare lo spessore di Lif, e queste ci vengono fornite in maggior parte da El-P. El-P che, proseguendo un cammino di relativa "semplificazione" del suo suono, si riaggancia idealmente a quanto prodotto per Hell's Winter l'anno precedente. Si passa quindi da forti accenni al boombap più classico (Collapse, traccia d'apertura analoga per struttura a Good Morning di Cage) ai suoni più futuristici di Ultra Mega, senza naturalmente scordare citazioni più funk (Brothaz) e omaggi più o meno espliciti alla Bomb Squad (The Fries ma soprattutto Mo' Mega). Oltre a El-P troviamo però anche Mr. Lif (due pezzi) e lo sconosciuto Nick Toth (una canzone), che aggiungono del loro ulteriore varietà all'insieme senza ovviamente scostarsi di troppo dall'atmosfera generale. Ma mentre sul versante lirico il disco è inattaccabile, la controparte musicale lascia aperti dei dubbi. Innanzitutto, alcune cose sanno di già sentito: non solo Collapse, ma anche Murs Iz My Manager, decisamente simile alla Career Finders presente in Black Dialogue, puzzicchiano un po' di pigrizia per quanto in fin dei conti siano tutto fuorché brutte o scontate. Aggiungiamoci una produzione francamente brutta e basta -cioè Washitup- ed un altro paio francamente senza arte né parte (Long Distance, The Fries), e vediamo che le cose per Mo' Mega si complicano un po'.
Fortunatamente, queste pecche non compromettono più di tanto l'opera nel suo insieme; si limitano, cioè, a non farle raggiungere la perfezione e ad abbassare di un ulteriore mezzo zainetto il voto finale. Tuttavia, il lavoro è complessivamente solido e appagante e vale ben l'esborso di una ventina di euro, vuoi anche per via del bel packaging e dell'ottimo lavoro grafico svolto dalla Company Standard. A tal proposito, aggiungo che per apprezzare davvero Mo' Mega è essenziale capire i testi: bene, Lif ha saggiamente deciso di includerne le trascrizioni, e perciò direi che a questo punto non ci sono scuse per dribblare un acquisto non strettamente essenziale ma certamente degno.




VIDEO: BROTHAZ

MARCO POLO - PORT AUTHORITY (Soulspazm/ Rawkus, 2007)

lunedì 12 maggio 2008

Circa un anno fa scaricai ed ascoltai per la prima volta l'album di debutto di Marco Polo (all'anagrafe Marco Bruno), produttore italocanadese trapiantato a Brooklyn e precedentemente avvistato su alcuni album della Boot Camp Clik, di Supernatural e di Masta Ace. I lavori svolti fino a quel momento non mi avevano convinto del tutto: li reputavo piuttosto validi ma privi di grande mordente, e per questo mi avvicinai a Port Authority con un certo scetticismo ed uno scarso interesse; pregiudizi, questi, che diminuirono ascolto dopo ascolto e che ora sono scomparsi del tutto, lasciandomi in eredità non solo uno dei più bei dischi del 2007 ma anche un'insalubre impazienza per l'attesa del suo prossimo progetto.
Dico insalubre perchè Port Authority ha richiesto circa tre anni per poter vedere la luce, e pertanto -anche se i tempi per il seguito saranno senz'altro minori- ci sarà qualcosina da aspettare. Nel frattempo mi posso però consolare riascoltando per la zilionesima volta questo album, che anche a distanza di un anno proprio non riesce a stufarmi. Sarà che la scelta degli ospiti è piuttosto ben assortita, sarà che Marco ha giocato sul suono classico, sarà che la varietà generale è ottima: probabilmente tutt'e tre le cose ed anche qualcosa in più, ma resta il fatto che ad eccezione di piccole sviste reputo che questo esordio superi nettamente Soul Survivor, cioè il disco che (a detta dello stesso Marco Polo) ha ispirato Port Authority. Dico questo non tanto facendo il paragone tra il talento di quest'utlimo e quello di Pete Rock, quanto valutando il rapporto tra il risultato finale e le rispettive capacità e quindi, a mio modo di vedere le cose, Pietrino Roccia perde per una serie di motivi: a) rappa maluccio su diverse le tracce, b) diversi beat sono francamente sotto i suoi standard e c) perchè questi sono parecchio deludenti rispetto ai featuring. Ecco in breve perchè, pur avendo una lista di ospiti indiscutibilmente più appetitosa di Port Authority, Soul Survivor resta indietro di un po'.
