J-LIVE - THEN WHAT HAPPENED? (BBE, 2008)

lunedì 9 giugno 2008

Persino per un genio come alle volte è dura non ripetersi, specialmente quando mi trovo a parlare dello stesso artista in un lasso di tempo molto breve. Ma la tentazione di autocitarmi è troppo forte, e del resto mi da il "la" per partire con la recensione vera e propria: parlando di All Of The Above, che riprende la copertina di Blue Train di Coltrane, avevo detto che il paragone tra i due artisti poteva reggere in quanto nessuno di questi due dischi ha comportato una svolta decisiva nel loro modo di fare musica. Anticipavo inoltre che J-Live il suo Giant Steps lo deve ancora comporre, e che di certo non è rappresentato dai suoi lavori successivi -incluso Then What Happened.
Un disco, questo, che avevo già scaricato come leakato (unica differenza: la scaletta dei pezzi) e che, a partire dal terzo ascolto, non vedevo l'ora di comprare, recensire e "pubblicizzare". Ora che il momento è giunto, alcuni puerili entusiasmi si sono spenti, ma la generale soddisfazione è rimasta ed anzi si è vieppiù rafforzata di ascolto in ascolto. Proseguendo nella sua letterale evoluzione, con Then What Happened Live crea il suo disco più bilanciato e complessivamente più soddisfacente e fruibile, riuscendo a scrollarsi di dosso gli errori di The Hear After ed eguagliando il suo capolavoro, All Of The Above. Lo dico subito: il prezzo da pagare è una minor complessità concettuale ed anche una minore varietà, ma la contropartita sta nel fatto che la media dei beat è qualitativamente superiore, che il disco è più sintetico e che nell'insieme il tutto fila via con maggior scioltezza.
Tuttavia, la formula è grossomodo la stessa: un sano boombap vecchia maniera con testi riflessivi espressi tramite liriche ricercate che ancora s'appigliano al caro vecchio concetto di stile. Pure, già solo con la introduttiva One To 31, metà rappata e metà discorsiva, le prime differenze si fanno notare: primo, Live ha un tono più caustico e deciso; secondo, il beat è più "moderno", meno legato ai fasti dei vari Ali Shaheed Muhammad e compagnia bella. Nella fattispecie, Jazzy Jeff prende tutta una serie di fiati (tromba e trombone) che renderebbero orgoglioso Pete Rock, ci aggiunge un brevissimo campione di synth e poi lascia che sia il tiro delle batterie a fare il resto. Un minimalismo che non sembra tale, sul quale Live fa un po' il punto della sua situazione personale sia sfruttando il concetto di dialogo/intervista, sia esprimendosi in maniera più nettamente autobiografica. È interessante notare come i due approcci si fondano bene e come il passaggio dall'uno all'altro non risulti forzato, e come persino gli scratch (curati da Live stesso) non risultino fuori luogo; personalmente avrei preferito più emceeing, ma non si può avere tutto dalla vita. Non dovrebbe comunque stupire tanto la brutale onestà -da sempre caratteristica del Nostro- quanto l'amarezza che trapela da certe affermazioni, come quando, alla domanda su quanti dischi ha venduto nella sua carriera, risponde seccamente "approximately 100,000" (!) -come lo stesso autore scrive nel booklet, quello passato non dev'esser stato un buon anno.
Si prosegue sullo stesso piano con Be No Slave, nella quale il discorso si fa più specifico e si va a toccare il sempre frustrante argomento del fare un lavoro che non ripaga economicamente degli sforzi e della passione riversativi. Fortunatamente, per quanto il tema sia pericolosamente tangente alla cerchia del playahating più intenso, che sovente si traduce in un misto di autocommiserazione e training autogeno, Live se la gioca con maggiore sobrietà e senso di responsabilità -dicendo, sostanzialmente, che si tratta di una scelta le cui conseguenze dipendono unicamente da lui (e, permettetemi, sono pochi a fare così). Dal canto suo, Evil Dee si mette al campionatore e crea una bella commistione tra un potentissimo giro di basso ed una batteria limitata a pochi colpi di cassa ed un fruscio di charleston, sul quale va ad appoggiarsi un bel sample vocale femminile che da quel tocco finale di blaxpoitation al tutto.
