VORDUL MEGA - THE REVOLUTION OF YUNG HAVOKS (Nature Sounds, 2004)

martedì 10 novembre 2009

Se ci sono discorsi che non ho mai voglia di affrontare questi sono le interminabili discussioni su quelli che possono essere definiti dei classici o, per meglio dire, quelle kilometriche disquisizioni sul valore di un album che si trova esattamente al confine tra le definizioni di «ottimo» e, appunto, «classico». L'esempio più recente -si fa per dire- della categoria è indubbiamente The Cold Vein dei Can Ox, che reputo musicalmente ottimo ma complessivamente imperfetto, e che però ha innegabilmente avuto un'importanza a livello culturale (nel senso più ampio del termine) tipica appunto di quelle pietre miliari capaci d'imporsi nell'immaginario collettivo come punti di non ritorno. Figuratevi: data questa discrepanza ancora adesso esito a conferirgli un simile status, eppure non posso non tenere conto della sua rilevanza e del posto che occupa nella storia dell'hip hop.
Immaginate quindi l'opinione che può avere di Cold Vein uno che invece fa parte degli adoratori della scuderia Def Jux: ne conosco un paio e posso affermare che quando si parla di quell'album essi abbandonano ogni forma di raziocinio, trasformandosi in idolatri senza ritegno, delle specie di missionari invasati non dissimili dal prete pazzo dell'Armata Brancaleone. Bene: e ora immaginate come possono avere reagito i suddetti fanatici di fronte all'album d'esordio di Vordul Mega, ovverosia la metà meno seguita del duo di Harlem, il Prince Po dei defjukkies: con un orgasmo? No, non credo.
Revolution Of Yung Havoks è infatti molto distante dalle sonorità di Cold Vein, dalle atmosfere che ne derivavano e, non per ultimo, dalla tipologia dei testi. Insomma, c'entra poco o niente anche se ogni tanto si può incontrare un accenno al sound freddo di El-P. È, insomma, un album solista con tutti i pregi ed i difetti che ne possono conseguire, e accostarlo o anche solo rapportarlo al disco dei Can Ox sarebbe un errore. ROYH è infatti molto più vicino all'ortodossia di un certo rap nuiorchese fatto «alla vecchia maniera» che non agli estri delle avanguardie, e men che meno alla tamarraggine di una certa scuola *uhm Dipset uhm* all'epoca molto in auge a Harlem. E se questo sicuramente dispiacerà/sarà dispiaciuto a tanti defjukkies (s'inculino), il vantaggio è consistito nel maggiore potenziale d'attrazione nei confront degli scettici dell'epoca, tra i quali il sottoscritto.
Ora, detta molto onestamente, il disco a me per qualche motivo piace ma oggettivamente non è tutto 'sto gran che. I motivi per cui dico questo sono molteplici e si spartiscono equamente tra emceeing e beat.
Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna innanzitutto dire che Vordul è un discreto rapper ma nulla più: tiene il beat e non s'incarta, va bene, ma la cosa finisce lì; per il resto ha un vocabolario abbastanza limitato, non si presenta come molto forte né nelle metafore, né nelle punchline (e in questo caso includo nella definizione anche le frasi ad effetto), e per giunta ha un timbro vocale ed uno stile ambedue piuttosto monotoni. In più è uno che si ripete spesso: fate conto infatti che per il 90% della sua durata, Revolution Of Yung Havoks tratta della miseria in cui si trovano a vivere i neri nei ghetti e della fatica/speranza che si fa/si ha nell'uscirne. Voi mi direte: ebbeh Chuck D o KRS mica rappavano dei Minipony, no? Giusto: ma per reggere tredici tracce sempre sulla stessa lunghezza donda bisogna per forza essere degli scrittori migliori di quanto non sia Vordul, che invece solo talvolta trova un guizzo di creatività nell'esprimere in maniera originale un'immagine o un pensiero, mentre perlopiù si limita ad un resoconto che -volendo esagerare un po'- sembra un incrocio tra un rapporto di urbanistica e un'inchiesta di quartiere fatta dall'oratorio.
