CANNIBAL OX - THE COLD VEIN (Def Jux, 2001)

venerdì 13 novembre 2009

Trasporre la nozione di polarità dalla chimica in altri contesti è una tentazione alla quale molti non sanno resistere, dato che così facendo non solo si spera di spiegare la coesistenza nello stesso ambito di diverse anime apparentemente inconciliabili tra loro, ma spesso si può poi sfruttare questo apparente stato delle cose per giungere a conclusioni pratiche tendenti a migliorare proprio quest'ultimo. Inutile dirlo, ma questa pratica fa acqua da tutte le parti in qualsiasi situazione e da qualsiasi punto la si voglia osservare: prima ancora che nella pratica, nella logica. Essa difatti presuppone una reazione causa-effetto che non sempre c'è e, soprattutto, dà connotazioni ai due diversi poli che dovrebbero avere lo scopo di influenzare il giudizio di terzi. Gli esempi si sprecano: nella politica prima che in altri settori (penso all'abuso della teoria degli opposti estremismi o, più recentemente, all'autoesegesi dei cosid. «terzisti» del CorSera), ma anche nel cinema (chi giustifica l'esistenza di Boldi e De Sica jr. dicendo che sono l'inversione speculare dei film di Antonioni) e nella musica.
Avvicinandoci al succo della recensione, entro nel dettaglio parlando di come nel rap l'utilizzo -inconsapevole o meno, è irrilevante- di questa logica fallace sia da un lato uno dei motivi principali per l'esistenza e la crescita negli ultimi 15 anni di autentiche ciofeche, e dall'altro la causa di una mancanza di discernimento da parte degli utilizzatori finali (chiamiamoli così). Quante volte infatti abbiamo letto dichiarazioni dell'artista X in cui esso ci spiegava tuttto gongolante che il suo è "an album made for everyone. You got the party joints, the introspective gems and that street shit", come a dire che in medio stat virtus; poi, puntualmente, all'uscita dell'opera in questione il tutto si rivelava essere una mediocre merdina incapace di distinguersi dal marasma di uscite analoghe. Insomma, non è un caso se l'ultimo disco capace di fondere efficacemente questi diversi aspetti sia stato forse Capital Punishment, no? Ma, peggio ancora, questa impostazione ha avuto per troppo tempo influssi devastanti sui gusti del pubblico, che tra il '98 ed oggi è riuscito a sorbirsi puttanate stratosferiche come l'80% della roba targata Ruff Ryders, le ultime creazioni di Busta Rhymes ma soprattutto gli aborti di Fat Joe. Tutto materiale privo di spina dorsale e fondamentalmente definibile come «indecenti paraculate» che sarebbe da spernacchiare con cori di rutti e controcanti di scorregge, se non fosse che così facendo li si darebbe un'ultima chance di essere ricordati.
A restare nella memoria, invece, oltre a veri e propri fenomeni di costume come è stato Get Rich Or Die Tryin', sono -pensa un po'- album dotati di un'identità e di un target ben precisi, oltre naturalmente ad una qualità superiore alla norma. Nel 2001 abbiamo avuto due di questi esempi: The Blueprint da un lato, e The Cold Vein dall'altro. Ma dei due, quello che forse può dirsi di maggiore impatto (sempre considerando i rispettivi ambiti, si capisce) è stato quest'ultimo: più che Funcrusher Plus è stato l'esordio dei Cannibal Ox a rendere rilevante qualsiasi lavoro di El-P e a cementare la sua fama di beatmaker d'eccezione, senza contare il fatto che, speculando un po' ma nemmeno troppo, Cold Vein ha messo in evidenza la Def Jux tutta come fucina di talenti e guida di quello che viene definito abstract hip hop. Inutile in quest'occasione dibattere sul valore di questi termini, diciamo semplicemente che Cold Vein sta alla Def Jux e al rap underground come Radio sta alla Def Jam degli esordi. I motivi? Ce ne sono a bizzeffe.