Comunque sia, tornando all'oggetto della recensione, la prima cosa che incuriosisce in questo genere di lavori è, appunto, la selezione degli ospiti; per la quale Marco attinge direttamente dalla golden era '94-'98 oppure a gente che vi fa riferimento. Nella fattispecie, fanno parte della prima categoria: Large Professor, Kool G Rap, O.C. (tutt'e tre presenti non a caso anche in Soul Survivor), Buckshot, Masta Ace, EdO.G., Sadat X, JuJu, A.G. e D.V. Alias Khryst; alla seconda appartengono invece Copywrite, Wordsworth, JoJo Pellegrino, ' na marea di tizi legati alla Low Budget Entertainment (amici di Kev Brown, per intenderci), Jaysaun, Supastition, Rock Marciano e qualcun altro. Ecco, diciamo che "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei" è un detto che bene s'adatta al Nostro, perchè a supporto dei sopracitati nomi ci sono beat che calzano a pennello non solo all'MC vero e proprio, ma anche all'idea che i più hanno di questo; il che potrebbe portare alcuni a parlare di scontatezza, ma per quel che mi riguarda si tratta semplicemente di saper centrare il bersaglio, dato che l'unica cosa che mi aspetto da O.C. è che stia sopra ad una base pestona -di certo non che si lanci in spericolati excursus à la Gnarls Barkley o che altro. Detto questo, resta solo da vedere pezzo per pezzo quale è il risultato.
Bene: di Marco Polo ho già detto che è fortemente ispirato dalla classica estetica nuiorchese della seconda metà degli anni '90, ma quello che non ho puntualizzato è che riesce a creare composizioni spesso fortemente diverse da loro lavorando molto sulla programmazione delle batterie (ed i relativi suoni) e sulla scelta dei campioni. Questa è una caratteristica importante: la filosofia è sì "batteriepulite+lineadibassopompata+campionepulito", ma ciò non si riduce ad un'applicazione cieca e ripetitiva del principio. Basti pensare infatti alla differenza esistente tra Get Busy, The Radar e Go Around: la prima ha un taglio nettamente orchestrale, la seconda è molto più tagliata e funkettona, la terza ha un'ispirazione smaccatamente soul e rilassata; e tenete presente che questo è solo un esempio tra i più eclatanti, dato che a voler fare il gioco degli incroci se ne potrebbero creare di altri vieppiù sottili. Casomai il problema di questo approccio è, questo sì, la scarsa personalità del produttore: si potrebbe facilmente scambiare Low Budget All-Stars per un prodotto originale di Kev Brown, così come la stessa The Radar potrebbe facilmente passare come un'opera dello stesso Large Pro. Tuttavia, peronalmente tendo a glissare su questi difetti, o quantomeno a farli passare in secondo piano nel momento in cui l'esito è più che piacevole per le mie orecchie.
Ed è per questo che le uniche note dolenti, seppur in termini molto relativi, siano altamente specifiche: e cioè le prestazioni di Rock Marciano (non all'altezza di altri suoi lavori) e Kardinal Offishall (che a prescindere dal fatto che il suo stile mi faccia cacare a spruzzo, su War se ne va a zonzo per i fatti suoi e tanti saluti al beat), l'inutile cover di Electric Relaxation dei Tribe, e delle occasionali punte di monotonie in certe tracce (Wrong One, All My Love, Marquee). Tolte queste pecche -ampiamente compensate dai molti punti di forza- Port Authority è a mio modo di vedere davver o un album eccellente, al quale senz'altro non si può dare meno di quattro zainetti; ma ai quali ne aggiungo volentieri un altro mezzo perchè secondo me è pressochè ineccepibile e che se persino a me, che sono parecchio puntiglioso, dopo un anno di ascolti intensi non ha stufato, un perchè ci sarà.