Atmosfera che prosegue nella lunga (quasi sei minuti!) ma assolutamente godibile The Upgrade, dove un ispirato Oddissee si lascia andare su un 4/4 piuttosto veloce retto da campioni soul tra cui l'immancabile vocale, lasciato "scorrere" in chiusura di misura e tagliato e ripetuto nel resto -un po' à la 9th Wonder, per intenderci. Tendenzialmente, questa è una tecnica che mi ha stufato già da un pezzo e che ormai reputo priva di qualsivoglia motivo di interesse, eppure qua il risultato è piacevole e, soprattutto, l'assolo finale di tromba di Rashawn Ross (che ho scoperto avere un curriculum di tutto rispetto) conferisce una tocco di classe al pezzo. Per di più, l'aggiunta al microfono del "mentore" Posdnuous e dello stesso Oddissee interrompe piacevolmente il flusso di rime di Live (ma al contempo mostra con tutta la chiarezza di questo mondo quanto quest'ultimo ricordi stilisticamente Pos). Ancora migliore è però It Don't Stop (chi campiona il suono dello xilofono con me ha già vinto a mani basse), ed anche il ritorno al suono più prettamente nativetonguesiano di The Understanding arriva giusto in tempo per imprimere una svolta al suono di Then What Happened e per prepararci ad uno dei suoi migliori pezzi, The Last Third (in odore dell'Ali Shaheed Muhammad di Low End Theory), nella quale J narra della separazione/divorzio tra lui e sua moglie. Nulla di particolarmente allegro, insomma; ma ci pensa la messicaneggiante Olé -titolo del cazzo tizianoferresco- a tirar su gli umori, e per una volta tanto lo storytelling del Nostro si tuffa nel cazzeggio più spensierato (ispirato in questo dalle chitarre).
Purtroppo, però, What You Holdin' comincia ad incasinare le cose. Infatti, l'idea di sperimentare una rappata su un 6/8 si scontra non tanto col tempo stesso -che comunque non ritengo idoneo per canzoni più lunghe di due minuti- quanto con la ripetitività del campione e con lo stile forzatamente spezzato della dizione Live; tutti elementi, questi, che sparsi su quattro minuti e mezzo fanno scendere i coglioni all'altezza delle suole delle scarpe. Poi posso anche immaginare che ci sarà chi apprezza la sperimentazione in quanto tale e che dirà "eh, ma è voluto", ma oltre a non essere una giustificazione di per sè, il problema è che s'è voluta una stronzata. Discorso analogo si potrebbe fare per Simmer Down, dove, nuovamente, la dizione si lega troppo al pur gradevole beat e ciò che ne risulta è una mezza mattonata; ma stavolta la cosa non si può spiegare con una forzatura data dal tempo, e quindi risulta ancora più diffficile comprendere come un artista simile abbia potuto optare per una scelta così bizzarra e, in ultima analisi, infelice.
Ma le brutte sorprese finiscono qui: le restanti quattro tracce riportano il disco ad un livello alto e, per quanto uno potrà sempre trovarci qualche motivo di critica (Ooo Wee e We Are un po' scontate, You Out There con un Nicolay valido ma non al top) non si può in nessun modo parlare di materiale skippabile.
Giunti al termine d questa recensione-bibbia, avrete già potuto indovinare che questa è per me una delle migliori uscite di quest'anno. in tutta franchezza, reputerei deplorevole non aggiungere Then What Happened alla propria collezione; a maggior ragione se si apprezza Live come liricista, che imprimendo piccole svolte riesce a non risultare Né ripetitivo né a corto d'idee. Se invece dovesse essere la prima volta che v'imbattete nel Nostro, la scelta tra All Of The Above e questo spetta a voi; personalmente, ripeto, pongo ambedue gli album sullo stesso livello, pur trovando Then What Happened forse meno "completo" ma senz'altro più digeribile.



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