KENN STARR - STARR STATUS (Halftooth, 2006)

lunedì 16 febbraio 2009

Con questa recensione voglio riallacciarmi al discorso inerente la prevedibilità artistica di molti tra gli MC che, sia commercialmente che contenutisticamente, sono inversamente speculari ad alcuni dei più disprezzabili nomi del mainstream; e ciò non tanto per ampliare il discorso -che mi pare abbastanza semplice- ma per fornire un esempio di questa mia teoria che non mi faccia scivolare nel rancoroso. Ecco perchè scelgo Kenn Starr: il ragazzo è capace e si è contornato di gente che lo è altrettanto, eppure il risultato finale non risulta pari alla somma delle parti.
La spiegazione di ciò non ha a che fare tanto con una disamina traccia per traccia di Starr Status tutto e con l'individuazione di campioni già usati, cliché ed altro, bensì con una combinazione tra originalità intorno allo zero e reiterazione plurima di concetti espressi in modo solo talvolta interessante. E credetemi se vi dico che su un piano "personale" fare queste affermazioni mi spiace molto, perchè in base a ciò che traspare dai testi il Nostro sembra essere una persona a modo, piuttosto intelligente, riflessiva ed anche sincera. Solo che queste qualità fanno, appunto, una brava persona ma non necessariamente un buon artista e men che meno un buon album (controprova: adoro Cuban Linx ma con Raekwon non ci prenderei nemmeno il caffé). Questo poi non significa che vi siano bei pezzi, naturalmente, ma purtroppo la lunghezza eccessiva e la diluizione di quattro concetti per un'ora di musica risulta esiziale per quanto riguarda il giudizio complessivo su Starr Status.
Cominciamo però dai lati positivi: Kenn Starr è un buon MC. Per quanto vocalmente e tecnicamente ricordi il più bravo Wordsworth -suo compagno d'etichetta, peraltro- non si può sorvolare sul fatto che si sappia muovere con agilità tra vari schemi metrici, mantenendo un'impostazione classica ma elaborandola più e più volte in modo da non risultare monotono. In più, la sua dizione è cristallina (indice di controllo del respiro ottimo) e per quanto abbia un accento piuttosto marcato questo non sarà affatto d'intralcio alla comprensione dei testi persino da parte di chi ha un inglese scolastico o poco più, grazie anche al fatto che usa un vocabolario relativamente ampio e scevro da espressioni in slang troppo estreme; dove cade, purtroppo, è ovviamente nei ritornelli. Onestamente sono meravigliato che persino a distanza di anni sia difficile trovare un MC dell'underground capace di realizzare dei réfrain efficaci e al contempo significativi: non che sia un difetto esclusivamente del Nostro, ma ciò non toglie che passare da una metrica complessa ad una a filastrocca usando adlib a spiovere per me non significa molto se non carenza d'inventiva e/o sforzo compositivo. Ma glissiamo.
Come s'è visto -la ricerca della conferma la lascio a voi- Starr sa stare al microfono, tanto che pure quando gli si affiancano ospiti come Supastition, Asheru e Talib Kweli il nostro non sfigura affatto. Quello che ora bisogna vedere è se la sua tecnica risulti funzionale e se il risultato sia godibile; rispondo affermativamente alla prima domanda e passo alla seconda, che è il vero nocciolo del problema. Come molti rapper, KS è terribilmente autoreferenziale: qualsiasi evento, vuoi anche lontano, è a lui ricollegabile. Le sue storie sono tutte degne di essere raccontate, e le sue sue difficoltà nell'essere un rapper/uomo/amante ecc. vanno esplicitate sempre e comunque. Nulla di drammatico, in teoria: l'accettazione dell'egocentrismo quale che sia è una conditio sine qua non per essere fan dell'hip hop. Il dramma è che, come dire, stando a quanto racconta lui la sua vita non è proprio una fucina di esperienze increddibbili o di aneddoti appassionanti... fatte le debite proporzioni, non è poi tanto diversa dalla mia. La quale può interessare me e le persone a me vicine, molto