VIDEO: NOSTALGIA

CAGE - HELL'S WINTER (Def Jux, 2005)

venerdì 9 maggio 2008

[N.B.: il testo che segue è stato copiaincollato tale e quale da una recensione da me scritta nell'immediato periodo successivo all'uscita del disco. Eventuali aggiunte a pie' di pagina/post]

"Cage. Agent Orange. Eastern Conference. Smut Peddlers. Album solista così così. Collaborazione mediocre uno. Collaborazione mediocre due. Hey, essere psicopatici fa vendere".
Per chi in questi ultimi cinque anni ha imparato a disprezzare il Cage che era diventato a botte di testi “malati” (termine osceno, paragonabile solo a “pazzo”)- ovverosia sostanzialmente una macchietta dell’Alex di Agent Orange- la descrizione di cui sopra è sintetica e azzeccata quanto basta. Ecco, forse le manca il termine “noioso” per essere lapidaria. Per farla breve, insomma, non nascondo il fatto che quando mi sono trovato questo album tra le mani, con uno sguardo un po’ schifato mi sono detto “sarà la solita pacconata buona giusto per sedicenni fissati con lo splatter e poco altro”. Pregiudizi enormi mi controllavano.
Tuttavia, leggendo i nomi degli ospiti presenti sul disco (su tutti Jello Biafra e Daryl Palumbo dei Glassjaw) ho subodorato un cambiamento in corso, confermatomi poi dalla dicitura “Def Jux”: insomma, a quanto pare, Cage è intenzionato a giocarsi la carta della longevità, per la quale il requisito fondamentale è il sapersi rinnovare. E nel caso di Cage non sarebbe bastato solo il suono o l’atmosfera, poco ma sicuro.
E difatti, stento ancor’adesso a credere alle mie orecchie, l’album che sto ascoltando rovescia in buona parte tutti gli stereotipi legati quella psicosi da supermercato che finora avevano contraddistinto Cage e le sue produzioni. Non solo: i suoni da un lato si sono relativamente ingentiliti, dall’altro si sono riavvicinati ad un suono più “classico”.
Né è la prova la prima traccia, Good Morning, nella quale El-P tira fuori due riff di chitarra e li incolla sopra il classico cassa-rullante (e basso parecchio spinto) tipico dei suoni newyorchesi della prima metà degli anni ’90. Cage di suo cavalca il beat in scioltezza, rendendo il pezzo un ottimo aperitivo per il tutto. Ma è solo a Too Heavy For Cherubs che si comincia a notare la svolta di Cage: è qui che l’ascoltatore può farsi una prima idea di come sia stata l’infanzia del Nostro, passata in buona parte in balìa di un padre alcolista, cristiano fondamentalista, ex marine e per giunta violento. Lo stereotipo del fanatico, insomma. Il tema viene poi ripreso e completato in Stripes, con la differenza che in quest’ultimo caso le strofe sono molto più cariche di risentimento che in Cherubs, dove invece l’approccio era più “leggero”, distaccato. Ma per quanto “distaccato” possa sembrare (in realtà, in Cherubs, la voce effettata stile ubriaco è abbastanza angosciante), in ambedue le canzoni si nota comunque come rabbia e frustrazioni non siano esagerate, prefabbricate o confezionate a tavolino (qualcuno ha detto Eminem?), ma come suonino semplicemente sincere.
Sostanzialmente, la stessa osservazione, riguardante una fondamentale onestà, si può adattare ad ogni canzone di Hell’s Winter che abbia in sé qualcosa di personale: senza voler fare psicologia spiccia, penso che un’esperienza, quale che sia, se non urlata ma esposta verosimilmente sia un segno inequivocabile di maturità, e ciò generalmente non fa che giovare all’ascolto ripetuto di un disco.
E le canzoni aventi in sé qualcosa di personale sono la maggioranza: dalle due sopracitate a Grand Ol’ Party Crash (con un’esilarante interpretazione di Bush a cura di Jello Biafra), passando per Peeranoia e Subtle Art Of Breakup Song, per giungere infine a Public Property e Scenester. Intendo sottolineare come comunque non si possa parlare di Emo-rap, visto e considerato che, oltre a non piangersi addosso, il bagaglio di esperienze dell’artista non si limita a questioni di cuore et similia; si spinge più in là, includendo ad esempio le disavventure discografiche ed arrivando a toccare persino l’autoironia.
Tecnicamente, invece, Cage non si è poi evoluto un granchè. Lo si nota per esempio in Lord Have Mercy (forse l’unica canzone rapportabile col suo vecchio repertorio), ma questa lacuna, se tale si può definire, viene riempita dall’ottimo lavoro fatto dai produttori. RJD2, per esempio, compone un bellissimo sottofondo per Shoot Frank, al quale Daryl Palumbo aggiunge un ritornello davvero calzante; El-P, dal suo, riabbraccia il buon vecchio boom bap e –spesso affiancato da altri, Camu Tao su tutti- crea almeno cinque ottimi pezzi (Good Morning, Hell’s Winter, Subtle Art…, The Death Of Chris Palko e Lord Have Mercy), fallendo solo nella posse cut Weathermen Gang. Persino DJ Shadow fa una comparsata in Grand Ol' Party Crash, ed il risultato, seppur non stellare, lascia soddisfatti.
Ora: non sono un grande fan del suono tipico della Def Jux, men che meno di quello che finora è stato Cage, ma devo dire che (forse proprio per questo) questo Hell’s Winter mi ha impressionato parecchio. In primo luogo per via del cambiamento di Cage, certamente, ma anche per la qualità dei beat e della maniera con la quale si sposano ai testi. L’album è una specie di tour nella testa di una persona la cui vita non è certo stata rose e fiori (andate a leggervi la biografia sul sito della Def Jux), ma che raccontata in questo modo (ovverosia senza autocompiangersi, mettendoci un pizzico di umorismo nero qua e là, e soprattutto scegliendo le parole giuste al momento giusto) risulta terribilmente interessante. Va da sé che qualche difetto qua e là lo si trova, ma nel complesso non risulta dannoso.
Un disco maturo (qualcuno sorriderà leggendo questa parola), quindi, ed apprezzabile non solo in un’ottica da reppuso ma, anzi, soprattutto, in una di musica tout court. Da avere.

[Sono passati circa tre anni dacché per la prima volta sentì Hell's Winter. In questo lasso di tempo -oltre ad aver imparato ad apprezzare di più quel che El-P ha da offrire, in parte proprio grazie a Cage- trovo che il disco sia invecchiato come il vino, tanto che mi sento in dovere di alzargli il voto di mezza tacca. Suoni e parole non sono caduti vittime del momento, come spesso avviene a chi fa gli "instant-discs" o i mixtape, ed anzi riescono a coinvolgere ancora adesso; la coesione ed al contempo la varietà di Hell's Winter risultano indiscutibili e, sommando questi fattori, sono assai propenso a sostenere che questa sia la migliore uscita della Def Jux dal 2005 ad oggi, e che nemmeno il tanto apprezzato quanto oggettivamente pesante come il piombo I'll Sleep When You're Dead possa rivaleggiare con quest'opera. Insomma, ribadisco: da avere a tutti i costi.]