Il primo è che se questo disco viene spesso paragonato a Enter The Wu (nientemeno!) ciò si deve innanzitutto alla produzione. I beat di El-P si possono immediatamente identificare come lo-fi, per quanto in realtà essi siano sovente costruiti da complessi strati di suoni tagliati e reincollati in maniera peraltro inusuale e fresca. Le batterie, soprattutto, pur conservando l'impatto sonoro di un Large Professor spesso vengono arricchite da distorsioni e flange di vario genere, senza contare riverberi metallici ed il frequente utilizzo dei soli cassa e rullante. Ad essi poi si aggiungono a seconda dei casi singole note di synth, brevi campioni raramente riconoscibili (cfr. Love & Happiness di Al Green) o quasi completamente ignoti al pubblico tipo dell'hip hop (Philip Glass, ad esempio), oppure veri e propri crepitii o interferenze date da elettricità statica. Un sound alienante, insomma, capace di proiettare l'ascoltatore all'interno di scenografie fino al 2001 pressoché sconosciute. Questa sommaria descrizione può chiudersi poi con un breve commento alle atmosfere: urbane, cupe, deprimenti e fredde come in ambito visivo solo Blade Runner di Ridley Scott ha saputo proporre: un parallelismo inflazionato, certo, ma ciò nondimeno il più azzeccato che vi sia per il lavoro svolto da El-P per Cold Vein.
Ora, dev'essere chiaro che però nel corso delle quindici tracce che compongono quest'opera vi sono diversi livelli in cui le caratteristiche di cui sopra vengono declinate: Ox Out the Cage, Straight Off The D.I.C., B-Boys Alpha e The F-Word sono quelle più vicine agli standard tradizionali; Battle For Asgard, Atom, Ridiculoid e Scream Phoenix si distanziano invece già di più dagli stilemi più classici; e, infine, Raspberry Fields, Real Earth o Pigeon risultano le più sperimentali dell'insieme, con pattern di batteria imprevedibili ed un uso dei sample e dei suoni impossibile da imitare -almeno all'epoca. Cold Vein ha quindi più possibilità di lettura e di certo non basta un ascolto per coglierne tutte le sfumature; al contrario, per riuscire ad apprezzarlo nelle sue sonorità gli ascolti devono essere ripetuti, e senza sforzo ma solo con esperienza si potranno apprezzare aspetti inizialmente apparsi magari come cacofonici.
[Apro una parentesi: devo fare un mea culpa: all'inizio Cold Vein mi faceva cagare. Ma di brutto, eh. Se da un lato questo era dovuto a un fraintendimento del senso dell'accostamento a 36 Chambers, dall'altro era semplicemente perchè ero ancora troppo legato all'ortodossia. Mi ricordo i primi tentativi d'ascolto, culminati appunto in un'enorme incazzatura per dei soldi che pensavo di avere buttato nel cesso e, tanto per non sbagliare, in macumbe e maledizioni varie volte contro chi ne aveva parlato in termini così entusiasti (Damir sul primo Groove, mi pare di ricordare). C'è voluto un ascolto casuale di Straight Off The D.I.C. qualche anno dopo, tipo nel 2003 o il 2004, per farmi riscoprire un disco che semplicemente richiede una certa esperienza d'ascolto che nel 2001 semplicemente non avevo. Che nessuno pensi che io sia stato così dritto da comprendere la portata di Cold Vein in tempo reale, ebbene sì, sono un fesso. Chiusa la parentesi.]