più difficilmente uno sconosciuto; specialmente se prima non operassi una accurata selezione degli eventi e se non decidessi di esprimermi al meglio delle mie possibilità. Kenn purtroppo questo non lo fa: più che affabulare, redige rapporti; oppure, in alternativa, si lascia andare ad un tono confidenziale parlando di sè stesso in maniera cristallina, peccato però che noi siamo ascoltatori e non psicologi e che quindi subire una sorta di elenco di sue azioni e del perchè le compie non è ciò che io propriamente definirei interessante. Last but not least, tutte le sue turbe prima o poi riafforano quà e là benché siano già state magari discusse in un pezzo precedente: e passi che magari alcune di esse possano pure interessare, ma in una conversazione normale questo modo di comportarsi si chiama asciugare e drammaticamente è proprio questo ciò che il Nostro fa.
Dice: ma anche i Mobb Deep dicono sempre le solite du' palle. Sì, certo, però (1) le sanno dire ogni volta in maniera diversa -consideriamo il periodo dal '95 al '99- e sono capaci di attirare l'attenzione dell'ascoltatore con one-liners da applausi, e poi (2) le loro avventure sono più appassionanti. E' come paragonare Valzer con Bashir al filmino delle vacanze, ecco.
Per fortuna ci sono però i beat , giusto? La risposta è nì, nel senso che per rendere godibile un disco che concettualmente ha ben poco di interessante (l'amore per il reps, la fatica di emergere, l'incapacità altrui... sem semper lì) ci vorrebbe un tappeto sonoro di straordinaria bellezza e/o efficacia, e invece anche qui ciò che passa il convento perlopiù galleggia nel mare del "meh". Il problema è che il grosso delle produzioni pescano nel consueto oceano del philly soul -un must se si vuol passare per reppuso "positivo"- e pertanto avremo di nuovo sottomano una pletora di voci e archi tagliati, con poche o nessuna variazione. La figura più magra la fa Kev Brown ed i suoi tre fiacchi beat, che al di là del non avere nulla di lontanamente memorabile non appaiono nemmeno mixati; lo seguono a ruota un Khrysis col pilota automatico attivato (solita vocina pitchata, solito breve taglio del campione durante la strofa, solito drum pattern for dummies) ed un Illmind in stato catatonico, incapace di spingersi oltre l'eventuale spunto interessante (l'arpa di Against The Grain) -stupisce in tal senso quanto questo sia migliorato nei scorsi tre anni. Oddisee, invece, perlomeno riesce a fare un lavoro decoroso con qualche sporadico guizzo di bontà: If è davvero molto bella col suo suono fortemente influenzato dal dub, ed il pianoforte campionato in Carry On da una botta di vita davvero necessaria al tutto e Know Too Much incrocia elegantemente chitarre funk e clap rimandando il pensiero alla miglior fusion. Il resto non è esattamente da applausi e appare inferiore a quanto da lui fatto per l'esordio di Wordsworth, ma rispetto alle cialtronerie proposte dagli altri pare una ventata di freschezza. Menzione speciale va all'australiano M-Phazes, però, che pur non allontanandosi dall'atmosfera generale sa come far suonare un beat e quindi le sue Middle Fingaz e Back At It Again suonano tanto melodiche quanto potenti e ben si sposano con lo stile di Starr.
E ora le conclusioni. Benché ci sia andato giù pesante, non crediate che Starr Status sia una ciofeca: in quest'ottica mi auguro che i suoi punti positivi siano abbastanza chiari e soprattutto che si capisca che la merda sta altrove. D'altronde è anche vero che qui manca quel tanto di spessore che serve per rendere degno di un ascolto approfondito un disco; e, tragicamente, la controparte musicale non è nemmeno tale da permettere ad uno di ascoltarselo così, en passant, come sottofondo. Da ascoltare per tre tracce, dunque, a meno che non siate relativamente nuovi all'ascolto di certe cose e/o queste vi piacciano particolarmente.



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