VIDEO: SHOOT FRANK

CELLA DWELLAS - REALMS 'N' REALITY (Loud/ RCA, 1996)

mercoledì 7 maggio 2008

Sono sicuro che chiunque di voi ha nella propria compagnia il personaggio col quale si può uscire di tanto in tanto ma con il quale non si vorrebbe mai passare insieme più di quattro ore. Oppure, ancora, il fissato: cioè colui che asciuga menando il torrone sul solito tema del quale si è fatto portavoce nonché cattedratico. Insomma, quando si ha a che fare con queste persone si prova prima un certo interesse, che però ad un certo punto si trasforma in sorrisi di circostanza ed infine in pura noia -cfr. coloro che parlano di università o lavoro, decisamente i peggiori.
Ecco: questo disco è così. Uscito nel '96 in seguito al discreto successo dei singoli Land Of The Lost e Good Dwellas, Realms 'N' Reality concentra in sedici pezzi tutto ciò di buono e cattivo che l'underground di allora aveva, il che, espresso in termini concisi, è sostanzialmente alcuni pezzoni da antologia affogati in una broda primordiale di roba "meh". Ciò è dovuto sia alla monotematicità dei beat (curati in gran parte da Nick Wiz aka l'uomo dai soli tre set di batterie) che agli MC stessi, che pur avendo voci e stili sufficentemente diversi tra loro, in sostanza sparano sempre le solite quattro palle senza grandi picchi di creatività.
Eppure, volendo ridurre l'ascolto da LP a EP, di materiale di qualità se ne trova: Advance To Boardwalk, Recognize 'N' Realize, Wussdaplan, Good Dwellas, Line 4 Line (forse il pezzo più noto) e Land Of The Lost sono le tracce che hanno senz'altro più ragione di esistere. Ciò che hanno in comune sono innanzitutto i set di batterie, appunto: sono serio quando dico che queste suonano tutte davero molto simili (es.: il rullante di Recognize 'N' Realize è esattamente lo stesso di Line 4 Line), e se questo non depone a favore di Nick Wiz da un lato, dall'altro comunque non guasta perchè in fondo suonano bene e fanno il loro porco dovere. Insomma, a meno di non voler essere molto fiscali, il difetto è soprassedibile; tanto più che comunque i campioni variano quel che basta per dare una certa connotazione molto cupa all'intero lavoro, pur risultando diversi nei suoni. Per fare un esempio, Recognize 'N' Realize ha un tiro piuttosto veloce e sfrutta più che egregiamente la celeberrima In The Rain dei Dramatics; per converso, Line 4 Line è estremamente essenziale (cosa sono, tre note di piano? Quattro?) ed è molto più hardcore; ancora, Wussdaplan si basa su una serie di bei campioni di jazz (tra cui una scala di piano decisamente piacevole interrotta da brevi assoli di sax), quasi a far da contraltare a Good Dwellas ed al suo campione di Les McCann. Insomma, sul versante musicale c'è quel che basta per rendere l'ascolto piacevole quantunque un po' monotono, persino all'interno della sopracitata selezione da EP. E per quel che riguarda l'emceeing?
Cominciamo col dire che U.G. e Phantasm non sono certo dei fulmini di guerra e che la loro creatività si limita solo ed esclusivamente a come rielaborare l'ennesima variazione sul tema della loro figaccionaggine (non fanno testo le solite hood tales sparse quà e là, perchè non ci costruiscono nulla attorno e nemmeno usano grandi immagini per renderne l'idea). Tuttavia, hanno un'alchimia molto efficace: U.G. è senz'altro il più tradizionalista dei due e bene fa ad interrompere gli excursus stilistici del suo socio Phantasm, contraddistinto da una voce parecchio bassa e da una metrica e da una dizione senz'altro particolari (e che alle volte sfociano nella caricatura di sè stessi, come ad esempio in Mystic Freestyle) che donano personalità al duo. Purtroppo, però, nessuno dei due possiede né un vocabolaro vasto, né una fervida immaginazione, né grandi doti strettamente tecniche (metafore, frasi ad effetto, rimone da farti dire WHOA! ...cose così). E così, al di là del fatto che i due non entreranno certamente nella storia del rap, queste lacune di per sè non esiziali vanno a gravare su un prodotto acusticamente -come già detto- ripetitivo. Risultato finale è che l'ascolto ininterrotto di tutte e 16 le tracce potrebbe trasfomarsi in un tour de force persino per lo scroto più allenato.
La parte buffa in tutto questo è che nessun pezzo, preso a sè, può essere definito "brutto". Molto semplicemente, anche su questo Realms 'N' Reality s'è abbattuta la sorte toccata a molti dischi usciti a quell'epoca: o diventavano -prima o poi- dei classici, oppure soccombevano sotto il peso degli anni pur essendo dei lavori come minimo discreti (da qui i "soli" tre zainetti, cfr. le considerazioni in merito fatte per Noyd). E così come avviene per le persone di cui al primo paragrafo, se prese in piccole dosi vanno bene; ma alla lunga stufano, ed è per questo che ci si esce solo in rare occasioni e comunque mai da soli. Alias, scaricatevi 'sto disco e sparpagliate strategicamente i pezzi che vi piacciono per le vostre varie compilation: solo in questo modo riuscirete a valorizzare i Cella Dwellas. A loro discolpa anticipo che il loro secondo disco è decisamente meglio, ma per più dettagli dovrete aspettare ancora un pochino...