Tornando all'album, invece, è evidente ma non trascurabile l'apporto che Vordul e Vast Aire danno alle atmosfere di El-P. Innanzitutto perchè -e qui si ripropone il parallelismo Can Ox/Wu- quest'opera è piena fino all'orlo di versi memorabili capaci di farti dire "questi due sanno davvero quello che fanno". Il viaggio del duo nei meandri più bui di New York, argomento che permea pressoché ogni traccia di Cold Vein, è scandito da autentici colpi di genio come questi: "Mother didn't want you, but you were still born/ Boy meets world, of course his pops is gone/ What you figure, that chalky outline on the ground is a father figure"; "My first fight was me against five boroughs"; "Birds of the same feather flock together, congested on a majestic street corner/ That's a short time goal for most of 'em 'cause most of 'em/ Would rather expand their wings and hover over greater things". E mi fermo qui. Devo poi far notare che tutte queste citazioni sono di Vast, che del duo è indubbiamente il più riconoscibile e quello dotato della penna più immaginifica, ma è anche colui più proteso a salti logici apparentemente casuali; ed è qui che entra in gioco Vordul. Il suo stile più diretto e la narrazione più lineare (o terra-terra, se vogliamo) è un buon contrappeso ai viaggioni di Vast, e contrariamente a quel che sarebbe avvenuto nel suo disco da solista, la sua concretezza qua si fa apprezzare non poco.
Ma New York on è l'unico tema trattato, va detto: per quanto affrontato in maniera affascinante, da solo sarebbe un po' poco e così, oltre all'inevitabile autoesaltazione -vedi alle voci Battle For Asgard e Atom- vi sono in particolare due canzoni che risaltano: A B-Boys Alpha (che si collega per certi versi a Stress Rap) e The F Word. La prima (ed il suo collegamento) tratta sostanzialmente delle loro biografie e di come il reps abbia contribuito a tenerli lontani dai delirii della vita quotidiana in posti allegri come dovevano essere i ghetti negli anni '80; un tema già affrontato da altri in passato ma che qui, grazie all'esecuzione, funziona a prescindere da una relativa "obsolescenza". Il secondo brano, invece, è quello che più ha colpito l'immaginario collettivo e, detta molto brutalmente, si tratta di una versione per adulti della Regola Dell'Amico degli 883. Mi rendo conto che detta così vien da ridere, ma provate a fare uno sforzo d'immaginazione e concepite il testo come uno storytelling il cui di per sè vacuo contenuto guadagna in valore grazie alla scrittura; per dire, frasi come "she was in a love triangle, but it wasn't like my feelings weren't there to make it a square" Max Pezzali non le scrive mica. Liricamente, quindi, forse non c'è tutta la freschezza portata da El-P ma è fuor di dubbio che certe cose fino a quel momento non s'erano sentite, e per una volta tanto i voli pindarici ed i riferimenti oscuri in cui i due si lasciano andare non risultano ridondanti e/o fini a sè stessi.
In conclusione, l'unica cosa che si può fare è verificare se si tratti di un classico o meno; perchè che sia un discone coi controcazzi è fuor di discussione. E qui io sono francamente indeciso; propendo per il sì (il perchè dovrebbe essere chiaro), ma d'altro canto ci sono due difetti fondamentali che però mi disturbano -nel senso che altri classici ne sono privi- e cioè che lo trovo comunque un po' pesante e che due canzoni (Ridiculoid e Raspberry Fields) mi risultano indigeste. Tuttavia, mi rendo anche conto che si tratta di aspetti estremamente soggettivi, per cui io magari gli darei quattro e mezzo ma in nome dell'oggettività (e del quieto vivere) gli sparo un ricco cinque.




VIDEO: PAIN KILLERS

5 commenti:

Anonymous ha detto...

ancora non mi capacito del 4 e mezzo invece ke 5 a dah shinin'

RARASHIXXX

Anonymous ha detto...

proprio non capisco ke cazzo voglia dire la prima parte di recensione

Anonymous ha detto...

studia e lo capirai.

Anonymous ha detto...

Ricordo il live che venne fatto al Tunnel di Milano, se non sbaglio nel dicembre 2001 o poco dopo, i Cannibal Ox assieme a Aesop Rock... poca gente come pubblico, bufera di neve fuori dal locale e città paralizzata... gran rap al tunnel =)

Marty aka Marty Mcfly ha detto...

Ahimè neppure io avevo 16 anni...

Posta un commento