Il suo pregio consiste però nel saper celare in parte questi difetti dietro ad una tecnica abbastanza inconsueta e dalla metrica irregolare; questa è la sua fortuna, perchè così facendo molte cose, che messe in bocca ad un MC più generico sarebbero risultate emblematiche della più gran noia possibile ed immaginabile, risultano digeribili e financo apprezzabili.
Ciò ovviamente avviene con maggior successo laddove a sostenere questo non capacissimo MC c'è un beat fatto come dio comanda, è ovvio: e così non è difficile incappare in tracce nel loro complesso molto piacevoli da sentire o, propriamente dette, fiche tout court. Il chipmunk soul di Neva Again viene saggiamente diluito da batterie quadrate parecchio pesanti e da un bel sample di archi dal taglio drammatico al punto giusto; Spitamatic, invece, presenta loop di piano e tromba tagliati con ottimo gusto e fanno da eccellente colonna sonora per una camminata per le strade di New York. Stay Up, invece, fonde la cupezza dei Can Ox con batterie molto più vicine a Jay-Z che non El-P; Pray invece usa un elegante campione di blues e si presenta come l'archetipo del beat perfetto per Vordul, cosa che viene riproposta poi in minor misura con la minimalista Struggles -che sa di colonna sonora di film della blaxploitation da lontano un miglio- e con la conclusiva Megallah, unica traccia genuinamente autobiografica la cui natura viene efficacemente rispecchiata tramite la produzione. Insomma, come beat non siamo messi male: anche se diversi dalla scuola di El Producto essi sanno fornire il giusto tappeto sonoro per un disco dai contenuti così lugubri.
Purtroppo, però, oltre ad essercene un paio francamente incircolabili -brilla per bruttezza quello di Omega One (Handle That)- ve ne sono molti che in sè e per sè sarebbero più che degni ma che purtroppo non legano né con lo stile di Vordul, né con i contenuti che propone. Blade, per esempio, non stonerebbe su un disco della Roc-A-Fella di qualche anno prima, ma qui appare troppo fracassona per risultare in qualche modo coerente; idem per Believe, su cui vorrei sentire più Jean Grae e meno Vordul; oppure, infine, Hell Yeah, su cui un Cormega farebbe meraviglie mentre con su il nostro si trasforma in una canzone graziosa ma nulla più.
E allora? Allora valutate voi: i difetti del disco (e del MC tout court) ve li ho detti più o meno tutti, mentre per i pregi secondo me un margine di maggior apprezzamento ci può essere, nel senso che forse alcuni di voi s'impipperanno della mancanza d'alchimia tra strumentale e liriche e così apprezzeranno un buon quarto d'album in più. io, ve l'ho già detto, non sono rimasto disgustato da quest'opera, e con un paio di aggiustamenti quà e là lo ascolto anche volentieri; certo, lascia il tempo che trova, ma vuoi anche solo per Neva Again, Spitamatic, Stay Up o Pray io un ascolto glielo darei.



4 commenti:

reiser ha detto...

Eeeh ma sarà mica tutto bello... intendiamoci, sono d'accordo con quello che hai scritto, ma per me quell'album non è perfetto e si perde (relativamente) verso la fine

Anonymous ha detto...

"quell'album non è perfetto e si perde (relativamente) verso la fine"

il discorso è complesso,non penso che si possa definire classico un disco semplicemente perfetto,si può parlare invece di ottimo album con un cd perfetto,ma non necessariamente di classico.
con classico io personalmente intendo quei cd che oggettivamente hanno segnato un punto di svolta o che hanno molto influenzato un periodo o una zona(ti rispedisco l'esempio di hell on earth) ,così penso che anche di cold vein o funcrusher si può parlare di classico.


RARASHIXXX

MAK ha detto...

Daccordo con BRA per la definizione di "classico", poi che The Cold Vein lo sia effettivamente non ne sono ancora convinto al 100%... ...e ad ogni modo preferisco Funcrusher Plus ;)

reiser ha detto...

To' eccovi accontentati

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