VIDEO: GOOD DWELLAS

AZ - THE FORMAT (Quiet Money/ Fast Life, 2006)

La mia missione pro-capitalismo si è conclusa mezz'ora fa con risultati relativamente deludenti: dei dischi che avevo in mente di comprare non ce n'era mezzo e per giunta ho trovato la camiceria chiusa, cosa questa che forse mi ha seccato di più. Ma pazienza: sono comunque tornato a casa con un paio di dischi non esattamente essenziali da avere ma comunque degni di ascolto: Classic dei Living Legends -che però non intendo recensire, almeno per ora- e, appunto, The Format di AZ.
Per introdurre il disco potrei fare molte cose, del tipo citare la sua strofa su Life's A Bitch e quanto questa sia stata leggendaria ma al contempo l'abbia danneggiato e bla bla bla; oppure potrei tessere elogi ad libitum per quanto riguarda la sua tenacia e per il fatto che sia uno dei pochi nuiorchesi di metà anni '90 a non essere scomparso pur non avendo ricevuto il successo meritato e cazzimazzi e mongolfiere. Ma ambedue questi discorsi sono triti e ritriti, e visto che la mia piccola audience è ferrata in materia mi parrebbe di tenere una lezione di educazione sessuale a Franco Trentalance (a proposito, Il Mucchio Selvaggio di Swaitz è da vedere per credere) e quindi evito. Molto meglio buttarla sul personale, quindi, e cominciare col dire che se c'è un MC che mi piace abbastanza ma del quale non compro mai i dischi, questo è AZ. Il primo suo album lo comprai nel '96, il secondo nel 2001 ed infine questo, appunto, nel 2008. Perchè? Ma perchè, molto semplicemente, i suoi sono generalmente album discreti con due pezzi ottimi, cinque validi, due brutti e qualche altro assortito- e anche questo non fa eccezione, tant'è che avrebbe potuto intitolarlo The Formula, visto che sono ormai più di dieci anni che inconsciamente Anthony Cruz la segue.
Ma non vorrei sembrare troppo criticone: formulaici quanto si vuole, ma i suoi dischi sono senz'altro migliori di moltissima merda che esce con maggior plauso di pubblico e critica; è solo che se c'è un rapper che davvero necessiti di un greatest hits, questo è AZ (che peraltro vedo essere uscito, ma il solo fatto che sia assente Pieces Of A Black Man lo rende inutile). Non fosse che in genere i greatest hits amo farli ciucciando solo da dischi originali lo farei io, ma... sto divagando, torniamo a The Format.
L'album si apre con la consueta entrata in grande stile, e difatti I Am The Truth ricorda le intro dei vecchi dischi di Jigga; molto pomposa, con un fiorir di campioni soul, archi ed un bridge che in realtà è la parte migliore del pezzo. Sul beat di Lil' Fame AZ se la capeggia egregiamente, e la cosa non dovrebbe sorprendere perchè tutto si può dire di lui fuorché che non sia bravo. La successiva traccia non solo è curata nuovamente da Fizzy Womack, ma vede come ospiti i suoi vicini di Brooklyn, gli M.O.P., i quali accompagnano il Nostro sull'ennesimo campione di Mary Jane di Rick James. Ora, già arrivati al secondo pezzo mi viene da evidenziare il primo difetto dell'album: vuoi per colpa dei produttori, vuoi per colpa del fonico, ma i beat non pestano come dovrebbero. Sembra infatti che abbiano segato rullanti e bassi poco prima che questi potessero risultare incisivi, e se la cosa può risultare innocua su certe produzioni più leggere, su altre -come questa Sit 'Em Back- la faccenda risulta fastidiosa. Prova in casa: ho messo su i Living Legends ed il pavimento vibrava continuamente, mentre con The Format sento alle volte un timido quanto breve "bbbrp" vicino alle casse; essendo il budget per i due dischi probabilmente simile, non posso quindi far altro che indirizzare un mortacci de tu madre a Arnold Mischkulnig (il tale che si è occupato di registrazione, mixaggio e quant'altro).
