BEANIE SIGEL - THE B.COMING (Roc-A-Fella, 2005)

martedì 25 agosto 2009

Nel corso della mia breve vacanza ammetto di non aver ascoltato molto rap, né di averlo seguito un granché tout court; un po' perché i dischi portati dietro li conoscevo fin troppo bene ma soprattutto perchè non è che ci fosse nulla per cui valesse la pena di eccitarsi più dello stretto necessario. In compenso mi sono fatto una (non richiesta) pera di Snoop, dato che l'amico col quale son andato a fare un paio di escursioni in montagna aveva in heavy rotation nientemeno che Rhythm & Gangsta, forse la sua opera ufficiale più brutta di sempre ma che, contrariamente a quanto fosse oggettivamente lecito aspettarsi, non solo non gli ha stroncato la carriera ma gli ha pure fatto vendere uno spataffio di copie.
Ma non c'è da stupirsi: quell'album riassume grossomodo tutti i motivi per cui la roba mainstream -anche se fatta da chi un tot di bravura ce l'ha- mi risulta indigesta: beat raccolti con lo spazzolone da chiunque sia considerato "in" al momento, ospiti gestiti con la stessa logica, contenuti più che scialbi ulteriormente annacquati da ritornelli cantati dal cretino di turno ed una generale impressione di inconsistenza che grida vendetta al cielo. Chiaro che venda. Ma, soprattutto, è la pigrizia che in casi simili mi da più sui nervi: così è troppo facile, troppo prevedibile, mentre a volersi impegnare si possono ottenere gli stessi risultati in termini di vendite e magari finire pure col creare un album che a torto o a ragione entra nella storia della musica o del genere musicale. Esempio classico: The Blueprint.
Ebbene, per quanto The B.Coming non sia qualitativamente all'altezza della sopracitata opera, ad esso va riconosciuto il merito di muoversi grossomodo sugli stessi binari, sia come ambizioni che come struttura vera e propria. Esso è infatti un lavoro che fotografa l'artista in una fase di maturità e di relativo successo e ciò gli consente di apparire più riflessivo pur senza abbandonare gli argomenti che l'avevano contraddistinto fino a quel momento; in secondo luogo, l'accompagnamento musicale riflette quest'aspetto e benché non si rinunci ad invitare più produttori in una sola volta, esso riesce a mantenere un sound sorprendentemente coeso; last but not least, il protagonista si trova qui nella forma più smagliante possibile (e prima di pensare che ciò sia ovvio pensate anche solo a Nas). Quanto alle differenze, invece, sono poche ma sostanziali: la prima è l'abbondanza di ospiti (15 circa) e la seconda una scaletta meno azzeccata. Stop. Per il resto, come dicevo, Blueprint e B.Coming sono due gemelli dizigoti e per quanto il secondo faccia un po' la figura dello scrondo rispetto al primo non si può negarne il valore oggettivo.
Valore che gli viene conferito innanzitutto da Beanie, che stavolta riesce finalmente ad equilibrare la sua innegabile vena ghettusa con sobrietà e riflessività assolutamente inaspettate; e se a ciò vogliamo aggiungere una scrittura enormemente evolutasi dai tempi di The Truth, unita ad una metrica a sua volta fattasi più complessa, ecco che non trovo del tutto fuori luogo associare l'MC di Philadelphia a Cormega, con il quale condivide una prospettiva matura su temi e argomenti troppo spesso affrontati primitivamente sotto ogni punto di vista. Il quasi-storytelling di Feel It In The Air vede la sua perfetta sponda nel braggadocio di Don't Stop, mentre la para-misoginia di Bread & Butter viene presentata con una vena di leggerezza che non rende impossibile credere che sia lo stesso Beanie capace di scrivere strofe come quelle di Change o Lord Have Mercy: "Pressure bust pipes, pressure can also make a diamond/ Pressure can bust a man wrestling with his conscience/ His self-accusing spirit of his past, but I know Allah's mercy is greater than his wrath". E se a una cosa servono i molti ospiti, questa è il dimostrare che Beans riesce a reggere benissimo il confronto: giunti alla fine del disco ci si rende infatti conto che eccetto Jay-Z non v'è stato nessuno capace di dare la paga al Nostro (fatto salvo Redman, favorito però dal beat), che grazie anche solo alla voce baritonale esige (e ottiene) attenzione praticamente sempre.
Il problema degli ospiti è casomai l'opposto: viste le prestazioni di Beans ci si chiede se davvero ci fosse bisogno delle numerose incursioni di Peedi Crakk, Young Chris o Oschino & Sparks (?!?), e la risposta è, più che un secco "no", "va bene ma un po' meno spesso". I Can't Go On This Way ad esempio va benissimo così com'è, mentre Oh Daddy avrebbe retto benissimo anche senza la presenza di Young Chris; per converso, Flatline avrebbe funzionato meglio come posse cut, e via dicendo. Oltretutto, il fatto di avere così tanti featuring crea qualche problema anche sul piano tematico: si passa dallo struggimento all'egotrippin', dall'ode al sizzurp alla ghettuseria più pura eccetera eccetera, e questo più che altro per mettere l'ospite di turno a suo agio, nella sua comfort zone. Il che può anche andar bene, volendo, ma appunto alla fine crea un po' di superflua confusione nel momento in cui il tracklisting è tale da imporre continui sbalzi.
Ma quest'osservazione può essere fatta solo dopo ripetuti ascolti, in quanto inizialmente tutto scorre più che liscio. Merito, questo, dei beat, che in buona parte si rifanno alla scuola del campionamento soul più puro. Aspettatevi quindi molti archi, qualche fiato e l'immancabile sample vocale lievemente accelerato. In tal senso fa sempre piacere risentire i Dramatics (Purple Rain) o Johnny Watson (Bread & Butter), specialmente se ad essi vengono accostati pezzi di estrazione diversa che quindi rendono l'insieme più variegato. Vedi ad esempio i Neptunes, che assieme al precedentemente citato Snoop funzionano assai bene in Don't Stop (così bene che sembra più un pezzo di Snoop che con Snoop), oppure Bink, che si dimostra capace di produrre un beat dal tiro veloce perfetto per l'ospitata di Redman; e questo senza contare gli ottimi contributi di Buckwild, Just Blaze e Deric "D.Dot" Angelettie. Uniche note stonate sono la tremenda Gotta Have It -francamente inascoltabile, Flatline (più che altro banalotta) e infine Wanted, la quale campiona l'omonimo pezzo dei Bon Jovi e, onestamente, mi pare un po' troppo.
Ma anche con questi piccoli difetti ci troviamo in mano un album del tutto solido, dotato di capo e coda e sorretto da liriche e beat di indiscutibile qualità. È, in altre parole, uno di quei pochi dischi capaci di fare da ponte tra aficionados dell'underground e mainstream, ma, soprattutto, è eccellente -punto- e merita senz'altro di essere acquistato da chiunque si reputi appassionato di questa musica.




VIDEO: FEEL IT IN THE AIR
Beanie Sigel - Feel It In The Air

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