Tornando ai pezzi, preferisco pigiare sull'acceleratore e liquidare Get High come la prima vera cacata dell'album: a fianco di una produzione alquanto insipida si colloca il braggadocio di un Anthony Cruz in evidente crisi creativa, dato che il massimo di ingegno che si può scorgere è che è riuscito a mettere insieme una bella lista di ciò che lui ha (e gli altri no, si capisce): rispetto, droga, macchine, zoccole, belle case, televisori, quattro album... insomma, il solito approccio Postalmarket che salvo rare eccezioni induce sonnolenza ed anche un po' di fastidio. Segue una discreta quanto formulaica Make Me (featuring tale Fresh, suo protetto tutto sommato competente) e poi la seconda boiata, Games, che a parte i suoni un po' ottantoni viene devastata da un ritornello che la scaraventa di forza negli anni '90 -e non è un complimento. Samson, questo il nome del criminale crooner, non solo canta come se il disco dei Jodeci fosse appena uscito e come se Dick In A Box non avesse messo la parola "fine" a quel periodo e quello stile, ma per giunta se ne esce con "Why you wanna... playa-hate on me?". Capito? Lui si sente playahatato, quando in realtà non se l'incula nessuno. Una roba insomma che speravo sepolta per sempre nei meandri più oscuri della storia dell'hip hop e che invece viene riesumata da questa bella canzoncina. Applausi a scena aperta.
Ma quando tutto sembra perso, ecco invece la prima vera traccia bella del disco: Rise And Fall non solo risalta per la totale assenza di cassa e rullante e per il campione di piano e flauto che non sa di già sentito, ma soprattutto per l'inedita accoppiata AZ-Little Brother, che funziona molto meglio di quanto non parrebbe sulla carta. Veramente bella, ed anche contenutisticamente diversa da quanto sentito finora (sì, sarà il solito mescolone di becchindeddèis e nehovistedituttiicolori ma merita lo stesso). Pure la successiva Animal si difende egregiamente (bello il ritornello scratchato con la frasona di Biggie presa da Ten Crack Commandments: "I've been in the game for years, it made me an animal"), ma proprio quando The Format sembra aver preso il volo arriva puntualmente la boiata fou... ci sarebbe infatti da piangere, se non fosse che Doing That, oltre ad avere uno dei beat più trissshti sentiti negli ultimi anni, vede la partecipazione di Jha Jha. Ebbene sì: qualcuno al di fuori di quegli idioti dei Dips ha avuto il coraggio di ospitare quel incapace cessone dalla testa piatta e dalle zinne divergenti, ci avreste mai creduto? Immancabile perciò l'effetto diarroico della sua strofa (una sorta di Max B al femminile), ma quasi mi viene da dire che senza di lei la canzone sarebbe stata peggiore.
Ad ogni modo, mi sono rotto il cazzo di fare la lista della spesa: da qui in poi le restanti tracce sono tutte mediamente ascoltabili fuorché The Format, che tanto la conoscete già tutti e non mi sembra il caso di perderci battute per dire che è l'altro grande pezzo dell'album (video puzzone, comunque).
Insomma, stringi stringi, siamo alle solite: AZ è un ottimo liricista ed un più che discreto scrittore, ma quando si tratta di scegliere i beat riesce ad avere un paio di guizzi di genio, un altro paio di tuffi olimpionici di stile e, nella maggior parte dei casi, una serie di scelte sicure che se da un lato non provocano ribrezzo nemmeno fanno assumere grande personalità all'opera nel suo insieme. Indi per cui anch'io mi comporterò allo stesso modo: tre microfonini e la pia rassegnazione al fatto che o si decide di affidarsi alle cure di produttori più esperti e talentuosi, oppure continuera a campare egregiamente scrivendo belle cose che però si perdono nella mediocrità musicale da lui scelta.




VIDEO: THE FORMAT

J. RAWLS - THE ESSENCE OF J. RAWLS (Groove Attack, 2001)

lunedì 5 maggio 2008

Nel booklet del suo primo lavoro puramente strumentale, il Liquid Crystal Project, J Rawls così si pronuncia a riguardo della fusione tra jazz e hip hop: "For a long time, I have had this vision of a different type of jazz and hip hop fusion. I like to call this version, Jazz-Hop, because it is jazzy with all the elemnts of hip hop inside it. It's most evident in the drums! The boombap of hip hop from [form? NdR] is present; the smoothness of jazz is present. Put those two together and it's so right!". Refusi a parte, e pur non volendo recensire il disco da cui ho tratto queste parole, questo manifesto si può ritenere valido per tutti i lavori del produttore di Columbus, Ohio: dal disco d'esordio dei Lone Catalysts alle (rare) ospitate sugli album altrui, fino ad arrivare finalmente a questa sua "personale".
Ora, prima di parlare direttamente di The Essence, vorrei spendere un paio di parole sul Nostro: pur non essendo certamente il pioniere della fusione tra jazz e hip hop, ad oggi è lui quello che secondo me meglio la incarna. Non me ne vogliano gli altri produttori che occasionalmente ne fanno uso, ma come Rawls al momento non ce n'è. E questo principalmente perchè TUTTA la sua produzione è costellata di episodi di jazz, non solo alcuni episodi; e poi, naturalmente, perchè lui effettivamente riesce a fondere ottimamente i due elementi -al contrario di quello che è invece avvenuto per Jazzmatazz 4.
Detto questo, arriviamo al disco vero e proprio partendo dal motore di tutta l'operazione, e cioè J Rawls. Descriverlo come produttore non è facile, ma si potrebbe cominciare col dire che i suoi riferimenti sono ovvi: oltre ai classici Pete Rock e (tirato tirato Premier), ci sono senz'altro Ali Shaheed Muhammad, Jazzy Jeff e l'Hi-Tek dei Mood (infatti, Brown Skin Lady di Mos Def e Kweli è sua). Per il resto, per quanto non si possa definire un innovatore stilistico, non penso che ci siano molti altri dai quali possa aver adottato particolari elementi. Adesso, dopo aver dato una prima illuminata a quello che l'ignaro ascoltatore può aspettarsi da questo album, passo direttamente ad elencare i tratti caratteristici della sua arte compositoria: il jazz che preferisce naviga senz'altro tra il cool e la fusion, senza naturalmente disdegnare qualche excursus nei suoni più classici ed il swing (e, si capisce, il soul non manca). I loop sono spesso brevi e ripetuti ad libitum senza grandi variazioni o effetti speciali, per cui non vi aspettate grandi assoli di sax o chissà che altro. L'unico elemento che va ad aggiungersi a questi, oltre naturalmente all'MC di turno, sono le batterie, le quali variano parecchio nella programmazione (un po' meno dei suoni) e si contraddistinguono per avere un suono molto pulito e distinto, che le fa risaltare sia rispetto al campione che alle linee di basso. Un approccio classico ma realizzato molto bene, che ne decreta la bontà specie se si considera il fatto che probabilmente il mixaggio non è stato fatto ai Quad Studios. Riassumendo, quindi, nel momento in cui dovesse piacere l'idea di base, sarà difficile restare delusi dal lavoro svolto da Rawls e nemmeno lo si potrà accusare di incapacità, vuoi anche solo occasionale.
Questo non vuol dire che non vi siano tracce più ispirate rispetto ad altre, purtroppo, ed alle volte si nota se il pezzo è stato messo insieme col pilota automatico innestato: è il caso della premierosa Check the Clock, della banalotta Far Away o della monotona Elegy. Al contrario, quando Rawls si mette di buona lena, possono uscire cose pregiate come Superhero (semplicissima ma con un loop di basso e delle batterie ineccepibili), le evocative Birds Of A Feather e Meniscus, oppure ancora le ottime Cold Turkey e Nommo -senza contare la double-threat Blue#2, presentata sia come pezzo vero e proprio che come strumentale "modificata" dall'aggiunta di una linea di sax a cura di Charles Cooper (ammetto che secondo me quest'ultima fa un po' tanto musica da soft porno anni '90, ma glissiamo).
Naturalmente, a decretare il successo (o l'insuccesso) di una specifica traccia ci pensa in buona parte l'MC, e questo vale naturalmente anche qui. Comincio col dire che la scelta degli ospiti, per quanto un po' scontata, in ultima analisi funziona. Vincono e convincono i Mass Influence, il P.I.C. J Sands, il sempre affidabile J-Live (peccato però per il beat, non dei migliori), Home Skill (o Homeskillit, mai capito), Asheru e, infine, DoseOne. Chi invece andrebbe abbattutto a martellate sulle corde vocali è Rubix (uno stile isterico a metà tra Scatman John e l'omino coi baffi delle Micromachines che parlava veloce -pessimo); Capital D noiosetto; Grap Luva viene schiacciato dal beat; e, infine, J Rawls stesso, che rappa come se fossimo nell'86 riuscendo ad imitare le parti più fastidiose dello stile di Slick Rick -cantilenare ogni singola parola- pur scegliendo di usare una metrica cialtrona che francamente faccio fatica a definire. Ecco, se proprio un pezzo de mmerda in questo disco esiste, è senz'altro la sua genuinamente raccapricciante They Can't See Me, nella quale -non pago della sua miserabile prestazione di cui spra- oltretutto ha anche l'ardire di chiamare un po' di gente per delle "additional vocals" delle quali francamente si poteva fare a meno.
Volendo giungere alle conclusioni, posso dire che i cinque zainetti non se li merita innanzitutto per via della sopracitata formidabile cacata ma poi perchè, in fondo, non "innova" nulla ma si limita a fare un generalmente ottimo lavoro. Poco male, direte voi, restano i quattro e mezzo. Ennò, perchè le prestazioni degli MC sono generalmente buone ma in quanto a tematiche siamo un po' leggerini o quantomeno inconsistenti. Last but not least, i beat sono belli ma non siamo all'omogeneità di ficaggine assoluta che hanno altri dischi: senza voler scomodare i classici, basti dire che il disco di Pete Rock e gli InI questo se lo magna come e quando vuole. Pertanto, per quanto incominci a stancarmi di distribuire quattro zainetti come se fossero caramlle di fronte ad un asilo belga, il giudizio non può che essere questo: un gran bel disco che però non solo non innova, ma nemmeno è perfetto nel suo genere.




VIDEO: GREAT LIVE CAPER

PUBLIC ENEMY - HOW TO SELL SOUL TO A SOULLESS PEOPLE WHO SOLD THEIR SOUL??? (SlamJamz, 2007)

sabato 3 maggio 2008

Per quanto non possa certo dire di aver vissuto in prima persona l'enorme impatto che i Public Enemy ebbero tra l'88 ed il '91, fortunatamente ho fatto in tempo a recuperare in tempo reale Muse Sick 'N' Hour Mess Age e, quindi, a poter testimoniare quello che è stato il loro canto del cigno, quantomeno per quel che concerne la rilevanza mediatica. Negli anni seguiti a quel disco confesso di non aver prestato loro grande attenzione, preferendo recuperare i loro classici e lasciando invece stare uscite discutibili come There's A Poison Goin' On o He Got Game, che mi sapevano tirate via alla bell'e meglio. E certo non posso dire che Revolverlution mi avesse fatto cambiare idea.
Ma dal 2005 ad oggi, ad eccezion fatta del disco con Paris, sarebbe ingeneroso non riconoscere ai PE un riassestamento della rotta encomiabile: New Whirl Odor, Beats And Places ed infine questo How You Sell Soul To A Soulless People Who Sold Their Soul sono tutti discreti dischi che, pur peccando di tracce-riempitivo a profusione, contengono alcune gran belle cose. Ecco, l'ho detto: dischi discreti, e non i capolavori che molti ancora si aspettano. Questa è una pecca che molti fan entusiasti non permettono a Chuck D e soci; vorrebbero che qualsiasi loro nuova uscita si avvicinasse a Apocalypse 91, Nation Of Millions o Black Planet, scordandosi però che qui gli si sta chiedendo di bissare dei classici, dei quali uno si può considerare, forse, l'album storicamente più rilevante della storia dell'hip hop oltrechè uno dei tre dischi migliori di sempre. Queste richieste sono -salvo miracoli- impossibili da soddisfare per un gruppo che ha alle spalle 20 anni di carriera ed il cui leader, a 48 anni suonati, per semplice questione di maturazione non può ricalacre i passi della sua gioventù. Per cui, a queste persone posso solamente consigliare di mettersi l'anima in pace e godersi quel che c'è di buono in questi album, aspettando magari che qualche buonanima decida di fare una sorta di sunto della discografia dei PE dal '99 ad oggi.
In attesa che ciò avvenga, arriviamo a parlare di questo disco cominciando dalle note negative: se io non ho mai sopportato più di tanto Flavor Flav, dopo questo Soulless People (abbreviazione coniata ora) quasi mi viene da augurargli un'afonia cronica che lo costringa a stare lontano dal microfono sine die. Perchè va bene che l'autobiografica Bridge Of Pain è un bel pezzo, ma le restanti due tracce soliste -Flavor Man e Col Leepin'- sono delle vere e proprie tragedie (la prima meno per via del beat, ma la seconda è inascoltabile). Come seconda cosa, pur riconoscendo di non essere mai stato un grande supporter dell'ibridazione tra rock e rap e filtrando quindi adeguatamente i miei giudizi in merito, Frankenstar e Black Is Back sono davvero durette da digerire. Concedo tuttavia le attenuanti generiche a quest'ultima principalmente per via del suono molto Rick-Rubinesco del beat, che concede l'opzione interpretativa di autocitazione/autoomaggio e che perciò potrebbe farle guadagnare qualche punto; ma da qui a dire che mi faccia piacere ascoltarla ne passa. In ordine sparso, poi, abbiamo: Eve Of Destruction che risulta semplicemente incircolabile; Sex Drugs & Violence che viene massacrata da un ritornello che definire "orribile" corrisponderebbe a dire che Jenna Jameson è "sponanea"; Amerikan Gangster che soffre di un beat un po' troppo à la Scott Storch per poter risultare consono al gruppo, e questo senza contare il featuring di un incapace; infine, The Enemy Battle Hymn Of The Public che ospita delle zoccolette che canticchiano il ritornello manco fosse un pezzo qualsiasi dei P.M. Dawn.
Bene. Scaricato che ho il caricatore contro i tanti difetti di questo disco, passiamo alle note positive. Tanto per cominciare, i testi sono TUTTI -quale più e quale meno- di elevata qualità. I contenuti riescono a suonare incisivi anche se non è certo la prima volta che vengono affrontati da un Chuck D che, vorrei ricordarlo, ha una delle voci più belle di sempre ed il cui stile non risulta mai troppo antiquato né forzatamente ggiovane. In particolare, il riassunto che fa della sua carriera musicale in Long And Whining Road è eccezionale e per forza di cose non scontato. In secondo luogo, le apparizioni di KRS One al microfono e Redman al campionatore sono straordinarie. Nel primo caso, KRS sgancia una strofa di quelle che non si sentivano più da tempo (e per una volta tanto, senza usare le sue cazzo di routine che consistono nel far finire tutti i versi con la stessa parola); nel secondo, Red regala a Chuck un beat che farebbe felice Erick Sermon e Premier insieme. Questa Can You Hear me Now, che mette insieme un ottimo beat ad un Chuck D al pieno della sua forma, risulta così una delle due tracce migliori dell'album. La seconda è invece Escapism, che sprizza funk da tutti i pori e non stonerebbe se inserita in una scena di film dove un niggu con la testa a fungo gira per New York sconfiggendo il male e proteggendo la sua gente (il breve assolo di sax a metà pezzo le conferisce ulteriore capacità evocativa e classe). Infine, devo dire che tutto sommato G-Wiz, quando è in buona, riesce a confezionare beat che riescono a cavalcare benissimo la sottile linea che divide il classico dallo scontato, evitando così di cadere nel tranello che lo vorrebbe solo a ricrerae i suoni dei PE più classici o, dall'altra parte, di abbandonarli del tutto. In più, la varietà delle atmosfere fortunatamente c'è e, se proprio devo trovare una nota negativa in questo, è che nel passaggio dalla fase più "pestona" (cfr. la title track, Harder Than You Think oppure Can You Hear Me Now) a quella più rilassata (See Something, Say Something o Long And Whining Road) verso la metà del disco ci si perde un po' -non a caso, i punti deboli dell'opera sono tutti più o meno concentrati lì.
Ma in fin dei conti, come ho detto, non si può pretendere la perfezione. Quello che piacerebbe a chiunque, credo, sarebbe vedere finalmente un album dei Public Enemy con meno Flavor Flav e magari qualche produttore in più, magari proprio di quelli che dalla Bomb Squad hanno in un certo qual modo ereditato l'estetica: El-P è il primo nome che viene in mente, ma ci sono anche certe cose di Black Milk o di Dilla che potrebbero funzionare benissimo. Nella vana attesa che questo sogno si realizzi, possiamo "accontentarci" di quello di buono che uno storico gruppo come questo è riuscito, anche stavolta, a confezionare.
(Nota simpatica: alla fine di Black Is Back, si sente chiaramente Jovanotti dire: "Public Enemy, in the houfe! Graaandi, graaandiffimi!". Chissà da quale tour è stato preso...)




VIDEO: HARDER THAN YOU THINK